Attualità

Commento di Agostino Trapè alla
Lettera Apostolica "AUGUSTINUM HIPPONENSEM"
di Giovanni Paolo II

PREFAZIONE

Ho creduto non inutile scrivere una introduzione e apporre alcune note alla Lettera Apostolica Augustinum Hipponensem. E questo per tre ragioni: richiamare l'attenzione sulla sua importanza, renderne più facile la comprensione e suggerire al lettore di cominciare lo studio di Agostino, auspicato vivamente dalla Lettera, proprio dall'esposizione che ne fa la Lettera stessa.
Non è necessario sottolineare l'importanza della Lettera, che non nasce solo dall'alta autorità che l'ha promulgata, la quale, rivolgendosi a tutta la Chiesa, ha ridetto, in nome della Chiesa, l'ammirazione e la stima verso questo grande Padre dell'antichità cristiana; l'importanza nasce anche e soprattutto dal suo contenuto, ampio, ricco, profondo. Se si fa eccezione per la Lettera Enciclica
Ad salutem humani generis che Pio XI dedicò ad Agostino in occasione del centenario della morte, gli altri interventi pontifici, che non furono pochi, e pur sempre preziosi e significativi, erano inseriti in discorsi di più ampio respiro. Questo documento invece è dedicato solo ad Agostino, alla sua conversione, al suo pensiero, al suo esempio, al suo messaggio, con lo scopo di avvicinare a noi del sec. XX un Padre del sec. V che tanto ancora può dire.
Ma poiché la Lettera rappresenta una forte sintesi, non sempre è di facile lettura, là soprattutto dove parla per rimandi, senza l'esplicito riferimento alle fonti, che sono molte e molto significative.
L'attento lettore può comunque apprendervi tre preziosi indicazioni: la linearità dell'esposizione, il metodo della sintesi, l'esaltazione della conversione come centro spirituale dell'azione pastorale e del pensiero. Tre indicazioni che a chi comincia a studiare Agostino sono sommamente necessarie. Troppo spesso capita che per l'attenzione ai particolari si perda la linearità del discorso agostiniano, che fermandosi su una sola verità ci si dimentichi dell'altra, pur essa indispensabile per completare il quadro. Ci si dimentica soprattutto che Agostino - filosofo, teologo, mistico o pastore - è sempre il convertito che, giunto all'apice del suo cammino di ritorno alla fede, si diede tutto a Cristo.
Questa Lettera (e questa introduzione) vogliono aiutare il lettore a rifare quel cammino.

INTRODUZIONE ALL'INTRODUZIONE

Un'introduzione a questo importante documento pontificio che voglia riuscire davvero utile, deve toccare almeno questi punti: il metodo, il convertito, il costruttore della filosofia cristiana, il difensore della fede ortodossa, il promotore della perfezione spirituale, il pastore, il maestro delle generazioni presenti e future. Il documento, infatti, dopo una breve introduzione sulla stima che i Concili e i Pontefici hanno sempre avuto per il vescovo d'Ippona - tanto che Celestino I un anno dopo la morte lo annovera tra i maestri migliori della Chiesa (inter magistros optimos)1 -, si divide in quattro parti: la conversione, il dottore, il pastore, il messaggio agli uomini di oggi. Una breve conclusione sulla grande utilità di studiare e imitare Agostino chiude l'ampia sintesi.
Un documento denso ed equilibrato, che resterà come una pietra miliare, e tra le più importanti, della stima che la Chiesa cattolica ha sempre avuto per il più grande dei suoi Padri.


CAPITOLO PRIMO

IL METODO

Sul metodo con cui è stato redatto il documento s'impongono alcune osservazioni. La prima è l'insistenza sulla conversione: insistenza dovuta non solo al fatto che la Lettera viene inviata in occasione del XVI centenario della conversione, ma anche alla convinzione che alla conversione si riallacciano le radici stesse del pensiero agostiniano e la forza della sua azione apostolica.

Seconda osservazione: il pensiero agostiniano viene espresso attraverso i grandi binomi che ne costituiscono l'intima trama e ne mostrano l'arditezza, la profondità, la completezza. La Lettera ne descrive cinque: ragione e fede, Dio e l'uomo, Cristo e la Chiesa, libertà e grazia, carità e ascensioni spirituali.

Troppe volte lungo i secoli si è interpretato male questo pensiero perché ci si è fermati su un solo aspetto, trascurando quello opposto che pur entrava ed entra necessariamente nella sintesi. Ci si è fermati sulla fede ma non sulla ragione, su Dio ma non sull'uomo, su Cristo ma non sulla Chiesa, sulla grazia ma non sulla libertà, sul peccato ma non sulla redenzione, sulla carità ma non sull'ascetismo. In questo modo non si è esposto, ma deformato il pensiero di Agostino, il quale questi concetti ha approfondito insieme e insieme li ha difesi ed esaltati: non solo la fede ma anche - e come!- la ragione; non solo Dio ma anche, inseparabilmente, l'uomo; non solo Cristo ma anche, nell'unità del Christus totus, la Chiesa che ne è il corpo; non solo la grazia ma anche, fonte di merito, la libertà; non solo il peccato ma anche, universale e necessaria fonte di salvezza, la redenzione; non solo la carità, che è tutto e senza la quale il tutto è nulla, ma anche l'ascetismo. In questo modo Agostino diventa il maestro delle grandi sintesi che uniscono senza confondere, che abbracciano la realtà senza mutilarla, che indicano in ogni caso le linee dentro le quali deve muoversi il pensiero cristiano se non vuol cessare di essere cristiano. Quante pagine si potrebbero scrivere su questo argomento recensendo le diverse interpretazioni date al pensiero agostiniano, interpretazioni che hanno un fondamento comune: l'insistenza su un aspetto e la dimenticanza o la negazione dell'altro! Ma non è possibile qui1.

La terza osservazione riguarda il riferimento ad Agostino pastore, quasi a dire che l'ufficio pastorale fu accettato, sia pure a malincuore, come ossequio a quel volere di Dio cui si era assoggettato totalmente nel momento della conversione e, più ancora, per ricordare, implicitamente, un importante principio di ermeneutica agostiniana secondo il quale è il pastore che spiega il teologo. Agostino fu soprattutto pastore: furono le circostanze pastorali che lo indussero ad approfondire e maturare la sua grande teologia, e ad esporla ai fedeli perché non fossero ingannati nella loro fede e nella loro pietà.

Una quarta osservazione viene spontanea. Riguarda il discorso sulla conversione, fatto in maniera lineare, con una concordanza implicita delle fonti, fino alla totale consacrazione a Dio, che avvenne dopo e nel contesto del ritorno alla fede cattolica, in quanto quel pellegrino della verità non fu soddisfatto se non quando rinunciò a tutto e non si consacrò totalmente alla ricerca e alla contemplazione della verità, che amava sopra tutto.

Si potrebbe aggiungere una quinta osservazione: la Lettera propone del vescovo d'Ippona una visione che abbraccia la storia. Lo chiama infatti "il padre comune dell'Europa cristiana"2, e, terminando, "un uomo incomparabile di cui un po' tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli"3. Guardando, poi, alle future generazioni esprime "il vivo desiderio che la sua dottrina sia studiata e largamente conosciuta e il suo zelo pastorale imitato, affinché il magistero di tanto dottore e pastore continui nella Chiesa e nel mondo a favore della cultura e della fede". Il nome di Agostino è dunque legato alle sorti culturali e religiose della civiltà. Troppe sono le verità universali che ha difese, chiarite e illustrate, senza le quali non avrebbe senso il problema della vita.

La Chiesa cattolica lo riconosce per suo; non solo: trova nelle sue intuizioni e nelle sue tesi un'espressione spesso brillante della propria dottrina, e se ne serve. Tanto più che il vescovo d'Ippona fu molto attento nel cercare il pensiero della Chiesa nella Scrittura, nella Tradizione e nella Liturgia. Perciò la Chiesa, nei momenti più solenni della sua storia, che sono i Concili, si è rivolta spesso al suo pensiero, e non, come dicono alcuni troppo distrattamente, per canonizzare o dogmatizzare il pensiero di un Padre, sia pure grandissimo, ma perché ha trovato in quel pensiero, profondamente intuito e lucidamente espresso, l'insegnamento cattolico di sempre.

CAPITOLO SECONDO

IL GRANDE CONVERTITO

L'aggettivo non è pleonastico. Non ci sono nella storia della Chiesa conversioni che siano meglio conosciute e più documentate o che abbiano esercitato nella Chiesa un'influenza più profonda e più continua. La tentazione di compararla con quella di S. Paolo viene spontanea, ma è un errore. Non già che quella di Paolo non sia una conversione strepitosa, radicale, sconvolgente, creatrice di una vita totalmente nuova. Ma essa appartiene ad un altro ordine di valori. Quella conversione fece di Saulo un apostolo di Cristo e, insieme agli altri Apostoli, strumento della Rivelazione. Quella di Agostino, come quella di tutti i convertiti, da qualunque sponda siano arrivati alla fede, appartiene alla storia, non alla fondazione della Chiesa. Tutt'al più si può dire col Guitton: "Se l'età dei Padri non avesse avuto Agostino e l'età delle origini non avesse avuto Paolo, il corso della storia occidentale sarebbe stato completamente diverso"1.

Tornando ad Agostino, si può osservare che la sua fu la conversione di un grande pensatore che amò perdutamente la verità e volle possedere ad ogni costo la verità dell'amore. C'erano in lui due profonde realtà: quella del pensiero, che non si placa se non è baciato dal vero, e quella del cuore, che non ha requie se non trova l'oggetto del suo amore, ma non vuole amare per se stesso ciò che per se stesso non dev'essere amato.

La Lettera ne fissa tre momenti salienti: la fede, la grazia, il monachesimo. La fede che ne placa il tormentato pensiero con la luce della verità; la grazia che nel Cristo, maestro e redentore, gli offre la garanzia e gli dona la forza di arrivare a Dio; il monachesimo, o rinuncia ad ogni speranza terrena, che gli permette di aderire totalmente alla sapienza eterna.

1. - La fede. Della fede dice così "Questa conversione ebbe un cammino del tutto singolare, perché non si trattò di una conquista della fede cattolica, ma di una riconquista. Egli l'aveva perduta, convinto, nel perderla, di non abbandonare Cristo, bensì solo la Chiesa"2. Un problema ecclesiale, quindi, non cristologia. Infatti, continua, "era stato educato cristianamente da sua madre, la pia e santa Monica. In forza di questa educazione Agostino restò sempre non solo un credente in Dio, nella provvidenza e nella vita futura, ma anche un credente in Cristo, il cui nome aveva bevuto, com'egli dice, con il latte materno. Tornato alla fede della Chiesa cattolica, egli dirà di essere tornato 'alla religione che mi era stata istillata da bambino e fatta entrare fin nelle midolla'". Ne tira poi questa sapiente conclusione: "Chi vuol capire la sua evoluzione interiore e un aspetto, forse il più profondo, della sua personalità e del suo pensiero, deve partire da questa constatazione"3.

Nonostante il suo grande amore per la verità che l'Ortensio di Cicerone gli aveva insinuato, Agostino cadde in gravi errori: "Gli studiosi ne cercano le cause e le trovano in tre direzioni: nell'errata impostazione delle relazioni tra la ragione e la fede, quasi che si dovesse scegliere tra l'una e l'altra; nel supposto contrasto tra Cristo e la Chiesa con la conseguente persuasione che occorresse abbandonare la Chiesa per aderire più pienamente a Cristo; nel desiderio di liberarsi dalla coscienza del peccato non attraverso la sua remissione per opera della grazia ma attraverso la negazione della responsabilità umana nel peccato stesso4".

Su queste tre radici degli errori agostiniani gli studiosi, cui la Lettera si appella, hanno scritto molto e fatto lunghe disquisizioni che qui non è possibile riportare neppure per accenni. Ma resta sempre utile consultarne qualcuna5. Da esse appare che la ricostruzione della conversione che la Lettera offre è la più conforme al tenore dei testi.

Dalle tre matrici indicate nacquero gravi errori, tra i quali, i più gravi, il razionalismo, il materialismo, lo scetticismo. Il primo gli fu insinuato dall'Ortensio di Cicerone - "mi persuasi di dover seguire non coloro che comandavano di credere, ma coloro che insegnano la verità"6-; il secondo gli venne dalla concezione manichea cui aveva aderito; il terzo fu conseguenza della delusione patita. La Lettera narra rapidamente il superamento di tutti e tre e la raggiunta consapevolezza della necessità della fede: "Comprese che ragione e fede sono due forze destinate a cooperare insieme per condurre l'uomo alla conoscenza della verità, che ognuna di esse ha un primato: temporale la fede, assoluto la ragione -'per importanza viene prima la ragione, in ordine di tempo l'autorità della fede'-. Comprese che la fede per essere sicura richiede un'autorità divina, che questa autorità non è altro che quella di Cristo, sommo Maestro - di questo Agostino non aveva mai dubitato -, che l'autorità di Cristo si ritrova nelle Sacre Scritture, garantite dall'autorità della Chiesa cattolica"7.

2. - La grazia. Ma osserva anche che dopo la lettura dei neoplatonici, i quali lo aiutarono efficacemente a liberarsi dal materialismo, gli nacque un nuovo problema, quello della grazia o via per raggiungere la mèta.

Conosceva ormai la Sapienza, che non è di ordine sensibile ma intelligibile ed è immortale, ha bisogno di essere raggiunta e posseduta. Ma come raggiungerla, come possederla? Era il problema fondamentale della mediazione, a cui non aveva pensato abbastanza, tutto preso dal desiderio di conoscere la mèta, la sua vera natura, la sua realtà. I platonici lo avevano aiutato in questo, ma gli avevano insinuato l'errore del naturalismo: l'uomo giunge a Dio con le sue forze.

Agostino si accorse intellettualmente ed esistenzialmente - si veda l'esperienza dell'estasi (Confessioni 7, 17, 23) - che ciò non era possibile. Si pose apertamente il problema e volle scioglierlo. Lo sciolse di fatti immergendosi nella lettura di S. Paolo, dove trovò il Cristo non solo come supremo Maestro, ma anche come Mediatore unico, Redentore universale, fonte di grazia. La grazia, invocata con umiltà dall'uomo peccatore, permette di raggiungere la meta che la fede propone: "Ritrovato Cristo Redentore e afferratosi a Lui, Agostino era tornato al porto della fede cattolica, alla fede in cui era stato educato da sua madre: 'Avevo udito parlare sin da fanciullo della vita eterna, che ci fu promessa mediante l'umiltà del Signore Dio nostro, sceso fino alla nostra superbia '"8

3. - Monachesimo. Se non che il cammino non era ancora concluso, osserva ancora la Lettera. In realtà nell'animo di Agostino rinacque un antico proposito, quello di abbandonare ogni speranza terrena per abbracciare con tutte le potenze dello spirito la Sapienza immortale. Era l'ideale monastico, quello della filosofia concreta che un correligionario, Ponticiano, gli rivelò a Milano parlandogli degli esempi di Antonio: ideale che corrispondeva molto bene alle esigenze della mente e ai bisogni del cuore. Ma gli ostacoli erano molti, uno soprattutto: la famiglia. Si creò un dramma che Agostino narra nel libro VIII delle Confessioni.

Di quel libro la Lettera nota la conclusione: la narrazione alla madre della difficile decisione, riportando le celebri parole che suonano come un bollettino di vittoria: "Ci rechiamo da mia madre e le riveliamo la decisione presa: ne gioisce; le raccontiamo lo svolgimento dei fatti: esulta e trionfa. E cominciò a benedirti perché puoi fare più di quanto chiediamo e comprendiamo (Ef 3, 20). Vedeva che le avevi concesso a mio riguardo molto più di quanto ti aveva chiesto con tutti i suoi gemiti e le sue lacrime pietose. Infatti mi rivolgesti a te così appieno, che non cercavo più né moglie né avanzamenti in questo secolo"9

Poi l'inizio della nuova vita: termine dell'anno scolastico - mancava una trentina di giorni all'inizio delle vacanze vendemmiali -, il rifugio nella solitudine di Cassiciaco, il battesimo a Milano (24-25 aprile del 387), la partenza per l'Africa, la morte di Monica ad Ostia Tiberina, lo studio a Roma del movimento monastico, il ritorno in Africa, la vita monastica a Tagaste, che continua poi ad Ippona da sacerdote e da vescovo. Il tutto collegato alla conversione.

E quest'ultimo particolare che merita rilievo. La Lettera ricollega alla conversione non solo la vita posteriore di Agostino, com'era ovvio, ma anche il suo pensiero; sembra aderire, senza dirlo, al principio di Jaspers: "Il pensiero di Agostino è fondato sulla sua conversione"10.

CAPITOLO TERZO

"IL COSTRUTTORE GENIALE DELLA FILOSOFIA CRISTIANA"

Così il S. Padre chiama il vescovo d'Ippona1, e con ragione. Molti studiosi moderni, i più attenti alla storia della filosofia, sono pienamente d'accordo, tanto che lo considerano "il solo grande filosofo cristiano" o "il più forte pensatore che il mondo cristiano abbia avuto in ogni tempo" o ancora "la figura più originale del pensiero cristiano". Questi giudizi, alcuni almeno (come il primo), possono far torto ad altri pensatori del cristianesimo, ma dicono fuori di ogni dubbio la grande stima che si nutre per questo pensatore che ha ricercato sempre con inquieto desiderio la verità e, trovatala, l'ha validamente approfondita e difesa. Si sa che lo Jaspers lo annovera tra i tre grandi creatori della filosofia.

In realtà il pensiero filosofico agostiniano, così universale e cosi profondo, si può riassumere comodamente nei grandi princìpi che lo animano, nei grandi temi che lo occupano, nelle grandi soluzioni che lo qualificano. I princìpi sono tre: l'interiorità, la partecipazione, l'immortalità; i grandi temi sono due: Dio e l'uomo; le grandi soluzioni di nuovo tre: la creazione, l'illuminazione, la beatitudine.

In questo ampio panorama Agostino ha l'occasione e la necessità di affrontare e di risolvere infiniti problemi. Per la creazione: creazione dal nulla, concetto difficile ma necessario; creazione nel tempo, che pone il non facile rapporto tra il tempo e l'eternità; creazione della materia e dei corpi, che taglia corto con ogni ombra di dualismo; fine della creazione, che non può essere altro che la bontà di Dio e la bontà delle cose. Per l'illuminazione: la natura dello spirito umano connesso con le realtà intelligibili ed immutabili; la natura della luce invisibile, che è partecipazione della luce di Dio ed è della stessa natura dell'anima; la distinzione tra la conoscenza sensibile e quella intelligibile. Per la beatitudine: la sua connessione con la morale e la giustizia; l'oggetto proprio, che non può essere altro che il bene infinito; le proprietà, che sono essenzialmente due: l'eternità e la consapevolezza che la beatitudine sia realmente eterna, poiché senza queste due prerogative, dice insistentemente Agostino contro i platonici, non c'è beatitudine.

Particolarmente interessante la filosofia agostiniana su l'uomo e Dio. La Lettera si sofferma su questo binomio indicandone con preferenza la stretta connessione. Scrive: "Ma dove il genio di Agostino si esercitò maggiormente fu nello studiare la presenza di Dio nell'uomo, presenza che è insieme profonda e misteriosa"2, tanto che Agostino può dire a Dio, come ricorda lo stesso S. Padre: "Tu eri più intimo della mia parte più intima e più alto della mia parte più alta3". Perciò "chiunque non trova se stesso, non trova Dio, perché Dio è nel profondo di ciascuno di noi"4.

Chi non annovera Agostino tra i grandi costruttori della filosofia cristiana lo fa o perché ricusa il concetto stesso di filosofia cristiana o perché annovera Agostino tra i platonici e passa oltre. Ma il concetto di filosofia cristiana nel senso in cui la usa il Pontefice è irrecusabile5; dell'altro senso disputi chi vuole6: stia però attento a non farne un'inutile arida teoria separata completamente dal problema della vita, per cui la filosofia non sarebbe più filosofia. Sul platonismo agostiniano occorre spendere qualche parola di più. Ho toccato l'argomento altre volte7 ma giova tornarci sopra.

Giova tornarci sopra per dire che i giudizi di Agostino sui neoplatonici sono di alto elogio all'inizio, di forte critica alla fine. Un esempio dei primi si ha nella prima opera: "Riguardo poi a ciò che si deve raggiungere con l'acume della ragione, ho fiducia di trovare frattanto (interim) nei platonici ciò che non ripugna ai nostri sacri misteri"8. Il testo, citato dagli scolastici (S. Tommaso compreso), è molto conosciuto. Ma pochi (nessuno?) hanno posto mente a quell'interim che prelude ad atteggiamenti diversi. Il neoconvertito sentiva fin da allora di poter andare per la sua strada. E ci andò.

Infatti l'entusiasmo andò pian piano smorzandosi fino a diventare opposizione aperta.

Di questa opposizione è testimonianza un testo delle Ritrattazioni che dice: "Occorre difendere la dottrina cristiana contro i loro grandi errori"9. Questo testo dice senza mezzi termini sino a che punto e quanto profondamente il filosofo Agostino abbia corretto i filosofi platonici. Ma purtroppo non c'è chi prenda in considerazione il testo. In ogni caso esso trova pieno riscontro nelle opere agostiniane.

Agostino critica duramente i platonici sui concetti fondamentali della filosofia: la creazione, la conoscenza, l'amore e la beatitudine; l'uomo, la storia e la libertà. A ciascuno di essi sostituisce concetti razionalmente ineccepibili e conformi alla fede cattolica. In sintesi sono: la creazione dal nulla, la creazione nel tempo, la creazione libera, la creazione secondo le ragioni seminali, comprendente la stessa materia, la bellezza dell'universo e il male che Dio permette, e lo permette perché è tanto onnipotente e buono da trarre il bene dal male; l'illuminazione o Dio sole dell'anima e maestro interiore; la beatitudine che non è vera se non riempie le capacità dell'anima, e se non è eterna e incancellabile; l'uomo, composto di anima e di corpo, che non può essere beato se non quando l'uno e l'altro elemento che lo compongono abbiano raggiunto l'immortalità; la storia che comincia con la creazione, si svolge come un poema nel segno della libertà dell'uomo e dell'azione misteriosa di Dio fino ai debiti fines; la libertà che passa dal posse peccare del tempo al non posse peccare dell'eternità.

Questo vasto panorama filosofico non merita più il nome di platonico, anche se dal platonismo è partito, ma un nome nuovo, precisamente quello di filosofia cristiana. Di questa filosofia Agostino è il primo geniale costruttore. La Lettera giustamente lo ricorda e lo afferma. Ma non si attarda a dimostrarlo. Non c'è bisogno di dirne la ragione, che è evidente: il suo scopo non è teorico ma pastorale.

Nonostante ciò, non omette di accennarvi. Illustra infatti due binomi tipicamente agostiniani: ragione e fede, Dio e uomo, che permettono utili considerazioni sul panorama filosofico. Dal primo binomio nasce il rilievo che il filosofo, restando filosofo, può essere credente, perché la fede include la ragione, non è contro di essa: "Nessuno crede - ripete la Lettera con Agostino - se prima non ha pensato di dover credere", tanto che "la fede che non sia pensata non è fede"10.

Anzi egli stabilisce un raffronto tra fede e ragione, e assegna a ciascuna un primato: il primato temporale alla fede, il primato assoluto alla ragione. Attraverso la fede infatti si giunge alla visione della verità, sempre velata dal mistero e pur tanto preziosa qui in terra, immediata e fulgida al termine della storia. La divina rivelazione ci chiede, si, la fede, ma ci promette la visione. Per giungere ad essa la collaborazione tra ragione e fede è indispensabile.

Da questa intuita e professata collaborazione nasce appunto la filosofia cristiana. Di essa il vescovo d'Ippona mostra il fondamento e lo spazio.

Il filosofo cristiano deve avere una duplice preoccupazione: conoscere Dio e l'uomo11, cioè Dio e se stesso, sapendo che non può conoscere Dio se non conoscendo se stesso. La Lettera v'insiste: "L'uomo non s'intende se non in ordine a Dio"; "chiunque non trova se stesso non trova Dio, perché Dio è nel profondo di ciascuno di noi"12. Perciò al binomio ragione-fede segue quest'altro: Dio e l'uomo. Questo secondo offre l'opportunità di dire qualcosa del molto che Agostino ha detto su questi due immensi argomenti che costituirono per sempre il suo grande assillo.

Conoscere Dio fu la grande passione di Agostino. Ma Dio è incomprensibile ed è ineffabile. Egli lo sa e lo ridice, anzi sentenzia che "è migliore l'ignoranza fedele che la scienza temeraria13". Di conseguenza è convinto che "non è un piccolo principio nella conoscenza di Dio se prima di sapere ciò che Egli è, cominciamo a sapere ciò che Egli non è"14. Guidato da questa convinzione, passa in rassegna, da acuto filosofo, le categorie di Aristotele per mostrare ciò che non dobbiamo pensare e ciò che possiamo pensare di Dio. Ecco uno splendido testo riportato in parte anche dalla Lettera: "Concepiamo Dio, se possiamo, per quanto lo possiamo, buono senza qualità, grande senza quantità, creatore senza necessità, al primo posto senza collocazione, contenente tutte le cose ma senza esteriorità, tutto presente dappertutto senza luogo, sempiterno senza tempo, autore delle cose mutevoli pur restando assolutamente immutabile ed estraneo ad ogni passività. Chiunque concepisce Dio a questo modo, sebbene non possa ancora scoprire perfettamente ciò che è, evita almeno con pia diligenza, per quanto può, di attribuirgli ciò che non è"15

Ma la concezione di Dio che Agostino cerca non vuol essere soltanto negativa o, come dicono alcuni, apofantica, ma egli vuol sapere, positivamente, che cosa ama quando ama il suo Dio. La risposta classica a questa esigenza sta nelle Confessioni: "Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea... non lo splendore della luce... non le dolci melodie... non la fragranza dei fiori... non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell'amare il mio Dio: la luce, la voce, l'odore, il cibo, l'amplesso dell'uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento ov'è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio" 16.

Questo testo, dove la filosofia è superata solo dalla poesia, non ha bisogno di commenti, o ne merita uno tanto lungo che qui non è possibile fare. Dirò solo che per cercare una nozione positiva di Dio Agostino parte dalla forma triadica dello spirito umano, che comprende l'essere, la conoscenza e l'amore, e concepisce Dio (aiutato in questo anche dalla Scrittura che contiene ed esprime la grandi filosofia su Dio) come Essere supremo, somma Sapienza e primo Amore, da cui procede ogni essere, ogni conoscenza, ogni amore.

Per aggiungere ancora un'idea, dirò che la più alta speculazione agostiniana su Dio riguarda l'assoluta semplicità, lungamente discussa nella Città di Dio e riassunta in quella proposizione ricordata anche dalla Lettera: "Si dice di Dio che è semplice perché è tutto ciò che ha"; e, poiché il discorso si svolge nel contesto trinitario, aggiunge: "eccetto le relazioni per cui ogni Persona si riferisce all'altra"17.

Al discorso su Dio è legato strettamente quello sull'uomo. La Lettera ricorda in proposito tre capisaldi del pensiero agostiniano: 1) il rapporto costituzionale dell'uomo con Dio; 2) l'uomo grande abisso e insieme grande problema; 3) l'interiorità come luogo dove si accolgono le ricchezze inesauribili della verità e dell'amore e dove l'uomo riconosce la sua grandezza ma anche, inequivocabilmente, la sua miseria.

Il rapporto con Dio viene indicato su tre direttrici: 1) l'uomo in movimento verso Dio: verità, questa, espressa tante volte, la più celebre nelle Confessioni: "Ci hai fatto per Te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in Te"18; 2) l'uomo immagine di Dio, immagine che porta "impressa immortalmente nella natura immortale dell'anima19": la Lettera riporta testualmente queste stupende parole; 3) l'uomo capax Dei e perciò indigens Deo, cioè in grado di essere elevato fino alla visione di Dio e bisognoso di giungere a Dio per avere la piena beatitudin20.

Da questo insopprimibile rapporto sorge la grandezza e la miseria dell'uomo o, come dice Agostino, l'uomo grande profundum e l'uomo magna quaestio, abisso insieme e problema: abisso per le ricchezze che possiede, problema per gli interrogativi e i mali che lo circondano. L'uomo è un 'mistero ', dice il C. Vat. II, e dice bene: il mistero della morte, quello della divisione tra la carne e lo spirito, quello, non ultimo, dello squilibrio insanabile tra ciò che è e ciò che desidera; questo, quel che desidera, va sempre oltre, molto oltre di ciò che possiede, che non riesce mai, perciò, a sentirsi appagato. "Se tutte le cose che amo quando non le ho, - scrive acutamente Agostino - io le disprezzo quando le ho avute, quale sarà il bene che Potrà saziarmi?" 21

Questa grandezza e questa miseria si scoprono nell'interiorità, su cui Agostino ha tanto insistito da doverlo considerare il fulcro del suo pensiero. Il testo classico si trova nel De vera religione 39, 72. La Lettera lo cita per intero mostrando giustamente che l'interiorità agostiniana consta di due elementi essenziali e inseparabili: tornare in se stessi e trascendere se stessi22. Nell'uomo interiore abita, è vero, la verità; ma questi discende dalla fonte e~ della luce, che è Dio. Occorre dunque ritrovare la verità e insieme la sua fonte, perché l'uomo ritrovi se stesso.

Ma con la verità l'uomo ritrova in sé l'inesauribile capacità d'amare che, come un peso23 ,lo porta verso gli altri e, prima di tutto, verso l'Altro. Da questa capacità d'amare, illuminata dalla verità, nascono gli interrogativi che tormentano la mente umana e creano tanti dolorosi problemi, che l'uomo sente ma non sa risolvere. La Lettera vi accenna ricordando con le parole agostiniane la consolante e insieme tristissima constatazione dell'uomo sociale: "Nessuno è tanto sociale per natura quanto l'uomo; - questo è consolante, ma Agostino aggiunge - nessuno quanto l'uomo è tanto antisociale per vizio"24. La storia e la vita di ogni giorno insegnano.

Quale la soluzione all'uomo "problema"? Una sola: Cristo. Il S. Padre lo aveva detto nella sua prima enciclica, la Redemptor hominis, e lo ridice qui esponendo Agostino che di questo argomento fu filosofo e teologo insieme: filosofo nell'impostare, acutamente, i problemi; teologo nell'offrirne e difendere, per mezzo della fede, la soluzione. Proponendo questa soluzione, la Lettera parla a lungo della teologia agostiniana raccogliendola in due grandi binomi: Cristo e la Chiesa, libertà e grazia. Aveva detto cominciando che egli fu un intrepido difensore della fede ortodossa, di quella fede che offre appunto la soluzione dei grandi problemi dell'uomo. Seguiamone la traccia.

CAPITOLO QUARTO

"DIFENSORE INTREPIDO DELLA FEDE ORTODOSSA"

Così ancora lo chiama la Lettera1. Agostino cominciò la sua attività letteraria studiando problemi filosofici. Ne nacquero i Dialoghi di Cassiciaco, di Milano, di Roma, di Tagaste. Ma ben presto, proprio a Roma, egli si accorse che bisognava difendere la fede che aveva ritrovato da poco e aveva abbracciato con tanto entusiasmo. Se ne accorse, scese in campo e restò sulla breccia per tutta la vita, che durò ancora 42 anni.

I suoi avversari furono gli avversari della fede cattolica: i manichei, i donatisti, i pelagiani, gli ariani, i pagani; avversati in quanto negavano o deformavano la fede, poiché per il resto era pieno di rispetto per loro e mosso da un grande amore, un amore che non voleva vincere ma servire. Egli fece suo applicandolo alla Chiesa peregrinante il principio che è proprio, pienamente, della Chiesa celeste: ubi victoria veritas2. La sua polemica non aveva nulla di personale, di amaro, di violento; insisteva nel dire che la vittoria non è dell'uomo sull'uomo, ma su tutti della verità, la quale esalta e libera, non umilia alcuno.

Dalla polemica la teologia. Questa spazia necessariamente su tutto l'orizzonte dei dommi cristiani, negati o deformati da questo o quell'avversario. Ognuno infatti toccava un settore o un aspetto della fede. Nasceva pertanto la necessità di approfondirlo, chiarirlo, difenderlo. Agostino lo fece, e divenne, quasi senza volerlo, il più universale dottore della Chiesa. Non c'è, si può dire, tema dommatico su cui non abbia proiettato la sua luce, determinando un grande progresso d'intelligibilità. Di questa molteplicità di argomenti la Lettera ne sceglie due, o meglio quattro, che, espressi in due grandi binomi, illustra brevemente. I due binomi si collocano al centro del pensiero agostiniano e lo riassumono.

1 - Cristo e Chiesa. Che Cristo sia al centro del pensiero agostiniano nessuno ne dubita. Le "Pagine sante", avverte il nostro dottore, parlano di Cristo in tre modi: 1) Cristo Dio uguale e coeterno al Padre; 2) Cristo Dio-uomo dopo l'incarnazione; 3) Cristo totale - Christus totus -, capo e corpo, nella pienezza della Chiesa3. La Lettera ne dice qualcosa ed io con essa.

a) Cristo. Per dare un ordine ai molti pensieri si può dire che l'acume teologico di Agostino intorno alla sacra persona di Cristo si volse principalmente: 1) al Verbo presso il Padre; 2) al Verbo fatto carne, apparso uomo in mezzo a noi e in tutto simile a noi eccetto il peccato; 3) all'unica persona in Cristo Dio-uomo; 4) alla mediazione di Cristo uomo tra Dio e gli uomini, sì da essere la via universale della salvezza; 5) alla redenzione che è insieme necessaria, oggettiva, universale; 6) al sacrificio della croce verissimo, liberissimo, perfettissimo; 7) alla resurrezione modello e causa della nostra; 8) a Cristo "via, verità e vita", testo che Agostino usa e spiega spessissimo; 9) a Cristo fonte e datore di grazia. £ difficile dire di più, è difficile dire di meglio.

Il S. Padre non poteva parlare di tutto, ma non ha omesso di rievocare dell'immenso panorama agostiniano alcuni temi fondamentali per il domma cattolico. Il primo è l'unità della persona in Cristo. Le formule agostiniane sono così limpide e forti che precorrono quelle del concilio di Calcedonia. Si rilegga il testo di una delle ultime opere riportato dalla Lettera4. e quelli più incisivi dei discorsi: "Una persona in due nature"5.; "Colui che è uomo, quello stesso è Dio, e colui che è Dio quello stesso è uomo, non per la confusione della natura ma per l'unità della persona"6.

Il secondo tema è quello di Cristo-uomo, su cui Agostino insiste non meno che su Cristo-Dio. V'insiste proprio contro il vescovo di Milano, Ambrogio, che pur venerava come padre7. Giova riportare più ampiamente un testo che la Lettera riassume. Ambrogio, volendo scusare Pietro per la negazione di Cristo, scrive che aveva rinnegato l'uomo, non Cristo. Agostino considera questo modo di scusare Pietro una "falsa pietà", e replica vivacemente: "Come se rinnegare Cristo uomo, non sia rinnegare Cristo; rinnega Cristo chi rinnega in lui ciò che egli si è fatto per noi, alfine di salvare ciò che ha fatto. Chi dunque confessa che Cristo è Dio, ma lo rinnega come uomo, Cristo non è morto per lui, perché Cristo è morto come uomo. Chi rinnega l'umanità di Cristo, non può essere riconciliato con Dio per mezzo del mediatore. Unico è infatti Iddio, unico anche il mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù... A quale titolo Cristo è capo della Chiesa, se non perché è uomo, se non perché il Verbo si è fatto carne, cioè perché il Figlio unigenito di Dio Padre e Dio egli stesso, si è fatto uomo? Come può dunque appartenere al corpo di Cristo chi rinnega l'uomo Cristo? Come può essere membro del corpo chi rinnega il capo?" 8. Questo testo vale molti altri che mi dispenso dal citare. Dunque senza Cristo uomo né mediazione, né riconciliazione, né giustificazione, ne risurrezione, né appartenenza alla Chiesa. È difficile dire di più e più in breve su che cosa è per noi l'uomo Cristo.

Il terzo tema che la Lettera tocca è quello appunto della mediazione9. Agostino ne parla molto: nelle Confessioni10. e ne La Trinità11. per ragioni teologico-contemplative, ne La Città di Dio12 per ragioni polemiche, nei Discorsi13 per ragioni parenetiche. Anzi proprio dai Discorsi vale la pena riportare un testo dommatico che precisa il concetto di mediazione: Cristo è mediatore "perché è Dio come il Padre e uomo come gli uomini. Non mediatore l'uomo privo della divinità, né Dio privo dell'umanità. Ecco il Mediatore. La divinità senza l'umanità non è mediatrice, come non lo è l'umanità senza la divinità. Ma fra l'umanità sola e la divinità sola è mediatrice l'umana divinità e la divina umanità di Cristo" 14.

Il quarto tema è quello della redenzione, redenzione universale. Cristo è morto per tutti. Agostino ripete molte volte il testo di Paolo (2 Cor 5, 14) e l'interpreta nel senso del più genuino universalismo, tanto che ne deduce l'universalità del peccato originale. Paolo continua: dunque tutti sono morti. Agostino interpreta: morti a causa del peccato, almeno del peccato originale. La Lettera propone qui, senza polemiche, una dottrina agostiniana fondamentale, eppure poco o affatto conosciuta, anzi spesso, indirettamente, negata: la dottrina del peccato originale dedotta dall'universalità della redenzione15. Negare questa dottrina vuol dire, per Agostino, rendere vana la croce di Cristo (1 Cor 1, 17). Egli se ne fa una bandiera e, quando occorra, un'arma di difesa. L'umanità dunque ha contratto due grandi solidarietà - la Lettera lo ricorda con il vescovo d'Ippona -, l'una con Adamo per la morte, l'altra con Cristo per la vita: "Tutta la fede cristiana consiste di conseguenza nella causa di due uomini"16.

b) Chiesa. Ma se Cristo è al centro del pensiero agostiniano, si deve concludere che al centro del medesimo è anche la Chiesa, inseparabile da Cristo. In realtà uno dei temi teologici più cari al vescovo d'Ippona, più profondi, più frequenti, quello da cui tira le più insospettate conclusioni, è il Christus totus, il Cristo totale, capo e corpo. E il corpo è la Chiesa, che costituisce con Cristo una sola persona mistica, diventando proprio per questa ragione il più sublime segno dell'amore di Dio: "Dio non avrebbe potuto elargire agli uomini dono più grande di quello di costituire loro capo lo stesso suo Verbo per cui mezzo aveva creato l'universo, unendoli a lui come membra, in modo che egli fosse Figlio di Dio e figlio dell'uomo, unico Dio insieme con il Padre, unico uomo insieme con gli uomini"17.

Di questo dono, che potremmo chiamare fontale, derivano gli altri doni o proprietà che Dio ha elargito alla Chiesa. Perché corpo mistico di Cristo, essa: 1) è animata dallo Spirito Santo che è lo Spirito di Cristo; 2) è la comunione degli uomini nell'unità della fede; 3) è portatrice di santità e santa essa stessa, nonostante i peccatori che vivono nel suo seno; 4) è madre e maestra degli uomini.

La Lettera ricorda queste proprietà, esprime la meraviglia per la loro "profondità e bellezza" ed esorta tutti ad indagare "una dottrina che non sarà mai studiata abbastanza, particolarmente sotto l'aspetto della carità che anima la Chiesa come effetto della presenza in lei dello Spirito Santo"18. Perché il lettore continui con maggiore entusiasmo questo studio o lo intraprenda se non l'avesse incominciato, ecco alcune parole di commento.

Prima di tutto il principio, cioè l'affermazione chiara e piena di stupore dell'unione ineffabile tra Cristo e la Chiesa, che è quella che costituisce il Cristo totale: "Non soltanto siamo diventati cristiani, ma siamo diventati Cristo stesso. Capite, fratelli? vi rendete conto della grazia che Dio ha profuso su di noi? Stupite, gioite: siamo diventati Cristo! Se Cristo è il capo e noi le membra, l'uomo totale è lui e noi... Pienezza di Cristo sono dunque il capo e le membra. Cosa vuol dire il capo e le membra? Il Cristo e la Chiesa"19.

La prima conclusione di questo principio è la presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Si sa che Agostino ha parlato molto dello Spirito Santo e che ha determinato su questo argomento un grande progresso dommatico. Ne ha approfondito insieme due aspetti: la presenza in seno alla Trinità e l'azione nella storia della salvezza, insegnando come da questa azione si possa salire, argomentando, a quella presenza e come da quella presenza si possa scendere, contemplando, a riconoscere quest'azione.

In seno alla Trinità lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio, ma principaliter dal Padre, che è il principio di tutta la divinità20; procede come Amore, come Dono, e perciò, pur essendo uguale al Padre e al Figlio, non è generato. Lo deduce, a conferma della fede contro i "garruli ragionatori"21, dall'attribuzione allo Spirito Santo di tutto ciò che nella storia della salvezza si riferisce all'amore e dalla processione dell'amore nell'uomo interiore, nel quale l'amore appunto procede dalla mente e dal verbo, ma non come verbo bensì come peso: "La volontà ( = amore) procede dal pensiero, ma tuttavia non è immagine della conoscenza, e perciò in questa realtà intellegibile è suggerita una certa differenza tra nascita e processione, perché non è la stessa cosa vedere col pensiero e desiderare o anche fruire con la volontà"22.

Ma il vescovo d'Ippona non ha parlato meno della presenza dello Spirito Santo nella Chiesa. Per spiegarsi in breve usò un esempio breve ed efficace, lo stesso usato per illustrare il mistero dell'Incarnazione: il composto umano23. Questa volta suona così. "Ciò che l'anima è per il corpo, questo stesso è lo Spirito Santo per il corpo di Cristo che è la Chiesa". Evidentemente questo raffronto non si deve intendere della causa formale quasi che lo Spirito Santo informi la Chiesa come l'anima il corpo, ma dell'azione che lo Spirito Santo esercita nella Chiesa come l'anima nel corpo. Agostino lo dice subito dopo. Continua infatti così. "Lo Spirito Santo opera in tutta la Chiesa ciò che opera l'anima in tutti i membri di un solo corpo"24. Distinzione del resto ovvia, che egli suppone quando spiega l'azione dell'anima nel corpo, la quale assomiglia in tutto all'azione dello Spirito Santo nella Chiesa, cioè causa di vita, di movimento' di unità, di bellezza. Questo luminoso raffronto diventa, poi, un principio, da cui il nostro dottore tira molte conclusioni riguardanti l'appartenenza alla Chiesa, la vita della Chiesa, l'amore per la Chiesa. Una particolarmente importante fu molto cara al Conc. Vat. II, ed è in realtà molto ricca e feconda: la Chiesa comunione.

Agostino v'insiste con particolare compiacenza e ne indica la radice trinitaria: la Chiesa è comunione dei fedeli per mezzo di Colui che in seno alla Trinità è l'amore, la comunione, la societas del Padre e del Figlio. Il concetto di Chiesa-comunione può essere preso come chiave interpretativa del pensiero ecclesiologico, così molteplice e vario, del vescovo d'Ippona. Lo usa infatti in tre modi diversi: comunione dei sacramenti, comunione dei santi, comunione dei beati. La Lettera li ricorda, come ricorda, con un'ampia citazione, l'aspetto trinitario di questa stupenda dottrina. Giova rileggere quella bella pagina25.

La presenza dello Spirito Santo nella Chiesa opera un altro effetto prezioso, anzi quello che rappresenta la ragione stessa della vita della Chiesa: la santità. Dovette occuparsene in particolare nella controversia donatista; e se ne occupò da gran teologo, dimostrando due verità fondamentali: 1) la Chiesa qui in terra è composta di buoni e di cattivi: la Chiesa senza macchia e senza ruga di cui parla l'Apostolo (Ef 5, 27) è solo quella dei beati nel cielo; 2 la malizia dei cattivi non contamina ma mette solo alla prova la santità dei buoni. Osserva però che chi rompe l'unità della Chiesa, come fanno appunto gli scismatici quali erano i donatisti, non possiede la carità, perché proprietà essenziale della carità è procurare e rafforzare l'unità. Dove manca l'amore per l'unità manca la carità e dove manca la carità manca la santità, la salvezza, Dio. Né vale a supplire la carità il martirio, perché, come tante volte Agostino ripete, martyrem non facit poena, sed causa26. Questo intreccio di idee costituisce il tessuto di tante pagine agostiniane, nelle quali ricorrono spesso esortazioni come questa: "Se volete vivere dello Spirito Santo, abbiate la carità, amate la verità, desiderate l'unità, e perverrete all'eternità"27.

Ma la Chiesa, essendo corpo mistico di Cristo e tempio dello Spirito Santo, possiede altre due prerogative che ne distinguono e ne impegnano la missione: è madre e maestra. La Lettera non poteva ignorarle. Il neoconvertito Agostino le scoprì poco prima della sua conversione e trovò in esse l'ancora di salvezza. Ad esse si afferrò e, nonostante tutto, restò sicuro nella Chiesa: In Ecclesia manebo securus 28.

Già in una delle prime opere, scritta a Roma, la chiama "madre verissima dei cristiani" ed eleva un canto alla sua sapienza29. Divenuto sacerdote e iniziato col 394 il dialogo con i donatisti, scrisse un Salmo abecedario da far recitare al popolo, nella cui conclusione la Chiesa interpella i Donatisti e fra l'altro dice loro: "O figli miei, perché vi lamentate di vostra madre? Voglio sapere perché mi avete abbandonato. Voi accusate i vostri fratelli ed io vengo profondamente lacerata"30. Davvero nessuno, come nota la Lettera, ha parlato della Chiesa - della Chiesa madre - con tanto affetto e con tanta commozione31.

La Chiesa dunque è madre: due infatti ci hanno generato per la morte, Adamo ed Eva, e due per la vita, Cristo e la Chiesa32. Madre, ma anche vergine. Come Maria. Madre per l'ardore della carità, poiché la carità "a nessuno è nemica e a tutti è madre"33; vergine per l'integrità della fede, che è appunto la verginità della mente, la più preziosa, la più necessaria. Per contribuire a conservare alla Chiesa questa verginità Agostino sostenne con coraggio ed entusiasmo tutte le controversie che sostenne, che furono molte, lunghe, faticose. A buon diritto la Lettera lo chiama "intrepido difensore della fede ortodossa o, com'egli diceva, della verginità della fede" 34.

A questa verginità della fede è legato il compito di annunziare la parola rivelata. Perciò è anche maestra, maestra perché madre e, rovesciando pure la frase, madre perché maestra. Essa infatti non ha solo il compito di conservare intatta la fede, ma anche quello di proporla per generare nuovi figli a Cristo fino a quando tutti gli uomini non abbiano obbedito alla parola della fede.

Questo magistero garantito dallo Spirito Santo, che è presente nella Chiesa, dà ai fedeli sicurezza e libertà. t un pensiero che Agostino ripete spesso: "Così, come ho detto spesso e ripeto insistentemente: qualunque cosa noi siamo, voi siete sicuri, voi che avete Dio per Padre e la Chiesa per Madre"35. È l'in Ecclesia manebo securus (resterò sicuro nella Chiesa) che egli sentiva e che voleva trasmettere ad ognuno dei fedeli.

Alcuni accenni, quelli che precedono, a commento delle pagine dedicate dalla Lettera al grande binomio agostiniano, Cristo-Chiesa36. Ad esso ne segue un altro, non meno denso e non meno importante, anzi più importante perché più difficile: libertà e grazia37. Il S. Padre, anche se non dice tutto - né poteva dir tutto -, indica le linee essenziali lungo le quali occorre capire la dottrina agostiniana su questo difficile problema. Seguiamone l'insegnamento.

2. Libertà e grazia. La Lettera s'introduce a parlarne richiamandosi molto opportunamente alla conversione, nella quale Agostino intese operante in sé l'azione della grazia e insieme la responsabilità delle proprie azioni. Due temi fondamentali che le controversie manichea e pelagiana lo indussero ad approfondire e a difendere, tanto da meritare il titolo di dottore della grazia, a cui si potrebbe aggiungere, per completare il quadro, quello di dottore della libertà. Lungo queste piste infatti la Lettera ne espone la dottrina.

Inizia col mettere al sicuro la difesa della libertà. Agostino, dice, "sostenne sempre che la libertà è un caposaldo dell'antropologia cristiana"38. Ricorda, poi, contro chi la difese: contro gli antichi correligionari, i manichei, contro il determinismo, degli astrologi - degli uni e degli altri era stato vittima nella negazione della libertà -, contro ogni forma di fatalismo; ricorda altresì che libertà e prescienza divina, libertà e grazia non sono inconciliabili: il vescovo d'Ippona lo afferma e lo dimostra.

Il principio è questo: "Il libero arbitrio non viene tolto perché viene aiutato, ma viene aiutato perché non viene tolto"39. Principio, questo, che rovescia addirittura l'impostazione del problema. Lungi dal negare la libertà, la grazia la suppone e la esige: se non ci fosse la libertà, non si potrebbe parlare di grazia. Agostino lo dimostra con le armi della ragione nella controversia manichea - si veda Il libero arbitrio e Le due anime contro i manichei - e con le armi della fede contro i pelagiani: significativi a questo proposito il titolo e il contenuto de La grazia e il libero arbitrio.

La questione è difficile, non tutti la capiscono; molti ritengono che grazia e libertà siano inconciliabili e sostengono che bisogna scegliere l'uno o l'altro dei termini. Agostino è di parere decisamente contrario e, desideroso com'era di essere inteso da tutti, anche dall'umile popolo, riduce la sua argomentazione ad un motivo essenziale di cristologia: Cristo salvatore, Cristo giudice. Scrive: "Se non c'è la grazia, come salva il mondo? Se non c'è il libero arbitrio, come giudica il mondo?" 40.

Né si deve dire che la necessità della grazia, con tanta insistenza insegnata dalla Scrittura, sia contraria libero arbitrio o ai comandamenti divini. t vero, Dio non comanda l'impossibile - su questa affermazione insistevano molto i pelagiani per negare la necessità della grazia o per ridurla, equivocando sul nome, al solo libero arbitrio - ma comandando ti ammonisce e di fare ciò che puoi e di chiedere ciò che non puoi, e ti aiuta perché tu possa41. La necessità della grazia dunque non esclude il libero arbitrio, ma include la necessità della preghiera.

La grazia è necessaria per rimuovere gli ostacoli che, entrando negli ingranaggi dell'atto umano, impediscono alla volontà di fuggire il male e di compiere il bene. Gli ostacoli sono due, tutti e due conseguenza del peccato originale, tutti e due grave ostacolo alla libertà e radice di quella "dura schiavitù"42 che soffre l'uomo e lo trattiene dal fare il bene: "l'ignoranza e la debolezza"43. Soprattutto la debolezza o infirmitas. Agostino lo sapeva per esperienza. Ne è testimonianza indimenticabile il libro VIII delle Confessioni. Egli pertanto spiega, senza citarlo, il detto antico: vedo le cose migliori e le approvo, ma seguo le peggiori. Scrive infatti: "Anche quando comincia a non rimanere più nascosto ciò che si deve fare e dove si deve tendere, anche allora, se tutto ciò non arriva altresì a dilettare e a farsi amare, non si agisce, non si esegue, non si vive bene"44. Era dunque naturale, anche per questa ragione psicologica, che riponesse l'essenza della grazia, di cui predica la necessità, nell'"ispirazione della carità per cui facciamo con santo amore ciò che conosciamo di dover fare"45.

Ma la grazia, ricondotta all'amore che è fonte di libertà - "agisce liberamente chi agisce per amore"46. - non solo è rispettosa della libertà di scelta, dono della creazione per cui l'uomo è responsabile dei propri atti e degno di premio o di castigo, ma anche e soprattutto è apportatrice della libertà dal male o libertà morale o libertà evangelica: "Se il Figlio vi libererà..." (Gv 8, 3 6). Il vescovo d'Ippona è l'assertore e il cantore di questa libertà. Ne considera tutte le sue forme, che possono essere ridotte a sei: libertà dall'errore, dal peccato, dalle passioni disordinate, dalla legge, dalla morte, dal tempo.

La Lettera s'intrattiene a lungo su questo argomento47. Molto opportunamente. Chi è stato spesso accusato di aver sacrificato la libertà per esaltare la grazia, ha invece esaltato, senza negare la libertà di scelta, la libertà cristiana che permette all'uomo di essere se stesso e gli assicura la felicità. Scrive infatti il S. Padre: "Per fermarsi un momento su quest'ultimo bene - quello della libertà - è il caso di osservare che egli descrive ed esalta la libertà cristiana in tutte le sue forme. Queste vanno dalla libertà dall'errore - la libertà invece dell'errore è la 'peggiore morte dell'anima' -, attraverso il dono della fede che assoggetta l'anima alla verità, fino alla libertà ultima e indefettibile, quella maggiore, che consiste nel non poter morire e nel non poter peccare, cioè nell'immortalità e nella piena giustizia. Tra queste due, che segnano l'inizio e il termine della salvezza, illustra e proclama tutte le altre"48.

E le accenna rapidamente con una sintesi che giova leggere e rileggere perché indica anche i rimedi con i quali la grazia di Cristo ci assicura questa libertà: è il poema dei doni divini che la redenzione ci ha apportato. Agostino lì vede sotto la luce della libertà - per lui lo scorrere della storia umana è chiuso tra due libertà, la libertas minor che ebbe Adamo e la libertas maior che avranno i beati -, e lì contempla e lì ridice con l'occhio sicuro del teologo e la passione ardente del mistico.

Qualche lettore potrà meravigliarsi che la Lettera, pur parlando della grazia, non abbia dedicato un paragrafo alla predestinazione che occupò tanto Agostino negli ultimi anni. La meraviglia, a mio giudizio, non ha ragione di essere. Toccare quell'argomento avrebbe significato entrare in questioni molto intricate. Ora questo non era lo scopo del documento, di natura non teologica ma pastorale. Ciò nonostante esso ricorda alcune verità che illuminano tutto il problema e offrono una guida a chi voglia inoltrarsi in quel cammino. Proprio quelle che qualche studioso crede di non trovare nel pensiero agostiniano, per cui trova difficoltà a capirlo o lo capisce in maniera deformata. Tre soprattutto: 1) l'universalità della redenzione: Cristo è morto per tutti, anche per quelli che non si salvano; 2) la larghezza della grazia divina, per cui "Dio non abbandona se non è abbandonato": non deserit nisi deseratur49; 3) l'inserimento della preghiera nel piano divino della salvezza: "E certo, scrive Agostino e la Lettera ricorda, che Dio ha preparato di dare alcuni doni anche a chi non prega, come l'inizio della fede, altri doni invece solo a chi prega, come la perseveranza finale"50. Inizio della fede e perseveranza finale sono doni di Dio e non merito dell'uomo: è tutto quello che il vescovo d'Ippona voleva dimostrare con le sue opere sulla predestinazione51.

CAPITOLO QUINTO

"PROMOTORE INDEFESSO DELLA PERFEZIONE SPIRITUALE"

La Lettera ha cura di osservare che "l'insegnamento agostiniano resterebbe gravemente incompleto se non si dedicasse un accenno alla dottrina spirituale"1. Molto bene. La dottrina spirituale sta alla filosofia e alla teologia come il fiore e il frutto stanno all'albero. I pilastri che sorreggono l'edificio spirituale sono essenzialmente quattro: la carità, l'umiltà, la preghiera, l'azione. Il S. Padre s'intrattiene su tre di essi, dedicando all'umiltà una sola citazione, preziosa, di Agostino; ma forse questa citazione, che stabilisce l'inseparabile unione tra l'umiltà e la carità - "dov'è l'umiltà, ivi è la carità"2 l'ha dispensato di dirne di più.

In ogni modo il vescovo d'Ippona, come è stato riconosciuto dottore della grazia, così, a buon diritto, può essere chiamato dottore della carità, dottore dell'umiltà, dottore della preghiera, non solo perché queste sublimi realtà sono legate a quella non meno sublime della grazia, ma anche perché ne ha parlato con tanta profondità ed ampiezza da esaurire, si direbbe, l'argomento. Non si dimentichi inoltre che è stato un sapiente organizzatore delle relazioni tra contemplazione ed azione, un argomento delicato dove è facile abbandonare il veritatis medium e declinare a destra o a sinistra. Non sembri esagerato tutto questo. E così Basta leggere alcune, anche poche, delle sue opere, soprattutto il capolavoro delle Confessioni. Agostino è un grande mistico, ma è insieme profondo filosofo e acuto teologo; non omette mai pertanto di indicare le conseguenze spirituali che derivano dai principi speculativi della filosofia e della teologia, anzi non vede queste scienze che in prospettiva della mistica, perché uno solo è il movimento dello spirito e tende a un solo termine: il possesso immediato della verità attraverso la conoscenza e l'amore. Di questo movimento mettiamo in luce i momenti salienti, iniziando, perseguire la Lettera, dalla preghiera.

1. Preghiera. La preghiera è un fatto tanto semplice e pur tanto complesso. Agostino ne ha visto e ne ha approfondito gli aspetti più diversi. La Lettera ne ricorda la necessità, la natura, l'interiorità, il valore sociale, l'inserimento nella preghiera di Cristo, le ascensioni spirituali, la contemplazione. Ce n'è abbastanza per scrivere un trattato, anche se Agostino un trattato sulla preghiera non l'ha mai scritto3.

La prima questione fu quella che lo oppose nettamente ai pelagiani, e che resta pur sempre fondamentale: la necessità della preghiera. Necessità che investe non solo la preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento o d'implorazione del perdono per i peccati commessi; ma anche la domanda della grazia per non commetterne. Era quest'ultimo punto che i pelagiani non volevano ammettere, perché lo ritenevano contrario al libero arbitrio, che giudicavano sano e forte, e al principio generale secondo cui Dio non comanda l'impossibile. Lasciamo il primo argomento su cui Agostino dovette tornare per tutta la vita; consideriamo solo il secondo. Ad esso egli risponde con le celebri parole, riprese dal Concilio di Trento: "Dio non comanda l'impossibile, ma comandando ti ammonisce di fare ciò che puoi, di chiedere ciò che non puoi"4 e ti aiuta affinché tu possa, perché Dio non deserit nisi deseratur5. Queste ultime parole costituiscono una costante della dottrina agostiniana della grazia.

Tornando alla preghiera, essa è la forza con cui Dio vuole che combattiamo le nostre battaglie6. Scrive a Proba, terminando la sua lunga lettera: "Combatti con la preghiera per vincere questo mondo"7.

Ma che cos'è la preghiera, realtà così insostituibile nella vita cristiana? Realtà semplicissima - "parlare a Dio"8 - che diventa complessa per le tante pieghe dell'animo che il parlare con Dio comporta. Cinque essenzialmente le angolature: la conversione, l'intenzione, l'attenzione, la purificazione, la comunione. Ognuna richiederebbe un lungo discorso. Basti una citazione: "Nella preghiera avviene la conversione del cuore verso Colui che è sempre pronto a dare se noi siamo in grado di ricevere quanto ha dato. Nel conversione poi avviene la purificazione dell'occhio interiore, quando si escludono le cose che si bramavano temporalmente, e ciò affinché la pupilla del cuore possa sopportare la luce semplice che risplende senza tramonto o mutazione; e non solo sopportarla ma anche abitare in essa; e abitarvi non solo senza fastidio ma anche con ineffabile gaudio, nel quale consiste la vita veramente e genuinamente beata"9.

Se dalla natura passiamo alle prerogative, troviamo prima di tutto l'interiorità, su cui il filosofo dell'interiorità qual era Agostino non poteva non insistere. C'è la preghiera vocale, la preghiera comunitaria, il canto - tutte cose belle e sotto alcuni aspetti necessarie -, ma la preghiera, quella vera, si fa col cuore: affectibus orare debemus10. Si comprende allora la prescrizione della Regola monastica: "Quando pregate Dio con salmi ed inni, meditate nel cuore ciò che proferite con la voce" (n. 12).

Dallo stesso principio nasce l'identificazione, profonda e feconda, che Agostino stabilisce tra desiderio e preghiera: "Il tuo desiderio è la tua preghiera, e il desiderio continuo è una preghiera continua"11. Da questa identificazione derivano molte conseguenze e con essa si sciolgono molte questioni. Alcune di esse: perché pregare se Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno? come si può osservare il precetto divino di pregare sempre? che cosa chiedere pregando? perché Pregare anche con le labbra? quanto tempo prolungare la preghiera vocale? Inutile dire che qui si tratta della preghiera di domanda. Il lettore risponderà da se stesso a dette questioni e ad altre, se ne ha in mente, applicando l'identificazione di cui si è detto. Un solo esempio. Dio vuole che lo preghiamo non per sapere ciò che sa, ma perché "nella preghiera si eserciti il nostro desiderio per cui diventiamo capaci di ricevere ciò che si prepara a darci". Quel che vuol darci è molto grande (cf. 1 Cor. 2, 9) e noi ci disponiamo a riceverlo "con capacità tanto maggiore quanto maggiore è la fede con cui crediamo, la fermezza con cui speriamo, l'ardore con cui desideriamo"12.

Un'altra prerogativa della preghiera è la socialità, cioè l'utilità e l'efficacia che esercita a favore degli altri. La Chiesa che prega per gli infedeli perché si convertano e per i fedeli perché perseverino nella fede e raggiungano la salvezza diventa per Agostino un luogo teologico privilegiato. Vi ricorre di continuo, particolarmente negli ultimi anni, per dimostrare che l'inizio della fede e la perseveranza finale sono doni di Dio. Per lui la preghiera s'inserisce anche - molti non lo sospettano neppure e rimangono increduli a leggere le sue parole - nel piano divino della predestinazione: "Preghiamo per quelli che non sono stati ancora chiamati, perché lo siano: forse sono stati predestinati in modo da essere concessi alle nostre preghiere, cosicché ricevano la stessa grazia con la quale vorranno essere eletti e lo saranno"13. La Lettera cita molto opportunamente queste parole: l'idea che esprimono era molto cara al vescovo d'Ippona. Sul tramonto della vita ricorda di aver composto le Confessioni per dimostrare l'influsso della preghiera altrui nel piano della conversione e della salvezza. Nel caso concreto le preghiere e le lacrime di sua madre: "Non ricordate che l'ho narrato in modo da dimostrare che ero stato concesso, perché non perissi, alle fedeli e quotidiane lacrime di mia madre?" 14.

La prerogativa su cui più insiste il nostro dottore è quella che potremmo chiamare cristicità, cioè centralità di Cristo nella preghiera, che non si può né fare né intendere senza di Lui. Si sa che l'ecclesiologia agostiniana è incentrata nel Cristo, capo del Corpo mistico che è la Chiesa, e nella Chiesa-comunione, per cui tutti sono una sola cosa fra loro e con Cristo. Non poteva mancare la conseguenza per la preghiera. Cristo infatti è colui "che prega per noi, che prega in noi, che è pregato da noi". Forse vale la pena di riportare l'inizio stupendo del Commento al salmo 85, che continua così "Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce, e in noi la sua voce". E continua: "Noi dunque preghiamo rivolti a lui; preghiamo per mezzo di lui e in lui. Noi preghiamo insieme con lui ed egli prega con noi". Ammonisce poi solennemente: "Non dire nulla senza di lui, com'egli non dice nulla senza di te"15. Agostino è davvero il cantore di Cristo Verbo incarnato, e lo è soprattutto quando parla della preghiera.

Ma c'è un'ultima prerogativa da mettere in rilievo: la preghiera segna le ascensioni spirituali o, che è lo stesso, la gradualità della perfezione nella vita dello spirito. Agostino ha parlato spesso di questa gradualità. Ne ha parlato in un'opera della giovinezza, scritta a Roma, dove distingue quattro gradi: virtus (fortezza o purificazione), tranquillitas (costanza o serenità), ingressio in lucem (avvio alla contemplazione), mansio in luce (contemplazione)16. Ne parla in un'opera appartenente alla controversia pelagiana, dove distingue quattro gradi della carità - incipiente, progredita, intensa, perfetta - che diventano quattro gradi nella preghiera17. Ne parla soprattutto in un'opera dell'inizio del sacerdozio, dove, accoppiando le beatitudini, i doni dello Spirito Santo, le petizioni del Padre nostro, crea uno splendido panorama di spiritualità cristiana nel quale il centro è sempre lo stesso: la preghiera, l'ascetismo, la carità18.

2. Carità. L'altro pilastro della vita spirituale è la carità, della quale la Lettera scrive: "La carità poi costituisce l'anima di tutto, il centro d'irradiazione, la molla segreta dell'organismo spirituale". E continua: "Fu merito non piccolo del vescovo d'Ippona aver ricondotto tutta la dottrina e tutta la vita cristiana alla carità, intesa - questo inciso è particolarmente importante - come 'adesione alla verità per vivere nella giustizia'"19.

Di questa riduzione la Lettera dà un rapido accenno con i conseguenti riferimenti testuali, accenno che basta a dare una sintesi, tutt'altro che breve, del pensiero agostiniano. Qui ne ricordo solo i titoli: la Scrittura, la teologia, la pedagogia, la politica, la perfezione cristiana. In una parola, la carità è quella realtà ineffabile con la quale nessuno può essere cattivo e senza la quale nessuno può essere buono.

Le prerogative della carità sono molte ed enumerarle tutte è pressoché impossibile. Ne ricordo alcune: l'inesauribile ricchezza che ha sempre qualcosa da dare anche quando ha dato tutto; l'inestinguibile dinamismo che si placa solo in Dio; l'intransigente radicalità che penetra le più riposte fibre del cuore e trascina tutto l'uomo, perché "Dio che ti ha fatto tutto, ti esige tutto"20; il totale disinteresse che cerca Dio gratuitamente e nulla all'infuori di Lui; la forza progressiva dell'assimilazione per cui "ognuno è tale qual è il suo amore"21; e, in ultimo, la genuina soprannaturalità: "Da dove proviene negli uomini la carità verso Dio e verso il prossimo se non da Dio stesso? Infatti se provenisse non da Dio ma dagli uomini, avrebbero vinto i pelagiani"22. Per dare un'idea appropriata di queste prerogative occorrerebbe un'analisi più dettagliata che non è qui possibile, per cui rimandiamo ad altri studio23.

3. Umiltà. Un altro pilastro della vita spirituale, inseparabile dalla carità, è l'umiltà. Agostino giovane, prima della conversione, fu piuttosto superbo; i doni ricevuti, le lodi di cui popolo e amici lo ricoprivano, lo mettevano quotidianamente nella tentazione di diventarlo. Non fa meraviglia che abbia parlato dell'umiltà, che rende trasparente la vita del cristiano di fronte a Dio e di fronte agli uomini.

Mise in luce la natura perversa della superbia, che guasta anche le opere buone24, e la natura semplice e genuina dell'umiltà, che non esige altro se non di riconoscere quello che siamo: creature che hanno ricevuto tutto da Dio e che di proprio non hanno se non il limite, e perciò l'errore e il peccato25. Di conseguenza l'umiltà s'identifica con la verità e la verità con la carità: Ubi bumilitas, ibi caritas26. Della carità l'umiltà è il fondamento su cui sorge27, la casa dove abita28, la via attraverso la quale si giunge a possederla, via sicura ma unica29.

Anche qui si potrebbe scrivere un libro. Bastino due annotazioni: Agostino ha messo l'umiltà e la superbia a base delle due città, sinonimi dell'amore di Dio e dell'amore di sé che le fondano30; e ha scritto dell'umiltà un'ampia teologia, mettendone in luce le radici, che sono molte: metafisiche, teologiche, cristologiche, umane. Le radici metafisiche si fondano sulla creazione per cui l'uomo, creatura, non ha di suo nulla, solo menzogna e peccato31; le radici teologiche provengono dalla storia della salvezza, che è assolutamente gratuita: Chi si gloria, si glori nel Signore (1 Cor 1, 31) 32 - tutta la lunga difesa della grazia è stata una difesa dell'umiltà cristiana -; le radici cristologiche si fondano sull'esempio di Cristo, modello e dottore dell'umiltà33; le radici umane, infine, nascono dal senso della nostra fragilità, per cui resta sempre vero che "non c'è peccato che ha fatto un uomo che non possa fare un altro uomo, se gli manca dall'alto la protezione di Colui che ha fatto l'uomo"34.

Il panorama della dottrina spirituale di Agostino mancherebbe del suo completamento se, come ha fatto il S. Padre nella Lettera, non si dicesse dell'ansia della contemplazione che lo animò e della necessità dell'azione che seppe coniugare in ammirabile armonia.

4. Contemplazione. Agostino fu un mistico che toccò le vette della contemplazione e seppe descriverle da grande maestro. Si ricorderà la celebre esperienza contemplativa di Ostia Tiberina con la madre Monica: "Conversavamo, dunque, soli con grande dolcezza. Dimentichi delle cose passate e protesi verso quelle che stanno innanzi (Fil 3, 13), cercavamo fra noi, alla presenza della verità, che sei tu, quale sarebbe stata la vita eterna dei santi, che occhio non vide, orecchio non udì, né sorse in cuore d'uomo (1 Cor 2, 9). Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte... E mentre ne parlavamo e anelavamo verso di lei, la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente, e sospirando vi lasciammo avvinte le primizie dello spirito (Rom 8, 23), per ridiscendere al suono vuoto delle nostre bocche, ove la parola ha principio e fine"35.

Fu una grande esperienza, ma non la sola. Lo dice lo stesso Agostino: "Spesso faccio questo - rifugiarsi nella meditazione delle Scritture -, è la mia gioia, e in questo diletto mi rifugio, allorché posso liberarmi della stretta delle occupazioni... Talvolta m'introduci in un sentimento interiore del tutto sconosciuto e indefinibilmente dolce, che, qualora raggiunga dentro di me la sua pienezza, sarà non so cosa, che non sarà questa vita. Invece ricado sotto i pesi tormentosi della terra"36.

Parlando di questi gradi altissimi di preghiera, si schiera nettamente a favore del primato della contemplazione, legato al primato dell'amore, al primato della vita eterna, al primato della sapienza, che è il più alto dono dello Spirito Santo, e al primato della pace, che è la più alta delle beatitudini37.

Ne descrive anche la struttura e i frutti. La prima comprende tre momenti: l'ascesi, che è lunga e faticosa perché esige la purificazione di cui è premio "altissimo e segretissimo"38; l'intuizione, che, nel suo grado più alto, è rapida e folgorante, simile a un baleno, un battito del cuore: "lo toccammo un poco, con tutto l'impeto del cuore, e sospirammo"39; la discesa o "ricaduta", che è il ritorno alle cose abituali portando con sé la "memoria innamorata" di un bene che si è potuto gustare per un istante e si vorrebbe che fosse durato per sempre. Ma i frutti di questa intuizione momentanea sono molti e preziosi. Agostino li descrive in un'opera della giovinezza, scritta poco dopo l'esperienza di Ostia40.

5. Contemplazione ed azione. Benché innamorato della preghiera nelle sue forme più alte, che richiedono otium, solitudine, silenzio, Agostino sa che deve accettare, quando è necessario, le sollecitudini e le fatiche del negotium o vita attiva; lo sa e lo accetta e insegna ad accettarlo, ma ad una condizione: che in mezzo alle sollecitudini e alle fatiche non si perda il gusto e la dolcezza della preghiera e della verità.

Il testo che meglio esprime l'opposizione tra l'otium sanctum e il negotium iustum, tra la caritas veritatis e la necessitas caritatis, e insieme la loro conciliazione nella delectatio veritatis si trova nella Città di Dio. Eccolo come lo riporta la Lettera: "L'amore della verità ricerca la quiete della contemplazione, il dovere dell'amore accetta l'attività dell'apostolato. Se nessuno impone questo peso, ci si deve dedicare alla ricerca e alla contemplazione della verità; se però esso ci viene imposto, dev'essere assunto per dovere di carità. Ma anche in questo caso non si devono abbandonare le consolazioni della verità, perché non accada che, privati di questa dolcezza, si resti schiacciati da quella necessità"41.

Con queste stupende parole posso terminare le mie considerazioni-commento sulla spiritualità agostiniana42, ma non senza aver raccomandato di accogliere l'invito della Lettera a guardare ad Agostino stesso "che diede un fulgido esempio di come conciliare i due aspetti, apparentemente contrastanti, della vita cristiana: preghiera ed azione"43.

CAPITOLO SESTO

"MODELLO FULGIDO DI PASTORE"

A qualcuno può sembrare che la terza parte della Lettera, dedicata ad Agostino pastore, sia troppo breve, data la luminosa figura di questo vescovo che "nessuno - come dice la Lettera stessa - ricuserà di annoverare tra i più grandi pastori della Chiesa"1 e che Paolo VI, come disse al sottoscritto in una udienza privata, considerava il più grande vescovo della Chiesa di tutti i tempi. Ma se si pensa a quello che è detto, a quello che è supposto attraverso molte citazioni non esplicitate, a quello che sarà aggiunto dopo pochi giorni (18 settembre 1986) al Congresso internazionale agostiniano sul "servizio indefesso, umile e totale alla verità"2, ci si accorge che la figura di Agostino pastore viene fuori limpida nella sua straordinaria statura, e che aggiungere altro - posto che nelle proporzioni di una Lettera Apostolica fosse stato possibile - sarebbe apparso probabilmente di troppo.

Si osservi prima di tutto l'aggancio alla conversione. Perché convertendosi si era messo a totale disposizione di Dio - "Ormai te solo amo... a te solo voglio servire"3 -, quando fu costretto ad accettare il sacerdozio, che non desiderava, che anzi fuggiva come impedimento all'impegno della vita contemplativa (deificari in otio4), piegò il capo, sia pure piangendo, e disse fra sé e sé quelle stupende parole che ne rivelano la raggiunta maturità spirituale: "Il servo non deve contraddire al suo Signore"5.

Si osservi altresì il concetto di servo della Chiesa, anzi "servo dei servi di Cristo"6, su cui Agostino incentrò e con cui riassunse tutta la sua spiritualità di sacerdote e di vescovo7. La Lettera lo ricorda. Da questo concetto il vescovo d'Ippona trasse tutte le conseguenze, anche le più ardue, anche le più eroiche.

1. Il vescovo-servo. Questo concetto significa, spiega, che dall'ufficio di pastore non si devono cercare né gloria, né guadagni, né alcun vantaggio temporale, ma solo il bene dei fedeli, costi quel che costi. Esso, il servizio pastorale, è un servizio d'amore, non d'interesse: pascere dominicum gregem officium est amoris8; di un amore umile, Perché la radice della salvezza non sta nella dignità di vescovo ma in quella di cristiano. Sono celebri le parole: "Per voi sono vescovo, con voi sono cristiano. Quel nome è segno d'un incarico ricevuto, questo della grazia; quello occasione di pericolo, questo di salvezza"9. Occorre aggiungere, poi, che si tratta di un amore generoso fino alla morte. Per questo egli chiedeva ai suoi fedeli di pregare per lui perché fosse disposto a dare la sua vita per loro aut affectu aut effectu: di fatto o nella disposizione dell'animo10. Se non possiede tale disposizione, un vescovo, anche se vescovo, non è vescovo, ma piuttosto un faeneus custos in vineis, un fantoccio a guardia della vigna11. Parole più forti non si potevano dire. Si pensi, poi, che esse sono contenute in un discorso pronunciato in occasione della consacrazione episcopale di un collega.

Che tali fossero le disposizioni del vescovo d'Ippona si vide chiaramente in fin di vita, quando un collega gli chiese se di fronte all'avanzata dei barbari invasori i sacerdoti potessero lasciare la loro sede e rifugiarsi in città più munite. La risposta di Agostino fu: no! Il sacerdozio vi ha fatto servi dei vostri fedeli; restate con loro nel pericolo: o vivi insieme o morti insieme12. Questo insegnamento che raggiunge talvolta, come in questa, i limiti dell'eroismo, s'illumina dell'esempio di Cristo. La Lettera lo ricorda: "In che senso - si chiede Agostino - chi presiede è servo?". Risposta: "Nel senso stesso in cui fu servo il Signore"13. Egli venne non per essere servito ma per servire. E in che cosa ci servì? Dando la sua vita in riscatto per molti (Mt 20, 28). La prospettiva del sacerdote, come predisse Cristo a Pietro dopo la triplice domanda e la triplice risposta, è una sola: la croce (Gv 21, 18-19).

Da questa disposizione d'animo, che Agostino coltivava in sé, lo zelo indefesso per ricondurre gli erranti alla fede e confermare in essa i fedeli. Basti un testo a cui la Lettera rimanda senza riportarlo: "Tu vuoi errare, tu vuoi perire? Io non voglio... Pertanto ti richiamerò se sei una pecora sbandata, ti cercherò se sei perduta. Vuoi o non vuoi, farò così E se nel cercarti mi feriranno i rovi delle siepi, anche in tal caso mi caccerò nelle loro strettoie, frugherò per tutte le siepi e con tutte le forze, che mi darà il Signore, il quale suscita terrore, mi spingerò per tutto il mondo, richiamando all'ovile chi si era sbandato, ricercando chi s'era perduto. Se tutto questo ti riesce insopportabile, non andare fuori strada, non metterti sulla via della perdizione"14.

Ma in che cosa e come Agostino servì la Chiesa? La Lettera distingue tre settori: la diocesi, l'Africa, la Chiesa universale. Vale la pena seguirla perché appaia nelle sue vere proporzioni la figura di questo pastore.

2. Servì la sua diocesi. Prima di tutto la sua diocesi, alla quale si sentì profondamente e particolarmente legato. Non se ne allontanava mai, se non per necessità apostoliche o per recuperare la salute dopo una grave malattia. Da Cartagine, dov'era probabilmente per un concilio regionale o per preparare la grande Conferenza con i donatisti, scrive ai fedeli, che mal sopportavano la sua assenza: "Sappia la vostra Carità che non mi sono mai assentato da voi licentiosa libertate sed necessaria servitute, non per capricciosa libertà ma per necessità di servizio". E aggiunge, rivelandoci un aspetto delle sue condizioni di salute tutt'altro che floride: "[La buona salute] ha spinto molte volte altri miei santi fratelli ad affrontare Pure i disagi di viaggi per mare e oltremare, dai quali invece io mi sono dovuto sempre astenere non per cattiva disposizione d'animo, ma per la mia cagionevole salute"15. A un giovane, a cui scrisse una lunga lettera, dichiara di averlo potuto fare perché "dopo la malattia... mi sono dovuto allontanare un po' di tempo da Ippona"16.

Nonostante la malferma salute la sua attività in diocesi fu prodigiosa, La Lettera la riassume così "Fu assiduo alla predicazione - predicava al sabato e alla domenica e spesso per l'intera settimana -, nella catechesi, nella audientia episcopi talvolta per tutto il giorno trascurando perfino il mangiare, nella cura dei poveri, nella formazione del clero, nella guida dei monaci, molti dei quali furono chiamati al sacerdozio e all'episcopato, e dei monasteri delle sanctimoniales. Morendo lasciò alla Chiesa un clero molto numeroso, come pure monasteri di uomini e di donne pieni di persone votate alla continenza sotto l'obbedienza dei loro superiori, insieme con le biblioteche..."17.

A questo panorama tutt'altro che angusto si può aggiungere la visita agli orfani, alle vedove afflitte da tribolazioni e agli infermi, appena ne fosse stato richiesto18; la difesa degli umili19, la cura degli orfani affidati alla Chiesa20 l'intervento presso le autorità civili per i bisognosi (oggi "raccomandazioni"), che non faceva volentieri e solo quando giudicava di doversi interporre. In questo caso la faceva con tanta dignità e discrezione da ottenere lo scopo e da riscuotere ammirazione21.

Ma non sempre le cose andavano così. Non gli mancavano gli insuccessi e le umiliazioni. Per consolazione di sacerdoti e vescovi che si trovassero nelle stesse condizioni voglio riportare questo passo di un discorso: "Spesso si dice di noi: Perché va da quella autorità? Che ha da spartire il vescovo con quella autorità? E tuttavia, tutti sapete che sono le vostre necessità che ci obbligano a recarci dove non vogliamo: spiare il momento buono, stare in piedi davanti alla porta, attendere quanti vogliono entrare, degni o indegni, essere annunziato, talora accolto con difficoltà, tollerare le umiliazioni, chiedere, a volte ottenere, a volte doversi allontanare afflitti. Chi vorrebbe tollerare di queste cose, se non vi fossimo obbligati?"22. Tutto questo è veramente istruttivo. Quel che segue nel discorso lo conferma.

3. Servì la Chiesa d'Africa. Nonostante l'attività prodigiosa nella sua diocesi, Agostino ebbe tempo e modo di occuparsi con dedizione assoluta della Chiesa d'Africa, tormentata dalle eresie e dallo scisma. Il suo impegno si può riassumere in questi punti: viaggi e predicazione, partecipazione ai concili, soluzione dello scisma donatista, propagazione del monachesimo.

La malferma salute non gl'impedì di viaggiare molto23, sempre per ragioni di predicazione o comunque per questioni ecclesiastiche. Si recò a Cirta, a Calama, più volte a Milevi, a Thiava, a Tagaste, città tutte della Numidia, ma non propriamente a portata di mano. Il viaggio più lungo, su richiesta di papa Zosimo, da Cartagine, dove si trovava, a Cesarea di Mauritania, un percorso di 1000 km all'andata e di 700 circa al ritorno ad Ippona: aveva 64 anni. Settantenne si recò a Tubune, ai confini del Sahara, per incontrare il conte Bonifacio e perorare la causa della pace: il viaggio era poco più corto di quello precedente.

Meritano particolare menzione i viaggi per Cartagine, dove si recò una ventina di volte, percorrendo una delle tre vie di terra che vi conducevano (280-340 km) per assistere soprattutto ai Concili regionali che si dovevano tenere, anche se non sempre si tennero, ogni anno.

Ma la sua grande opera e, per il successo ottenuto, il suo grande merito fu la composizione dello scisma donatista. Quanto abbia lavorato, predicando, scrivendo, organizzando, è davvero incredibile. Il suo metodo fu semplice: illuminare le menti sulla irragionevolezza dello scisma e muovere i cuori ad amare l'unità e la pace della Chiesa. Non ci fu difficoltà a cui non rispose, non ci fu iniziativa utile che lasciasse intentata. Ma il suo grande sogno fu la Conferenza fra cattolici e donatisti, che si tenne effettivamente a Cartagine nel 411. Di essa divenne l'animatore e la magna pars. In essa, tirando le conclusioni estreme dal principio che il vescovo è servo della Chiesa, si fece promotore della proposta più ardita e coraggiosa che si potesse pensare.

Egli sapeva che uno degli ostacoli da rimuovere, forse quello psicologicamente più forte, era il timore che si supponeva avessero i vescovi donatisti di perdere con l'unione l'ufficio episcopale. La proposta dunque fu questa: se nella discussione la vittoria affiderà ai donatisti, i vescovi cattolici - ed erano circa 300 presenti a Cartagine e forse 600 in tutta l'Africa - rinunciassero al loro episcopato; se invece affiderà ai cattolici, questi non chiederanno altrettanto: i due vescovi, cattolico e donatista, reggeranno insieme la diocesi o, se il popolo non vorrà saperne di questa soluzione provvisoria, si metteranno ambedue da parte per lasciare il posto all'elezione del nuovo vescovo24. Per i vescovi cattolici, che si sentivano ed erano dalla parte della verità, la proposta conteneva aspetti molto duri; eppure l'accettarono tutti, eccetto due. Dopo alcuni anni ' precisamente nel 418, Agostino ricorda questo episodio con profonda commozione, come una cosa "dolcissima e soavissima", dandone questa spiegazione che parte, come al solito, dal concetto di servizio: "Ciò che tu sei per te ed io per me, dobbiamo esserlo sempre", cioè cristiani; "ciò invece che io sono per te (vale a dire vescovo), lo sia se ti giova, non lo sia se ti nuoce...". E conclude con Parole che fanno tremare: "Se quando voglio ritenere il mio episcopato disperdo il gregge di Cristo, come può essere un onore per il pastore il danno del gregge?" 25.

Al servizio reso per la soluzione di uno scisma che durava da oltre un secolo e mezzo e sembrava insolubile, se ne può aggiungere un altro: la propagazione del monachesimo. Agostino ne era innamorato e desiderava che si diffondesse per tutta l'Africa. Era convinto che fosse non solo una via privilegiata per raggiungere la perfezione cristiana, ma anche un mezzo efficace per risolvere i problemi della Chiesa, compreso quello della formazione del clero. Scrive ai monaci di Cartagine: la vostra professione "è tanto buona e tanto santa che bramiamo nel nome di Cristo che si propaghi per tutta l'Africa come lo è già in altre regioni"26. Il desiderio non restò inefficace. "A questa professione esorto con tutte le mie forze gli altri; e nel nome del Signore ho dei compagni che l'hanno abbracciata per opera mia"27.

Questo servizio non si limitò alla Chiesa africana, anzi in essa a causa delle vicende storiche non durò molto. Ma il monachesimo agostiniano uscì dall'Africa, si diffuse in Europa e rese e rende un servizio non piccolo alla Chiesa universale. Non mi resta che fare un accenno di questo servizio, che fu poi il più importante e il più duraturo.

4. Servì la Chiesa universale. Scrive il S. Padre nella Lettera: "Per la Chiesa universale compose tante opere, scrisse tante lettere, sostenne tante controversie. I manichei, i pelagiani, gli ariani, i pagani furono l'oggetto delle cure pastorali in difesa della fede cattolica. Lavorò indefessamente di giorno e di notte"28.

Poche parole, ma molto dense. A conferma si potrebbero scrivere molte pagine. Mi limiterò ad una testimonianza e ad un esempio. La testimonianza è quella di Possidio, il primo biografo, che scrive: "Quel memorabile uomo, principale membro del corpo del Signore, era sempre sollecito e vigilantissimo per il bene della Chiesa universale. E gli fu concesso da Dio di poter godere anche in questa vita del frutto delle sue fatiche"29. L'esempio proviene dalla Città di Dio. Che questa opera fosse stata pensata molto tempo prima di essere scritta pare certo30 ma l'occasione di scriverla fu il sacco di Roma del 410 e l'insistenza degli amici romani. Allo sgomento generale e alle accuse dei pagani, più acerbe del solito, Agostino credeva di aver soddisfatto con due lunghe lettere - 137 e 138 - come in Africa con alcuni discorsi31, ma gli amici romani insistono che scriva dei libri: "Ti prego - gli scrive Marcellino - di comporre dei libri su questi argomenti, libri che... potranno giovare in modo straordinario alla Chiesa"32. All'amico non seppe resistere, e nacque la Città di Dio, l'opera sua maggiore, una delle più grandi, se non la più grande, della letteratura cristiana. Quanta importanza ebbe allora si può giudicare dal fatto che, dopo averne tracciato il programma, si lasciò indurre, contro il suo costume, a pubblicarla per parti. In questo modo, per l'insistenza degli amici vicini e lontani, nacquero tante opere agostiniane.

Del resto il suo sistema di pensiero lo concepì e lo svolse guardando alla Chiesa di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Parlando al Congresso internazionale il S. Padre dice: "In Agostino l'amore diventa servizio, che implica un'indagine continua, una scrutazione profonda, una contemplazione assidua. Dalla conversione in poi non attese che a questo: approfondire, diffondere, difendere la verità. Chi volesse, potrebbe dividere le sue innumerevoli opere in tre gruppi secondo che domini in esse l'uno o l'altro di questi intenti"33.

Anche le sue opere polemiche, molte come gli avversari della fede, furono ispirate dall'amore alla verità e dal servizio alla Chiesa. Polemiche, le sue, che non lasciavano adito all'errore, ma portavano i segni dell'amore non solo verso la Chiesa ma anche verso gli stessi avversari. Era fermamente convinto che la vittoria è solo della verità, ma anche che la verità non vince se non attraverso la carità. Nello stesso discorso al Congresso lo ricorda il S. Padre con queste sapienti parole: "Agostino fu un polemista forte, indefesso, abilissimo, ma nel cuore portò sempre l'amore, un grande amore per gli erranti. Non vincit, diceva, nisi veritas. Non dunque l'uomo sull'uomo, ma la verità sull'errore; aggiungeva però subito: victoria veritatis est caritas"34. Dei donatisti diceva: "Amiamoli, anche se non vogliono. Diligamus illos et nolentes"35.

Di questo servizio alla Chiesa universale Agostino era consapevole. Partito di nascosto da Cartagine, affranto per la proditoria uccisione di Marcellino, scrive verso il 413 al commissario imperiale Ceciliano che la sua assenza da Cartagine è spiegata tra l'altro dal desiderio di rendersi utile alla Chiesa universale presente e futura: "Ho deciso, se Dio me ne concederà la grazia, d'impiegare interamente a coltivare gli studi relativi alle scienze ecclesiastiche tutto il resto del tempo libero dalle occupazioni richieste dal governo della diocesi, alla quale sono consacrato per obbligo personale. Con questi miei studi penso - se piacerà alla divina misericordia - di poter giovare un po' anche ai posteri"36. Si può pensare che fu proprio allora che cominciò a scrivere la Città di Dio e cominciò altresì l'interminabile e interminata controversia pelagiana, entro la quale s'inserisce quella coi monaci di Adrumeto e di Marsiglia.

Se poi qualcuno domanda come un uomo tanto occupato - la sua diocesi non era grande ma pastoralmente tutt'altro che facile - e per di più malaticcio, abbia potuto lavorar tanto, pone un quesito cui non è facile rispondere. Era certo un lavoratore indefesso, alieno da ogni perdita di tempo. Le tre opere, che purtroppo lasciò incompiute morendo a 76 anni, ne sono una prova. Ma questo non basta. La Lettera accenna al fatto ma non poteva indagare sulle cause. Queste, per chi volesse cercarle con qualche speranza di trovarle, stanno non solo nella continua applicazione al lavoro, ma anche e soprattutto: nelle doti naturali di cui era riccamente dotato - memoria, intelligenza, fantasia -, nella lunga preparazione di studioso e di retore, nel sapiente metodo di lavoro che gli permetteva di non perdere nulla di quanto avesse appreso o detto - i copisti riprendevano i suoi discorsi con sorprendente abilità -, nella collaborazione dei suoi religiosi che certo non deve essergli mancata. Ma tutto questo, che pure è molto, non basta ancora: occorre guardare più in alto. Non solo alla grazia divina, che lo aveva scelto per una grandiosa missione, ma anche ai doni infusi della contemplazione, all'abitudine a meditare, meditare sempre37 anche viaggiando38.

Queste qualità messe insieme - il caso di quest'insieme è piuttosto raro ma per Agostino fu una felice realtà - possono dare una spiegazione all'immensa produzione letteraria di quest'uomo pur tanto occupato per il suo popolo, e fanno di lui un pastore ammirabile, anche se poco imitabile, per tutti coloro che hanno accettato la missione di mettersi a totale servizio della Chiesa.

CAPITOLO SETTIMO

IL PADRE COMUNE DELL'EUROPA CRISTIANA

La vastissima eredità letteraria di Agostino è stata quasi integralmente conservata, salvo alcune operette, riguardanti soprattutto la controversia donatista, e molti discorsi. Per le operette nessuna meraviglia: erano troppo poco significanti perché ci fosse la preoccupazione di trascriverle e conservarle. Diversa la ragione per i discorsi: numerosissimi (forse oltre quattromila nella biblioteca d'Ippona), era molto difficile diffonderne oltre un certo numero. Sono rimasti soprattutto quelli pronunciati o scritti intorno ad argomenti omogenei.

Ma la maggior parte degli scritti non solo fu diligentemente conservata ma anche copiata e letta avidamente. Ce lo attestano i numerosi manoscritti. E questo attestato di ammirazione è continuato lungo i secoli con le innumerevoli edizioni, volgarizzazioni, florilegi. Ancor oggi si moltiplicano in tutto il mondo traduzioni delle sue opere e studi del suo pensiero.

Ma non è stato soltanto un fatto di ammirazione. Il suo pensiero ha inciso profondamente nella formazione dell'Europa cristiana. Dice Paolo VI: "In realtà, oltre a rifulgere in lui in grado eminente le qualità dei Padri, si può dire che tutto il pensiero dell'antichità confluisca nella sua opera e da essa derivino correnti di pensiero che pervadono la tradizione dottrinale dei secoli successivi"1.

Infatti Agostino ha esercitato un'influenza profonda e continua sul mondo occidentale, anche se è andato soggetto ad interpretazioni diverse, suggerite di secolo in secolo da problemi e da interessi del momento. A lui più o meno apertamente si sono ispirati scolastica, riforma, giansenismo, illuminismo, modernismo. Senza considerare le varie teorie politiche, iniziando dal sacro romano impero fino ai giorni nostri.

Ma come si giustifica questa influenza così generalizzata, diffusa e costante? Essa nasce soprattutto dalla originalità con cui Agostino ha saputo riprendere la cultura classica, coltivata per tanti anni, rileggendola, rivitalizzandola, inserendola nel messaggio cristiano. Non ha chiuso con il mondo classico, come avevano fatto altri grandi convertiti che lo avevano preceduto. Ha dialogato con esso, ne ha mostrato e accettato gli aspetti positivi, confutato quelli negativi, dimostrando che il messaggio cristiano dava una soluzione anche razionale agli interrogativi insoluti della filosofia pagana. E in questa nuova visione della filosofa e della storia scopriva e illustrava principi che confermavano i credenti e facevano riflettere i non credenti.

Crollando il vecchio mondo greco-romano sotto la spinta delle invasioni barbariche e, prima ancora, sotto l'incalzare della corruzione, Agostino prospettò una visione ottimistica del futuro, fondata sul messaggio cristiano. Una visione che, con la diffusione del cristianesimo in genere del monachesimo in particolare, illuminò tutta l'Europa. Non importa se mentalità condizionate dai tempi e dalle circostanze l'abbiano spesso interpretato a proprio uso e consumo. Sempre però hanno cercato di leggere in esso la soluzione ai problemi.

Le teorie politiche e filosofiche del Medioevo si plasmavano sulle pagine delle Confessioni, de La città di Dio e La Trinità; la dottrina spirituale si alimentava con le massime agostiniane tratte dalle varie opere e soprattutto dai discorsi. E così in seguito dai tempi di san Tommaso e san Bonaventura - due grandi interpreti, anche se in maniera diversa, dell'agostinismo - fino ai giorni nostri. Per riferirmi al pensiero contemporaneo, se anche si volesse prescindere dagli influssi di Pascal e di Kierkegaard - notoriamente debitore del pensiero agostiniano il primo, meno notoriamente ma non meno realmente il secondo -, non si può non constatare che alcune forme di esistenzialismo, lo spiritualismo di Bergson, Le Senne, Lavelle, Blondel, Sciacca, Guzzo, Carlini, Stefanini - per fare alcuni nomi -, il personalismo di Mounier, il problema dei valori dello Scheler, la corrente neo-scolastica e quella neo-agostiniana, tutti si richiamano su argomenti non secondari ad Agostino.

Giustamente perciò il S. Padre lo chiama "padre comune dell'Europa cristiana"2, poiché tutti in vario modo si richiamano a lui, come testimone fedele e geniale della tradizione cristiana. Proprio per questo ruolo che Agostino ha svolto nella storia della civiltà occidentale e della Chiesa, per cui "un po' tutti nella Chiesa e in Occidente ci sentiamo discepoli e figli"3, possiamo concludere con un auspicio: "Nel momento triste e doloroso della divisione della cristianità occidentale, si discusse molto sulla vera interpretazione del pensiero agostiniano, e da sponde ormai lontane ci si appellò ad esso: questo stesso pensiero, studiato nelle sue fonti genuine, può essere un punto comune d'incontro e un efficace punto di partenza per una sintesi, nuova insieme e antica, che riconosca gli aspetti dottrinali che uniscono e superi, nella verità e nella carità, quelli che dividono, preludendo così alla ricomposizione di quell'unità che fu il grande ideale di Agostino pensatore e pastore. La città di Dio non conosce che una sola vittoria, quella della verità: una vittoria che non umilia nessuno, e onora tutti"4.

CAPITOLO OTTAVO

AGOSTINO AGLI UOMINI DI OGGI

L'ultima parte della Lettera si rivolge agli uomini di oggi (e di domani). L'argomento è importante, ma la natura del Documento costringe a procedere per accenni rapidi, ma preziosi. Esso si rivolge a sei categorie di persone: 1) agli uomini che cercano la verità, che sono molti; 2) agli uomini di pensiero, che credono di averla trovata ma ne cercano il centro animatore; 3) agli scienziati, immersi nello studio della natura; 4) agli uomini di governo; 5) ai teologi; 6) ai giovani.

Per ogni categoria mostra nel vescovo d'Ippona l'esempio e l'insegnamento per non deviare dalla strada giusta. Ho detto che procede per accenni, ma esplicitando questi accenni si ottiene un panorama vasto e profondo che mostra in Agostino un maestro inimitabile per ogni generazione.

1. Agli uomini che cercano la verità

Dice: "A chi cerca la verità insegna a non disperare di trovarla"1. Proprio così. È la grande missione che assunse Agostino, passato tra i tormenti dello scetticismo. Tanto più che la stima nutrita per i filosofi scettici lo rendeva perplesso circa la loro dottrina, e pensava che altrettanto accadesse agli altri2. Scrive perciò all'amico Ermogeniano: "A me sembra che si debbano ricondurre gli uomini alla speranza di trovare la verità"3.

A questa missione restò fedele per tutta la vita. Chi bene osserva, trova nei suoi scritti una vigile e costante attenzione nei riguardi di tre gravi errori che gettano l'uomo nello scoramento e lo fanno disperare di raggiungere la verità: lo scetticismo stesso, che si presenta sotto vesti atte ad ingannare, e i due suoi alleati, il materialismo e il razionalismo. Per ciascuno di essi indica la via per evitarli o in ogni caso per superarli.

La legge generale è questa: cercare la verità "con umiltà, disinteresse, diligenza: pie, caste ac diligenter". In questo caso, per una disposizione della divina provvidenza, la possibilità di trovarla non può mancare4. Agostino non cessa di indicarne la via, che la Lettera riassume.

Si supera lo scetticismo rientrando in se stessi - la via dell'interiorità di cui si è detto5 - e avvertendo che la mente umana è "di natura intelligibile, connessa non solo con le realtà intelligibili ma anche con le realtà immutabili, creata in modo che, quando si volge a quelle realtà alle quali è connessa...", le percepisce e scorge la verità6. Del resto Agostino inaugura l'argomento dell'autocoscienza, che mostra l'assurdità intrinseca dello scetticismo. Infatti "se dubito, vivo"7; "se m'inganno, sono: si fallor, sum"8. Il richiamo agostiniano è molto importante, perché la tentazione scettica è molto frequente e molto attuale. Si pensi al problematicismo e al relativismo. I nomi cambiano, ma il dubbio, che corrode il pensiero, resta. Agostino può aiutarci a guarire da questo male.

Si supera il materialismo distinguendo accuratamente tra realtà sensibili percepite dai sensi e realtà intelligibili che solo la mente intuisce: due realtà connesse ma non identiche. Questa seconda Agostino la scoprì leggendo i platonici - si veda lo stupendo paragrafo delle Confessioni9 -, l'approfondì poi e la spiegò in tutti i modi, affinché tutti, anche i più tardi d'ingegno, la comprendessero. Per un saggio, questa volta rivolto non ai semplici ma ai dotti, si veda La Trinità sui concetti di verità, bontà, giustizia, amore10.

Si supera il razionalismo pensando ai gravi e innumerevoli errori che la storia del pensiero umano registra11 e al posto che la fede occupa nelle cose umane, soprattutto che "anche la fede ha i suoi occhi con i quali vede in qualche modo che è vero quello che ancora non vede"12. La fede non è irragionevole; aiuta, non sostituisce la ragione; ha un primato di tempo, non d'importanza: questo resta in ogni caso alla ragione. La mente umana non è nata per credere, ma per conoscere; se crede, è per arrivare a conoscere.

Né razionalismo dunque che neghi la fede, né fideismo che neghi la ragione. Fede e ragione s'incontrano per condurre l'uomo alla conoscenza della verità e fissarlo nella contemplazione di essa. L'esperienza e la guida di Agostino sono, per gli uomini che cercano la verità, indubbiamente preziose.

2. Agli uomini di pensiero

Agli uomini di pensiero che indagano la verità, la propongono, la difendono, la Lettera ha due raccomandazioni da fare, ambedue importanti: 1) raccogliere le loro idee intorno ai due temi inseparabili, Dio e l'uomo; 2) aver fiducia nel trionfo del bene sul male.

Parlando del binomio, Dio e l'uomo, aveva spiegato le ragioni della prima raccomandazione. Il pensiero umano deve impegnarsi a promuovere la dignità e la grandezza dell'uomo, ma non lo può se lo separa da Dio. Dunque né l'uomo senza Dio né Dio senza l'uomo. In questo incontro misterioso sta il fulcro fondamentale che dà luce, forza, ordine al pensiero e crea quella filosofia che può aiutare e aiuta di fatto l'uomo verso la sua piena umanizzazione, che è poi, come dice Agostino, la sua "divinizzazione".

La seconda raccomandazione fonda l'ottimismo cristiano quale il vescovo d'Ippona lo intese e difese. Un ottimismo che non nega il male, ma sostiene che esso, nonostante i momentanei trionfi nei quali sembra diventare arbitro della storia, sarà vinto dal bene. La Lettera riporta un passo della Città di Dio (2, 29, 2) che in quattro rapide, geniali pennellate esprime il sublime ideale che trionferà alla fine. Nella condizione escatologica di quella città non ci sarà infatti altra vittoria che la verità, altra dignità che la santità, altra pace che la felicità, altra vita che l'eternità. Sarà, in altre parole, "l'ordinatissima e concordissima società di coloro che godono di Dio e l'uno dell'altro in Dio"13, nella quale, come stupendamente dice altrove Agostino stesso, "è re la verità, legge la carità, misura l'eternità"14. A questi ideali deve tendere il pensiero degli uomini per dare ad esso consistenza e unità.

3. Agli uomini della scienza

Volgendosi, poi, agli uomini della scienza trae dall'insegnamento agostiniano due utili suggerimenti: 1) riconoscere nelle cose create le vestigia di Dio; 2) scoprire nell'armonia dell'universo le "ragioni seminali" che Dio vi ha inserito per assicurarne lo sviluppo.

Agostino insiste sul primo tema proponendo la dottrina dell'esemplarismo divino. Il principio è: tutte le cose sono state create secondo le "ragioni" o gli esemplari eterni che esistevano ed esistono nella mente di Dio. Ciascuna cosa è stata creata secondo la propria "ragione": "Singula propriis creata sunt rationibus. Per la partecipazione di queste ragioni ogni cosa è ciò che è, qualunque essa sia"15. L'uomo può riconoscerla e, riconoscendola, diventar sapiente16.

Da questi principi metafisici proviene il richiamo della Lettera. Oggi che lo scienziato può piegarsi sull'atomo e scrutarne la composizione, ha il dovere di riconoscere in quel mondo infinitamente piccolo le vestigia della sapienza di Dio; di Dio che è "grande nelle cose grandi, ma non piccolo nelle cose piccole"17.

L'altro suggerimento è parimenti importante. Si sa che Agostino studiò e propose la teoria delle "ragioni seminali"18. Sono forze che presiedono allo sviluppo dell'universo. Quanto accade in esso, di ordinario o straordinario - le piante, i fiori, i frutti, gli animali, gli uomini -, ha origine da queste "ragioni". Dio le ha poste nelle cose, ed esse eseguono l'ordine divino. Anche quello straordinario, come il miracolo. Questo non avviene contro natura, ma contro il corso consueto della natura19. "Dio ha messo nelle nature che ha creato la possibilità di produrre questi effetti..."20, quando egli voglia che li producano. Nell'epoca dell'atomo e della genetica un riferimento a questa teoria di un antico padre della Chiesa non può non essere senza utilità.

4. Agli uomini di governo

Dopo gli uomini della scienza gli uomini di governo. Ad essi la Lettera rivolge un appello perché imparino dal vescovo d'Ippona ad amare la pace e a perseguirla attraverso la pace.

A buon diritto. Agostino ha parlato molto della pace, come della giustizia e dell'ordine. Ne ha parlato soprattutto nel libro XIX della Città di Dio. Il suo panorama è vastissimo, scrutando della pace il senso ontologico, umano, sociale, civile e religioso.

Essa è tanto intrinseca alle cose che "senza una certa pace nulla potrebbe assolutamente esistere"21. Neppure le cose perverse o disordinate. Anch'esse, se non fossero in pace in qualche loro parte, non sarebbero affatto22. L'uomo pertanto ama la pace, e non può non amarla, perché "nessun vizio è tanto contro natura, da distruggerne ogni minima traccia"23. Ora l'amore alla pace è insito nell'animo dell'uomo. Difatti "la pace è un bene tanto grande che anche nelle cose terrene e mortali non si sente nulla di più dolce, non si brama nulla di più desiderabile, da ultimo non si può trovare nulla di meglio"24. "Come non c'è nessuno che non voglia godere, così non c'è nessuno che non voglia la pace"25, "che è il fine di tutti i nostri beni"26.

Questa naturalità della pace dipende dalla socialità naturale dell'uomo. L'uomo è naturalmente sociale27 e la società non può essere senza la pace: "L'uomo infatti è portato per natura a costituire una società e ad ottenere la pace con tutti gli uomini, per quanto gli è possibile"28.

Perciò lo scopo della città terrena è quello di promuovere la pace. In essa "ogni uso dei beni temporali è riferito al conseguimento della pace terrena29" "La città terrena che non vive secondo la fede, desidera fortemente la pace terrena e ripone la concordia dei cittadini nel comandare e nell'obbedire, nel far sì che vi sia una certa armonia delle volontà degli uomini riguardo ai problemi che toccano la vita mortale"30 Di questa pace si serve la città celeste per condurre gli uomini a quella pace che è piena e totalmente vera.

Della pace celeste, di come possa l'uomo goderne in parte in terra e di come possa conseguirla perfettamente nella metastoria, Agostino parla molto, soprattutto nella Città di Dio, ma non è il caso di parlarne qui. Qui bastava accennare all'insistenza appassionata con la quale Agostino parla della pace, anche della pace terrena, per giustificare la raccomandazione del S. Padre ai governanti di mettersi alla sua scuola.

Ma c'è un altro aspetto che il Papa raccomanda d'imparare dal vescovo d'Ippona: il modo di raggiungere la pace. Tutti amano la pace, ma molti - troppi - amano la propria pace e odiano quella degli altri, e per imporla - la propria - ricorrono alla violenza. Non si fanno le guerre se non per ottenere la pace: pacem requirunt laboriosa bella31 Ognuno dei belligeranti vuol imporre la sua pace. La gloria vera invece è di cercare la pace attraverso la pace, non attraverso la guerra: pacem pace, non bello. La Lettera riporta per intero questo fondamentale pensiero, di cui, oggi soprattutto, si avverte il bisogno, l'urgenza, l'importanza. "E titolo più grande di gloria uccidere la guerra con la parola che gli uomini con la spada, e procurare o mantenere la pace con la pace e non con la guerra"32. Dio voglia che questo ammonimento agostiniano sia ascoltato da tutti e sempre.

Vorrei per ultimo ricordare agli uomini di governo l'ammonimento che Agostino rivolgeva a coloro che presiedono. Egli si rivolgeva, certo, ai vescovi, ma il concetto è applicabile a chiunque, per qualunque titolo, presieda, cioè governi una società: presiedere, governare è un servizio, non un titolo di onore. Chi presiede o governa senza questo spirito di servizio è un falso uomo di governo, è un arrogante "fantoccio", direbbe Agostino33.

5. Ai teologi

Dove però la Lettera, pur nella estrema brevità, si trattiene più a lungo, è su altre due categorie di persone, per le quali il S. Padre mostra una grande premura, diversa, certo, ma ugualmente pressante: i teologi e i giovani.

I teologi li richiama non tanto al patrimonio teologico di Agostino, nel suo complesso sempre valido, quanto al metodo con cui ha fatto teologia. Il commento alle parole della Lettera richiederebbe molte pagine: tenterò di dire molto ma in breve.

Il metodo teologico agostiniano comporta almeno quattro princìpi fondamentali. Li enumero: 1) piena adesione all'autoritá della fede; 2) ardente desiderio di penetrare l'intelligenza della fede; 3) profondo senso del mistero; 4) ferma convinzione della originalità della dottrina cristiana. Mi limiterò ad alcuni cenni.

L'autorità della fede è una sola: Cristo. Agostino lo scoprì e vi aderì pienamente al momento della conversione, e non se ne staccò più. Scrive nella sua prima opera: "E per me certezza che non ci si debba mai allontanare dall'autorità di Cristo". E ne dà la ragione: "perché non ne trovo altra più valida"34. Ma l'autorità di Cristo si manifesta nella Scrittura e la Scrittura nella Chiesa.

Quanto Agostino abbia amato la Scrittura è impossibile dirlo, qui almeno. Ne riconobbe l'origine divina, ne difese l'inerranza, ne proclamò la profondità e la ricchezza, la studiò senza posa. Per quanto riguarda l'inerranza non c'è chi non ricordi le sue parole: "Non è lecito dire: l'autore di questo libro non ha tenuto la verità; ma: o il codice è scorretto, o il traduttore ha sbagliato, o tu non capisci"35.

In quanto alla profondità della Scrittura, a Volusiano, nobile pagano simpatizzante per il cristianesimo, il quale aveva esaltato la conoscenza insuperabile che il vescovo d'Ippona aveva della Scrittura, risponde: "Le sacre Scritture sono tanto profonde che in esse avrei fatto ogni giorno dei progressi, se mi fossi sforzato di farne l'unico oggetto del mio studio dai primi anni della puerizia sino alla decrepita vecchiaia con tutta la calma possibile, con la maggiore applicazione e con un ingegno più vivace"36. Il latino è più efficace: studiare la Scrittura dalla puerizia alla vecchiaia maximo otio, summo studio, meliore ingenio.

Studiò la Scrittura guidato da due criteri fondamentali: conoscere tutta la Scrittura e concordarla con se stessa; due criteri che gli eretici con cui polemizzava non sempre seguivano, ed egli lo rimproverava loro.

Ma la Scrittura la leggeva nella Chiesa. E, come si sa, il principio della tradizione che i Padri, egli dice, avevano sempre seguito. Essi, così scrive, "insegnarono alla Chiesa ciò che avevano imparato nella Chiesa"37. Su questo principio era fermissimo. A Giuliano risponde: "Anche se non fosse possibile indagarlo con la ragione né spiegarlo con le parole, rimane sempre vero quello che si crede e si predica con sincera fede cattolica in tutta la Chiesa"38.

In Cristo e nella Chiesa Dio ha posto "l'autorità più eccelsa e la luce della ragione: totum culmen auctoritatis lumenque rationis"39. Da questo principio la celebre conclusione: "Io non crederei al Vangelo se non mi c'inducesse l'autorità della Chiesa cattolica"40.

Controversie possono nascere sull'interpretazione della Scrittura o sul modo d'intendere questo o quel domma, ma in questo caso occorre saper discutere "con santa umiltà, con pace cattolica, con carità cristiana"finché non sia emersa la verità41. La verità emerge o attraverso un concilio generale che esprime la fede di tutta la Chiesa o attraverso il pronunciamento della suprema autorità di essa. Il celebre causa finita est42 non è un espediente polemico ma la profonda convinzione d'una condizione ecclesiale. Infatti "Dio ha posto la verità nella cattedra dell'unità"43.

Alla ferma autorità della fede, per cui Agostino ci appare un Ireneo dei secc. IV- V, egli aggiunge un insaziabile desiderio, direi piuttosto un bisogno costituzionale di indagare il contenuto della fede. È celebre il suo intellectum valde ama, cioè: "Ama molto di capire"44; e l'altro, meno celebre perché meno conosciuto ma non meno bello, che Agostino riferisce a se stesso: rapimur amore indagandae veritatis, cioè: "siamo trascinati dal desiderio di indagare la verità"45. Questo desiderio o bisogno, oltre alla necessità di difendere la fede contro avversari spesso acuti, lo portò a spingere lo sguardo su quasi tutti i misteri cristiani gettando su ciascuno una luce nuova d'intelligibilità. Non v'è dubbio che il vescovo d'Ippona sia il più universale dei nostri dottori. Non c'è bisogno di esemplificare. Egli restò fedele a quanto aveva scritto in una delle prime opere: quid sciam quaero, non quid credam: "cerco la scienza e non (solo) la fede"46. Ma questa passione per la visione della verità non lo condusse mai al razionalismo. C'era un altro principio che gli serviva di freno: il senso del mistero. Né fideismo, dunque, né razionalismo.

Il senso del mistero fu tanto profondo che egli può essere considerato il dottore della docta ignorantia: la parola è sua47. Al suo popolo dice senza mezzi termini: "E migliore una ignoranza fedele che una scienza temeraria"48. Principio, questo, che egli applica al mistero della Trinità, dove è necessaria quanto mai la pia confessio ignorantiae49. Si sa che scrisse la grande opera su La Trinità proprio contro i "garruli ragionatori" che vengono fuorviati da un "immaturo e disordinato amore per la ragione"50.

Si sa altresì che insistette sul senso del mistero riguardo alla difficile questione della grazia: "Via le congetture dell'umana ragione; prendiamo le armi divine (della fede)"51. Infatti, dice ancora, i pelagiani "sono stati scossi dalla profondità del problema, ma avrebbero dovuto lasciarsi guidare dal timore dell'autorità"52. Egli, quando non comprende, si attiene ad essa53.

Ma il senso del mistero non impedisce ad Agostino di avere la ferma convinzione dell'originalitá della dottrina cristiana e di proclamarla contro pagani, eretici, giudaizzanti. Intendo per originalità la sua origine divina. "La nostra dottrina e la loro": quest'opposizione è ripetuta spesso. Nella Città di Dio, poi, costituisce il motivo di tutta l'opera. Si rilegga la dedica a Marcellino o prologo, che è solenne e impegnativo: "difendere la gloriosissima città di Dio contro coloro che ritengono i propri dèi superiori al suo fondatore... un'impresa grande e difficile, ma Dio è nostro aiuto"54. Dal corpo dell'opera basti un solo testo, che è, credo, molto significativo: "Per quanto riguarda il sommo e vero Dio vi sono filosofi i quali hanno ritenuto che egli è l'autore del creato, la luce della conoscenza, il bene dell'azione e che da lui abbiamo ricevuto il principio dell'essere, la verità del sapere e la felicità del vivere... Più propriamente vengono detti platonici, o anche altri, qualunque denominazione diano alla propria sètta... siano essi Mauritani o Libici, Egiziani, Indiani, Persiani, Caldei, Sciti, Galli, Spagnoli. Noi li consideriamo migliori degli altri e confessiamo che sono più vicini a noi cristiani"55.

Brevi cenni quelli che precedono, ma sufficienti, penso, per dimostrare con quale fondamento la Lettera raccomandi, a quanti faticano per approfondire il contenuto della fede, il metodo teologico del vescovo d'Ippona.

6. Ai giovani

L'ultimo messaggio è peri giovani. Partendo dal grande amore che Agostino ebbe per loro, sia prima che dopo la conversione, la Lettera ricorda il suo grande trinomio - verità, amore, libertà - e aggiunge ad esso un quarto termine, la bellezza, di cui Agostino fu parimenti sempre innamorato56.

Sull'esempio di Agostino i giovani devono amare queste quattro sublimi realtà. Per parlarne adeguatamente sarebbe necessario un discorso lungo e impegnativo: si tratta delle quattro realtà che entrano nel vivo e raggiungono i vertici del pensiero agostiniano e del pensiero umano. Ma anche qui dobbiamo procedere per rapidi cenni.

1) La verità. Si sa quanto Agostino l'abbia amata, sempre, prima e dopo la conversione: prima per trovarla, dopo per approfondirla. La verità in tutto, la verità soprattutto: la verità che abita nell'uomo interiore - in interiore homine habitat veritas57 - la verità che viene dal dono della fede.

Per trovarla spese tredici anni di ricerche inquiete. È noto che la sua conversione fu guidata da due grandi forze: l'amore della verità e la verità dell'amore. Egli cercava la verità, ma non una verità qualunque, neppure quella della scienza e dell'arte, bensì la verità assoluta ' quella che non è mescolata di menzogna, quella che illumina la vita e la salva: questa voleva trovare, abbracciare, possedere. Di questa egli scrive nelle Confessioni quelle celebri e commoventi parole ricordate anche dalla Lettera: "O Verità, Verità, come già allora dalle intime fibre del mio cuore sospiravo a te!". Ma i manichei, a cui aveva aderito, non gl'insegnarono la verità, bensì lo allontanarono da essa. Aggiunge infatti con grande mestizia: "mentre quella gente mi stordiva"58. Lo stordiva infatti col nome della verità che nascondeva la menzogna.

Così oggi. I giovani sono storditi dal nome di verità che nasconde la menzogna. Ognuno di coloro che si sentono qualcosa crede di possedere la verità e la predica e vuole imporla. Ma di che si tratta? Tutt'al più di frammenti di verità che è difficile perfino ritrovare tra tanti errori. Mentre l'ansia della gioventù è verso la verità intera, scevra di errori e di menzogne, quella che porta in sé il segreto della beatitudine. Amino dunque quello che amano, ma per conseguirlo non si affidino al primo maestro che parla o scrive, bensì all'Unico che ha parole di vita eterna.

Cosi fece Agostino. Nella prima delle sue opere, scritta poco dopo la conversione, esprimendo il motivo dominante della stessa conversione, scrive queste parole che abbiamo ricordato sopra ma che giova ripetere qui: "Ritengo per certo di non dovermi mai allontanare, per nessuna ragione, dall'autorità di Cristo". E ne dice il motivo: "perché non ne trovo altra più valida"59. E in/atti non se ne -allontanò mai. Quello che scrisse poi di Cristo-Verità è veramente meraviglioso. Un solo esempio. Rispondendo ad un giovane che aveva mostrato il desiderio di sapere ma solo cose di erudizione, lo esorta alla vera sapienza e gli dice: "Dio, allo scopo di ricreare e riformare il genere umano, ha posto nell'unico nome di Cristo - il nome che salva - e nell'unica sua Chiesa l'apice dell'autorità e la luce della ragione"60. Oh se i giovani meditassero queste parole! Non già che non ci sia verità fuori della fede in Cristo, ma non c'è verità contro l'insegnamento di Cristo.

2) L'amore. Insieme all'ansia della verità i giovani nascondono nel cuore, e in maniera più forte, l'ansia dell'amore; dell'amore puro, autentico, generoso; non di quello intriso di egoismo o sinonimo di esso. Eppure... Per liberarci dalla marea saliente degli egoismi che si annidano in noi e operano intorno a noi, e sentire e trovare l'amore autentico, quello che tende a stabilire, per quanto si può qui in terra, l'alto ideale dell'amicizia, può essere utile l'esempio e il magistero di Agostino.

L'esempio prima di tutto. Egli conobbe l'amore umano, anche quello disordinato; l'amore vagabondo a 16 anni, stabile e fedele con una donna a 17: non riuscì a liberarsene che a 32, quando riconobbe la verità dell'amore e volle darsi, per una decisione libera e autonoma, tutto a Dio. In questo nuovo amore, nel quale l'amore per gli uomini resta e anzi viene comandato ma è diverso, restò per tutta la vita. "Felice chi ama Te, l'amico in Te, il nemico per Te. L'unico a non perdere mai un essere caro è colui che ha tutti cari in Chi non è mai perduto"61. Conobbe l'amicizia, anch'essa umana, che lo sconvolse per la morte dell'amico62, un'amicizia che non gli dava la pace sicura e la gioia che cercava. L'amicizia che cercava la trovò solo quando riconobbe ch'essa si fonda nell'amore di Dio e diventa stabile solo in Cristo. "Non è vera amicizia, se non quando l'annodi tu tra persone strette col vincolo dell'amore diffuso nei nostri cuori ad opera dello Spirito Santo"63.

L'esempio di Agostino è particolarmente istruttivo ed efficace. I giovani possono ben guardare ad esso. Non per imitarne le storture dell'amore che egli conobbe, ma per imparare come si possa, anche da esse, risalire verso l'aria pura dell'amore vero, quello che, illuminato dalla verità, è di natura sua radicale, totale, disinteressato; e fonda la vera amicizia, la quale, com'è noto, costituisce un bisogno insopprimibile dell'amore umano. Di essa scrive: "In qualunque condizione umana nulla è amico all'uomo che non abbia un amico" 64.

Efficace dunque l'esempio; ma non meno efficace l'insegnamento. Incredibile quello che Agostino ha scritto intorno all'amore. Non si saziava di parlarne: "Fratelli - diceva -, io non mi stanco mai di parlare dell'amore"65. E di esso ha mostrato la natura, le proprietà, le ascensioni.

Non è possibile tentare qui neppure un breve riassunto dell'insegnamento agostiniano66. Ma per non passarlo del tutto sotto silenzio, dirò che per la natura dell'amore si ricordi la celebre metafora del peso: l'amore opera nell'animo come il peso nei corpi, e quindi è movimento, tensione, estasi o tendenza verso l'altro. Si rilegga il bel passo delle Confessioni: "Il mio peso è l'amore; esso mi porta dovunque mi porto: eo feror quocumque feror"66.

Per le proprietà si tengano presenti almeno queste: 1) l'amore dà all'amante le proprietà, buone o cattive, dell'amato: "Ognuno è tale qual è il suo amore"68; 2) l'amore rende facili anche le cose difficili, perché "se si ama, non si sente la fatica o se si sente si ama di sentirla" 69; 3) l'amore rende sempre nuove, e perciò affascinanti, le cose abituali70; 4) l'amore diventa necessariamente servizio. Ha detto il S. Padre nel discorso al Congresso, discorso che è come un commento e un completamento della Lettera stessa: "In Agostino l'amore diventa servizio", un "servizio indefesso, umile e totale alla verità"71.

Amore e verità sono dunque inseparabili - in questo senso deve intendersi il celebre detto agostiniano: "Ama e fa' ciò che vuoi"72 -; ma il binomio diventa subito trinomio, perché all'amore e alla verità si aggiunge la libertà, che il S. Padre raccomanda non tanto di amare (poiché tutti l'amano profondamente), quanto di imparare ad amarla alla scuola di Agostino.

3) La libertà. Inutile dire quanto gli uomini, soprattutto i giovani, amino la libertà. Per conseguirla affrontano i più grandi sacrifici, spesso la morte. Ma di quale libertà si tratta? e con quale frutto? Per lo più della libertà economica, sociale, politica, il cui desiderio, spesso legittimo, genera, non meno spesso, gli odi, la violenza, la guerra; cioè, in altre parole, il contrario di ciò che si cerca: la schiavitù invece della libertà.

Affinché il desiderio di libertà, che è insopprimibile, non resti deluso, il vescovo d'Ippona alza più in alto le vele. Senza disinteressarsi delle libertà economiche, sociali o politiche, e messa al sicuro la libertà di scelta che rende l'uomo responsabile delle proprie azioni, esalta e difende la libertà evangelica o libertà dal male. Sua bandiera le parole di Cristo: La verità vi farà liberi... se il Figlio vi libererà, sarete liberi davvero (Gv 8, 32. 36). Commentando sopra le pagine della Lettera dedicate al binomio grazia-libertà, ho parlato delle sei libertà, frutto della redenzione, da quella dall'errore per mezzo della fede a quella dell'immortalità nella beatitudine consapevole ed eterna.

Qui dirò solo che i membri del trinomio agostiniano sono strettamente uniti tra loro: verità, amore, libertà. Dalla verità l'amore, dall'amore la libertà. La libertà cristiana, infondo, non è che una sola: la libertas caritatis, la libertà dell'amore. "La nostra libertà - dice ancora Agostino - è questa: essere soggetti alla verità"73. Solo chi è soggetto alla verità è libero, e solo chi ama la verità e nella verità ama davvero.

Ricordino i giovani che la prima prerogativa della città celeste, a cui tende il pellegrinaggio del popolo di Dio, è la vittoria della verità: ubi victoria veritas74.

4) La bellezza. Al trinomio di verità, amore e libertà Agostino aggiunge un nuovo membro, che non è estraneo ma che anzi ne costituisce il termine: la bellezza. Il quadrinomio, completando il panorama delle realtà più alte e più affascinanti dello spirito, dà ad esso una vivacità e una freschezza che afferra, appaga ed esalta. "Che cosa amiamo - diceva il giovane Agostino agli amici -, se non il bello?... Che cos'è che ci attrae e ci avvicina agli oggetti del nostro amore? Se non ci fosse in essi la bellezza e la leggiadria, in nessun modo ci attirerebbero"75.

La prima opera che scrisse fu Sul bello. Non ne scrisse una seconda, nonostante che la prima fosse già perduta al tempo che scriveva le Confessioni, ma parlò molto della bellezza, insegnando a rifare il cammino che faceva spesso egli stesso: salire dalla bellezza dei corpi alla bellezza dell'arte, alla bellezza della virtù fino alla bellezza di Dio, che è "la bellezza di ogni bellezza"76. Da Dio infatti scende ogni bellezza, e da Lui, in Lui e per mezzo di Lui sono belle tutte le cose che sono belle77.

Ma Agostino non omette di ammonire che la bellezza dei corpi può far dimenticare quella dello spirito, può far dimenticare all'uomo se stesso. Celebri le parole delle Confessioni - a renderle celebri fu soprattutto il Petrarca - : "Vanno gli uomini ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza dell'Oceano, le orbite degli astri, mentre trascurano se stessi"78. Precisamente come aveva fatto il giovane Agostino, grande ammiratore delle bellezze dell'universo ma dimentico di se stesso. Perciò quelle parole, celebri anch'esse, di profonda nostalgia: "Tardi ti amai, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti amai!". E ne dà subito la ragione: "Tu eri dentro di me e io fuori"79

Così pure la bellezza dell'arte può indurre a non avvertire che "tutte le cose belle, che attraverso l'anima passano nelle mani dell'artista, provengono da quella bellezza che è superiore alle anime". Avviene pertanto - e questo avvenne anche ad Agostino - che "gli ammiratoti delle bellezze esteriori traggano dalla fonte della bellezza la norma per giudicarne il valore, ma non la norma per farne buon uso"80.

Perfino la virtù, che è la bellezza dell'anima - "Che altro è la giustizia quando è in noi, o qualunque altra virtù con la quale viviamo rettamente e sapientemente, se non la bellezza dell'uomo interiore?"81; perfino la virtù, ripeto, per cui l'uomo interiore è bello anche se l'anima informa un corpo deforme, può distoglierci dalla fonte da cui essa discende, se dimentichiamo che ogni virtù proviene da Dio.

Occorre raccogliere dunque la grande lezione che Agostino ha voluto darci scrivendo le Confessioni. Le ha scritte perché i lettoti, particolarmente i giovani, imparino a non imitarlo quando amava le cose belle e dimenticava la fonte di ogni bellezza, ma quando, riconosciuta questa fonte, l'ha amata prima di tutto, in tutto e sopra tutto.

In tal modo i giovani, a dispetto del logorio inesorabile del tempo, conserveranno perenne nell'amore della bellezza eterna lo splendore interiore della loro gioventù, che è la suprema loro aspirazione.

Con questo voto termina l'esortazione della Lettera nei vostri riguardi, o giovani. E questa parte il S. Padre la ricorda ai giovani di Perugia: "Verità - amore - libertà: è il trinomio che ho ricordato rivolgendomi ai giovani nella recente lettera per il XVI centenario agostiniano. Seguendo ancora il grande convertito, ho ricordato un quarto valore, che vi sta a cuore, che vi affascina: la bellezza... Amate la bellezza. Non solo - continuo con S. Agostino - la bellezza dei corpi, che potrebbe far dimenticare quella dello spirito, né solo quella dell'arte, ma la bellezza interiore di atteggiamenti nobilmente umani e, soprattutto, la bellezza eterna di Dio, da cui discende ogni bellezza creata: di Dio che è 'bellezza di ogni bellezza' "82.


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