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LUIGI ALICI, REMO PICCOLOMINI, ANTONIO PIERETTI
Verità e linguaggio
Agostino nella filosofia del Novecento /3
Città Nuova, Roma 2002
Introduzione
di Luigi Alici
Un antagonismo profondo tra filosofia ermeneutica e filosofia analitica è alla base della cosiddetta "svolta linguistica" che caratterizza la filosofia del Novecento, assumendo le forme di una contrapposizione a tutto campo: sul piano storico-geografico, come ci ricorda anche Engel, fra la tradizione "continentale" a quella anglosassone; sul piano metodologico fra Naturwissenschaften e Geisteswissenschaften; sul piano del linguaggio fra primato globale del senso ed esteriorità proposizionale, radicalizzandosi sul piano speculativo in una differenza insanabile tra olismo e atomismo, tra insuperabilità della mediazione interpretativa e immediatezza naturalistica. Per molti anni la riflessione filosofica è stata dominata da questo contrasto, che ha prodotto anche una netta differenziazione di interessi tematici e storiografici, alimentando, in qualche caso, atteggiamenti di ostentata indifferenza reciproca.
Solo in tempi più recenti, con l’avviarsi di una stagione di bilanci, s’incomincia a parlare di "varianti complementari", più che di "tradizioni concorrenti", mentre nell’attenuarsi, tipicamente postmoderno, dei profili netti ci si pone alla ricerca di parentele insospettate tra epistemologia ed ermeneutica, e si fanno sempre più frequenti, fino a diventare abituali, le incursioni in campi tradizionalmente "estranei": mentre Ricoeur avvia un confronto sistematico con la sfida epistemologico-linguistica, in nome del primato metodico della "via lunga", arrivando ad invocare una "alleanza nuova fra la tradizione analitica e la tradizione fenomenologica ed ermeneutica", la stessa filosofia analitica apre un confronto sempre più serrato con istanze cognitive finendo con il trasformarsi progressivamente in vera e propria Philosopy of Mind, in virtù di "un déplacement massif de la philosophie du langage vers la philosophie de l’esprit".
I saggi raccolti in questo volume passano in rassegna temi, problemi ed autori che appartengono ad entrambi i "versanti", analitico ed ermeneutico, in cui si è sviluppata la "svolta linguistica" nel Novecento, fino a spingersi in alcune direzioni periferiche, come la via psicoanalitica e la ricerca, particolarmente viva nella filosofia francese più recente, di un nuovo approccio alla nozione di soggetto, affidato ad un diverso bilanciamento di parola, scrittura e linguaggio. La verifica sull’eredità agostiniana, che motiva anche questa ricognizione, come quella dei due volumi precedenti, assume quindi molteplici motivi d’interesse: anzitutto consente di censire tracce significative di un confronto con il pensiero dell’Ipponate, che in molti casi produce risultati considerevoli e inattesi, tenuto conto che si tratta di un ambito tematico tradizionalmente estraneo, se non addirittura ostile, a quello egemonizzato da un male inteso spiritualismo. In secondo luogo, l’attenzione ad Agostino consente di rileggere e intercettare alcune matrici speculative di fondo, a partire dalle quali il pensiero del Novecento ha iniziato il suo complesso e variegato percorso esplorativo entro l’orizzonte del linguaggio.
Viene in tal modo confermato un esito ulteriore di quest’indagine, che non si limita a documentare la diffusione e l’incidenza dell’opera agostiniana, ma getta una luce nuova sullo stesso pensiero che l’accoglie e la filtra, consentendo di rivedere approcci storiografici angusti e di riconsiderare direttrici speculative sottovalutate. Tale esito appare particolarmente fruttuoso proprio in questo volume, in quanto restituisce profondità di prospettiva storica alla scelta linguistica e, per molti aspetti, consente una lettura in parallelo dei due percorsi, ermeneutico e analitico, aiutando a riscoprire, accanto a profondi motivi di distanza, anche qualche interessante elemento di affinità tematica.
Del resto, la scelta di intrecciare insieme queste due tradizioni sarebbe arbitraria, se non fosse possibile incontrare in alcuni centrali luoghi tematici una presenza agostiniana provata e qualificante. Tale presenza è stata individuata, com’è segnalato dal titolo di questo volume, alla radice stessa della riflessione intorno al linguaggio; dunque una riflessione che in qualche modo precede e rende possibile ogni ulteriore indagine "sul campo", condotta secondo un ampio spettro di modalità esplorative, oscillanti da un minimo epistemologico ad un massimo ermeneutico. Riflettere sui fondamenti stessi del linguaggio significa essenzialmente, in un contesto agostiniano, interrogarsi intorno alla sua intenzionalità veritativa, vale a dire intorno alla sua capacità di modulare il senso e la comprensione sullo sfondo di un realismo metafisico che esclude in linea di principio ogni forma di neutralismo epistemologico e di verbalismo agnostico. Troppo bruciante era stata, in Agostino, la disillusione del retore e troppo entusiasta la scoperta del nocciolo duro della rivelazione cristiana per consentirgli di impostare uno studio astratto e autoreferenziale del signum, senza ancorarlo saldamente nel primato ontologico della res. Un ancoraggio così saldo da non temere nessuna mediazione interpretativa, anche a costo di misurarsi con il dislivello inaggirabile di foris e intus, di verbum e vox, di littera e spiritus.
La centralità strategica del rapporto tra verità e linguaggio, che esprime nella riflessione dell’Ipponate un tratto specifico della sua riflessione intorno all’enigma fondamentale, divino ed umano, dell’incarnazione del senso, nel pensiero contemporaneo diviene motivo d’attrazione e insieme di repulsione, autentica pietra d’inciampo, assumendo, com’è naturale, torsioni semantiche nuove, che rischiano di rendere quel confronto a prima vista irriconoscibile. Eppure è proprio qui che il dialogo tra Agostino e il pensiero contemporaneo tocca il suo momento di massimo interesse e insieme di massima tensione: ora assurgendo a pretesto per una polemica insanabile, che non impedisce (come nel caso emblematico di Wittgenstein) l’ammissione di un’attrattiva straordinaria; ora riformando sensibilmente la dialettica di auctoritas e ratio, fino a trasformare la vocazione veritativa del linguaggio nell’appello al paradigma fiduciario della precomprensione, senza il quale non scatta nessuna dinamica interpretativa. Insomma nella correlazione agostiniana di verità e linguaggio il pensiero contemporaneo trova più di un motivo di confronto: sia nel caso che esso venga assunto come antidoto salutare contro ogni tentazione riduzionistica, sia che venga contestato come l’ultimo ostacolo contro la possibilità di separare e contrapporre interiorità vissuta ed esteriorità linguistica.
Fra i poli tematici attorno ai quali si intrecciano le ricerche presentate questo volume, un posto di primo piano è occupato dal linguaggio, come orizzonte di fondo entro il quale s’incontra un’ampia gamma di questioni, dalla genesi del senso alla funzione del segno e alla dinamica della comunicazione. E non è un caso che sia proprio Wittgenstein a rappresentare quasi emblematicamente l’ambivalenza di un confronto con Agostino, continuamente oscillante fra ammirazione e dissenso. Il saggio di Luigi Perissinotto mette a fuoco i termini singolari di un incontro, che va ben oltre le scarne citazioni esplicite, peraltro non secondarie in un autore così avaro di riferimenti. Tale incontro, al quale gli interpreti hanno dedicato un’attenzione tardiva, anche se successivamente compensata da una copiosa letteratura critica, nasce a partire da una lettura appassionata delle Confessiones, che può essere considerata, ci ricorda Perissinotto, come l’opera idealmente più vicina all’idea che Wittgenstein aveva della filosofia, espressione di un equilibrio irraggiungibile tra impegno filosofico e riflessione autobiografica.
Il rifiuto di identificare le domande filosofiche con problemi empirici e insieme il dovere di smascherare ogni fraintendimento linguistico conducono Wittgenstein a far proprio (anche se in un senso diverso) l’ossimoro agostiniano loquaces muti, con cui si denuncia la pretesa inaccettabile di forzare i limiti insuperabili del linguaggio. Al di là della non facile interpretazione dell’incipit delle Ricerche filosofiche, affidato ad un noto passo delle Confessiones, il confronto tra i due autori evidenzia una diversa interpretazione del momento genetico e istitutivo del linguaggio, che porta Agostino a misurarsi con la discontinuità metafisica tra vox esteriore e verbum interiore. Una strada sulla quale Wittgenstein non poteva certo seguirlo.
Una volta riconosciuto come impraticabile l’itinerario regressivo, alla ricerca del fondamento, le due vie finiranno però per divaricarsi irrimediabilmente: l’una verso la contemplazione del mistero dell’incarnazione della parola, l’altra verso la rinuncia ad ogni possibile conciliazione epistemologica con ciò che oltrepassa i limiti del linguaggio, in nome di un’assoluta fedeltà analitica. Ma Agostino non è soltanto il filosofo della genesi del senso; è anche l’autore che si confronta sistematicamente con la tradizione retorica, ricavandone un’articolata teoria del segno, affidata a trattazioni specifiche, senza la quale sarebbe impossibile il passo successivo in direzione ermeneutica. In un certo senso, la partita che si chiude con Wittgenstein finisce quindi per riaprirsi ad altri livelli, quando il dibattito semiologico comincia gradualmente a sondare gli strati più profondi di un continente appena esplorato, utilizzando metodologie d’analisi storiografica sempre più mirate e selettive; forse meno inclini ad inseguire consonanze simpatetiche o ad impegnarsi in giudizi speculativi di fondo, ma più attente allo scavo filologico e ai punti di intersezione fra dottrine e teorie diverse.
L’ampio studio di Antonio Pieretti fornisce una mappa circostanziata di tale confronto, a partire da un duplice ampliamento di prospettiva, che investe, da un lato, autori ed interpreti impegnati ad esaminare a vario titolo il nesso tra linguaggio, segno e significato, e chiama in causa, dall’altro, l’intera produzione agostiniana interessata a questi temi, dal De dialectica al De Trinitate, dal De magistro al De doctrina christiana. Riprendendo le mosse dal dibattito (ancora una volta riconducibile a Wittgenstein) intorno ai limiti di una riduzione del linguaggio a pura funzione denominativa, il saggio attraversa le molte riletture della teoria agostiniana del segno, che le riconoscono il merito di aver superato l’impostazione stoica (dalla quale peraltro prendeva le mosse), riuscendo a saldare in modo organico teoria del segno e teoria del linguaggio.
Il contributo decisivo alla nascita della semiotica trova quindi nella dottrina agostiniana del segno il suo maggior centro d’interesse e di discussione, relativamente soprattutto all’interpretazione del segno stesso in senso bidimensionale (vox/significatum) o tridimensionale (signum/significatum/res); dilemma in gran parte riconducibile, nota Pieretti, ai diversi intenti delle opere agostiniane, a seconda che prevalgano una trattazione generale del segno o un’attenzione alla specificità del segno linguistico. Ma anche la classificazione dei segni è al centro del dibattito, in particolare la possibilità di distinguere in senso intenzionale o convenzionale i signa data rispetto ai signa naturalia, dietro alla quale si nascondono due diversi modi d’intendere il linguaggio, come espressione personale o come struttura sociale.
Ancora una volta, quindi, l’Agostino interpretato si trasforma a sua volta in interprete. I numerosi autori che si misurano con quel pensiero, variamente distribuiti su un fronte che va dalla linguistica alla filosofia del linguaggio, incontrano non soltanto una terminologia ed una rete di dottrine, che consentono di misurare concretamente l’evoluzione della cultura antica, ma anche una impostazione teorica generale, capace di coniugare insieme semiotica e metafisica.
Ciò risulta particolarmente evidente quando ci si deve misurare con la vis verbi, che Agostino pone all’origine dell’evento comunicativo, e ancor più con l’interpretazione dello scarto fra interiore ed esteriore, che diventa nel De doctrina christiana condizione di possibilità di ogni impegno ermeneutico e nel De Trinitate espressione di un divario ancor più rilevante fra verbum e mens. A questo punto la domanda intorno al fondamento e all’origine del linguaggio non è più eludibile, trasformandosi in una vera e propria sfida, capace di smascherare i limiti di precomprensioni unidimensionali e di chiusure analitiche, che pesano su gran parte di quelle interpretazioni. Paradossalmente, come si dirà più avanti, gli orientamenti più recenti della cosiddetta filosofia post-analitica cercheranno di sbloccare questa preclusione epistemologica, ma sempre in nome di una pregiudiziale antimetafisica, che indurrà a cercare un varco attraverso la scienza cognitiva e la filosofia della mente; riapparirà in tal modo proprio quel fantasma del mentalismo, che aveva rappresentato per gli analitici della prima generazione il pretesto principale per ogni disimpegno speculativo.
Un'altra coordinata che consente di intercettare l’eredità agostiniana all’interno di quest’ambito di ricerche si sviluppa lungo un asse tematico, nel quale si saldano l’istanza epistemologica del rigore conoscitivo e l’istanza ermeneutica della comprensione del senso. Qui il rapporto tra linguaggio e verità appare modulato secondo una fondamentale questione di ordine gnoseologico, che finisce per spostare in secondo piano (senza peraltro mai dimenticarlo del tutto) ogni riferimento alla mediazione linguistica. E’ singolare che il paradigma agostiniano venga accolto e discusso non solo in prospettiva ermeneutica (come è legittimo attendersi), ma anche in un contesto più specificamente epistemologico, come attesta il saggio di Carlo Vinti su Michael Polanyi, che ci presenta un tentativo esplicito e meditato di reinnestare alcune intuizioni agostiniane nel cuore stesso di una teoria scientifica, liberata dall’illusione di un’assoluta autosufficienza formale.
Il punto di mediazione che rende possibile quest’incontro sembra essere il tentativo di riguadagnare uno statuto epistemologico connotato in senso personalista, raggiunto attraverso una critica del concetto tradizionale di conoscenza, eccessivamente sbilanciato in senso impersonale, in nome di un male inteso senso di oggettività. In questa strategia, Polanyi guarda deliberatamente ad Agostino, studia attentamente la sua opera, focalizzando alcuni contributi specifici, relativi al primato della fede, ai temi della conversione, dell’illuminazione e della condizione itinerante del conoscere. Solo riconoscendo una solidarietà profonda, che collega la scienza alle altre "province della cultura", è possibile prendere le distanze da una concezione meccanicistica del mondo, riscoprendo la "struttura fiduciaria" che è alla base della dialettica conoscitiva. Agostino offre quindi un contributo decisivo al rilancio di un’epistemologia "postcritica", capace di difendere la fecondità dell’intuizione e della passione intellettiva, ristabilendo alla radice di un corretto equilibrio dei poteri conoscitivi il valore euristico di un originario atto d’affidamento nei confronti della verità e della realtà.
Se il senso complessivo della rilettura polanyiana d’Agostino può riassumersi nell’invito ad allargare l’ottica della comprensione, inscrivendola in un orizzonte partecipativo più esteso e profondo, diventa allora più agevole riconoscere una certa continuità anche con la tradizione ermeneutica. Lo studio di Graziano Ripanti offre un’importante visione d’insieme in tale direzione, delineando un percorso che attraversa l’ermeneutica teologica per approdare a Gadamer. Anche se il bilancio complessivo intorno alla presenza di Agostino è stato volutamente circoscritto all’ambito filosofico, il confronto con l’ermeneutica non poteva prescindere dall’intreccio originario di un "duplice sentiero", come lo chiama Ripanti, teologico e filosofico, in cui gli apporti di Heidegger e di Barth risultano decisivi; ed è proprio l’ermeneutica il terreno comune di incontro e dialogo fra teologia e filosofia su questioni cruciali come il linguaggio, la storia, l’esistenza, la demitizzazione.
Un primo risultato di questa lettura incrociata porta a riconoscere paradossalmente un debito maggiore, nei confronti d’Agostino, da parte dei filosofi rispetto ai teologi; il fatto che il dibattito di questi ultimi sia nato nell’ambito della teologia protestante, segnata dalla condanna luterana dell’interpretazione allegorica, non è l’ultima ragione. Attraversando uno spettro molto ampio di posizioni, da Fuchs a Ebeling, da Bultmann a Moltmann, da Pannenberg a Jüngel, Ripanti evidenzia alcuni aspetti non secondari dell’eredità agostiniana, che riguardano essenzialmente il primato dell’amore, come orizzonte di comprensione previa dell’intero significato teologico della Scrittura; l’invito a separare mito e fede, che consente di rileggere criticamente il tema bultmanniano della demitizzazione; infine lo statuto dell’epistemologia teologica, che investe il modo stesso di intendere la natura conoscitiva e linguistica della teologia come scienza, invitando a misurarsi con l’insuperabile mediazione dei segni.
Questo itinerario a ritroso, che legittima un nuovo approccio al De Trinitate e al De doctrina christiana, individuando in Agostino un punto esemplare d’equilibrio tra scientia e sapientia, tra res e signa, è stato percorso anche dall’ermeneutica filosofica e l’opera di Gadamer ne è una testimonianza significativa. Secondo Ripanti, l’incontro di Gadamer con Agostino avviene all’insegna del dialogo, che costituisce per i due autori una modalità irrinunciabile di ricerca della verità e si focalizza attorno ai temi del tempo, dell’ermeneutica, del linguaggio. Pur riconoscendo all’Ipponate il merito d’aver portato in primo piano i paradossi ontologici del tempo, l’interpretazione gadameriana sembra risentire fortemente dell’influsso heideggeriano. Più diretto e convinto, invece, è il confronto con il De doctrina christiana, che segna, secondo Gadamer, l’inizio della storia dell’ermeneutica, e con la teoria del verbum mentis, ricavata dal De Trinitate, dalla quale vien fatta dipendere l’universalità dell’ermeneutica e del linguaggio in quanto dialogo tra detto e non detto, assunta come cifra di una "linguisticità originaria". A questo punto, conclude Ripanti, non solo il dialogo con Agostino diventa essenziale per la fondazione dell’esperienza ermeneutica in quanto tale, ma riemerge anche il tema cruciale della "verità che si fa tempo", che divide l’intero pensiero occidentale, opponendo ad una visione atemporale della verità, tipica della tradizione antica e medievale, la sua assoluta temporalizzazione, che nel pensiero postidealistico rischia di equivalere ad una totale dissoluzione storica.
In un certo senso, anche l’incontro di Paul Ricoeur con Agostino intercetta temi analoghi a quelli svolti dalla ricerca gadameriana e l’analisi condotta da Isabelle Bochet li raccoglie entro un duplice punto di coagulo, rappresentato dai temi della soggettività e del negativo, preparando in qualche modo il passaggio ad un altro gruppo di saggi, nei quali appunto sembra prevalere un’analoga sensibilità tematica. La studiosa francese segnala tre momenti decisivi della lettura ricoeuriana di Agostino, invitando a non sottovalutare l’influenza che questi ha comunque esercitato sul suo pensiero: il primo momento risale al 1960 ed è segnato dal tema del male; il secondo coincide, a distanza di più di un ventennio, con il grande affresco di Temps et récit; il terzo è caratterizzato da un’attenzione crescente all’ermeneutica biblica e al modo in cui il soggetto si scopre interpellato dalle Scritture.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, porta Ricoeur a riconoscere "l’ammirevole lezione di generosità ermeneutica" offertaci da Agostino, che ha la sua radice nell’interiorizzazione del dialogo umano-divino, teorizzata dal De magistro, anche se rimane una distanza incolmabile che separa il filosofo francese dalla via agostinana. Tale distanza è attribuita alla coscienza postilluministica di una distinzione tra filosofia e fede, vissuta da Ricoeur come una "sorta di schizofrenia controllata", assunta a regola costante del proprio pensiero, e ad un acuto senso delle mediazioni, rese necessarie da un’insuperabile "ontologia spezzata", e intese invece da Agostino come il prezzo provvisorio che l’umanità peccatrice deve pagare nel suo cammino verso la verità. Ancora una volta, dunque, è difficile percorrere la via della comprensione senza incontrare Agostino, anche se il senso ultimo di quest’incontro sembra dipendere in ultima analisi da una diversa interpretazione del grado di originaria "confidenza" con la verità.
Quando l’istanza della comprensione del senso è svincolata da ogni egemonia analitico-linguistica, i margini di dialogo con l’Ipponate, come attestano questi ultimi approcci, sembrano diventare più estesi e profondi. In tali casi, il confronto con il linguaggio, senza essere dimenticato, assume un diverso valore speculativo: non è più confinato entro un intrascendibile dominio analitico, rispetto al quale l’opera agostiniana può offrire tutt’al più un nobile e irraggiungibile appello spiritualistico o alcuni contributi dottrinali periferici, ma diventa il punto di partenza di un nuovo, affascinante viaggio alla ricerca della genesi del senso. L’invito a riconoscere nel linguaggio il crocevia da cui è possibile intraprendere, in compagnia di Agostino, un percorso a ritroso sulle tracce dell’originario è un altro contributo, che merita di essere segnalato in questo volume. Non si tratta, in questo caso, di un generico richiamo alla dimensione dell’interiorità, ma di un itinerario in larga misura estraneo alle vie più battute dalla storiografia agostiniana, caratterizzato dalla volontà polemica di prospettare una convincente alternativa epistemologica alla tematizzazione cartesiana del soggetto, ricercandola in una rimodulazione della stessa scrittura filosofica.
Questo percorso, che collega autori tra loro piuttosto distanti per orientamenti, sensibilità e ambiti di interesse, consentendo di trovare una linea non arbitraria di accostamento tra Jung e Lacan, Derrida e Lyotard, può prendere le mosse ancora una volta proprio da Ricoeur. L’analisi attenta e documentata d’Isabelle Bochet non si limita a registrare l’attenzione ricoeuriana alla questione del male in Agostino e le critiche rivolte alla sua tematizzazione del peccato originale, ma mette in luce puntualmente limiti e reticenze di tale approccio. L’altro registro tematico che riapre e allarga il dialogo è rappresentato dall’analisi agostiniana della temporalità, in cui si vede, come del resto anche in Gadamer, una forma fondamentale dell’esperienza umana, evidenziandone nello stesso tempo il carattere insuperabilmente aporetico. Nella sua attenta lettura del libro XI delle Confessiones Ricoeur indica lo "scacco" dell’analisi agostiniana nell’incapacità di sostituire una concezione psicologica del tempo ad una concezione cosmologica, anche se quest’accentuata problematizzazione, osserva la Bochet, porta a rovesciare i termini stessi dell’impianto agostiniano, riducendo l’eternità ad orizzonte lontano della riflessione, invece di accreditarla come il suo presupposto.
Anche il cammino sviluppato dalla ricerca psicologica nella direzione di una "archeologia del soggetto", per usare ancora un’espressione di Ricoeur, può essere presa in esame in questo contesto, a cominciare dall’opera di Jung; essa documenta in molti luoghi significativi, come mostra Giuseppe Galli, indizi inequivocabili di una lettura assidua e meditata di Agostino, che restituisce apporti non secondari ad alcuni snodi teorici di base della sua psicologia analitica. Lo stesso tentativo di definire la libido, sottraendola alla riduzione sessuale operata da Freud, passa attraverso Agostino, così com’è di derivazione agostiniana il richiamo alla concupiscentia e alla superbia, le due forme che ne esprimono l’energia psichica di fondo. Non solo: la stessa nozione junghiana di archetipo vien fatta risalire all’Ipponate, così come l’interpretazione del Sé come gioco di luce e di ombra, mentre l’elaborazione metafisica dell’idea di summum bonum e la sua identificazione cristologica sarebbero in Agostino motivo di disattenzione nei confronti della natura e della realtà del male e fonte di un ottimismo spiritualistico, che Jung intende ridimensionare, denunciando di pari passo, però, anche la deviazione in senso contrario, verso la pura esteriorità, addebitabile allo spirito illuminista.
Il saggio di Silvano Petrosino completa questo percorso, accostando tre autori che sembrano condurre le loro ricerche "in compagnia di Agostino"; una compagnia giudicata suggestiva e affidabile, a volte manifestata da rapidi cenni allusivi, anche se affioranti in momenti speculativamente cruciali, quando si radicalizza la ricerca di una soggettività segnata da una coupure, da una radicale eteronomia, che interrompe ogni possibile continuità con l’ingenua semplificazione cartesiana.
Come Jung, anche Lacan legge Agostino come colui che "anticipa la psicoanalisi" in una delle sue scoperte più radicali: se la verità parla, essa parla soltanto in un soggetto "affetto dall’inconscio", vale a dire un soggetto decentrato e diviso, in qualche misura sempre "fuori posto". E Agostino aiuta a scoprire la radicale eccentricità del sé a se stesso, che impedisce al soggetto di assurgere a fondamento autoreferenziale. In tal senso l’umano può essere inteso come il luogo in cui la frattura viene alla parola, attraverso un originario e irriducibile rinvio all’Altro.
Anche per Derrida le Confessioni di Agostino rappresentano un luogo privilegiato in cui s’annuncia lo scarto tra sapere e verità, che denuncia il limite fondamentale del sapere, facendosi scrittura. Le origini algerine di Derrida (come era già avvenuto con Albert Camus) conferiscono un sapore particolare all’incontro con il suo illustre "compatriota", determinando un intreccio di due confessioni; in questa esperienza, che è insieme sorpresa ed evento, viene in primo piano il coinvolgimento di "colui che dice" in "ciò che si dice" e si addita nel perdono la "verità" stessa della confessione, riconoscendole una struttura di abbandono che l’avvicina alla dinamica profonda del dono.
Una sorta di "topologia del soggetto" è infine anche alla base della lettura delle Confessioni condotta da Lyotard, che ne ricava la cifra riassuntiva nell’amor come pondus proprio del soggetto. Ancora una volta la confessio agostiniana è vista come l’ambito in cui il soggetto è messo in opera dal suo testo; il desiderio e il tempo attestano una decostruzione dell’autore, un’incrinatura nell’armatura del cogito, che porta ad affermare: "io sono stato scritto nella mia vita". Ma questo non equivale a rinchiudersi nel vicolo cieco del non sapere; significa al contrario "capacità di sentire e di gioire liberata da ogni pastoia, portata a una potenza sconosciuta… In Agostino la carne graziata realizza il suo desiderio".
5. Le ragioni di un’assenza
Non c’è dubbio che quando s’imposta e si porta a termine un’indagine complessa e ad ampio spettro come questa, relativa all’incidenza del pensiero agostiniano, i risultati conseguiti possono essere valutati almeno ad un duplice livello: sia per la presenza che per l’assenza di tracce consistenti e documentabili di quel pensiero. E se l’indagine ha prodotto risultati sorprendenti nella prima direzione (evidenziando un’attenzione diffusa, in qualche caso addirittura inattesa, nei confronti d’Agostino, confermata dall’ampio panorama bibliografico, organizzato e visitato criticamente da Donatella Pagliacci), credo debba essere segnalata, soprattutto per quanto riguarda lo spettro delle questioni affrontate in questo volume, almeno un’area di disattenzione altrettanto sorprendente, localizzabile nel vasto arcipelago della cosiddetta Philosophy of Mind.
E’ paradossale, infatti, che l’opera d’Agostino abbia avuto tanto da dire alla filosofia analitica del linguaggio e, in una certa misura, all’epistemologia contemporanea, mentre rischi di essere completamente dimenticata proprio nel momento in cui molte pregiudiziali antimentaliste cominciano a cadere e si riapre l’agenda dei problemi rimossi relativi all’identità personale (Mind-Body Problem, dibattito sull’Intelligenza Artificiale, coscienza e intenzionalità, mente e mondo, comprensione e comunicazione…). Quest’ampio spettro di problemi torna prepotentemente in primo piano in conseguenza di una "svolta cognitiva" che si riappropria gradualmente, sotto forma di una nuova "scienza della mente", di spazi ritenuti epistemologicamente impraticabili, e come tali abbandonati a frequentazioni spiritualistiche o fenomenologiche.
Una volta sbloccata una situazione di stallo, il dibattito intorno all’identità personale, condotto all’incrocio di ricerche linguistiche, psicologiche e informatiche, torna a confrontarsi con antiche questioni speculative, per molti anni declassate al rango di pseudoproblemi: realismo e scetticismo, monismo e dualismo, determinismo e indeterminismo, linguaggio e verità. L’epistemologia si misura sempre più esplicitamente con l’ontologia, ma con il rischio di uno "scivolamento incontrollato" da un ambito all’altro. Per questa via torna in primo piano la domanda intorno all’identità personale, anche se sulla base di un modo diverso di istruire il problema: non più a partire dalla regione dell’interiore e dello spirituale, ma da quella dell’esteriore e del naturale. E’ questa, in fondo, la promessa della scienza cognitiva: assimilare ogni fenomeno cognitivo, sia naturale che artificiale, ad un semplice processo d’elaborazione dell’informazione. E se la prima via è segnata dallo studio assiduo d’Agostino, nella seconda colpisce il silenzio assordante di qualsiasi riferimento alla sua opera e alla sua tradizione.
Se si passano in rassegna la maggior parte degli autori più impegnati in quest’ultima impresa, da Parfit a Dennett, da Quine a Davidson, da Fodor a Searle, da Putnam a Minksy (per citarne, ovviamente, solo alcuni), non si può non registrare una forma di amnesia storica troppo consolidata per essere casuale. E quest’atteggiamento non si riscontra soltanto nelle forme di riduzionismo più estremo, che delegittimano il problema dell’identità personale ("personal identity is not what matters", secondo la nota formula di Parfit) o promettono di spiegare anche l’atteggiamento intenzionale in termini evoluzionistici e adattativi; appare anche nelle versioni più impegnate a difendere una qualche specificità irriducibile del mentale, o negando la natura neurocerebrale degli stati mentali, di per sé mere conseguenze dei processi di trasformazione delle rappresentazioni, intercettabili dalla psicologia sperimentale, come avviene in Fodor, oppure difendendo la "soggettività ontologica" come caratteristica primaria della coscienza e pretendendo nello stesso tempo di "naturalizzarne l’intenzionalità", come in Searle.
In ogni caso, parafrasando Marcel, potremmo dire che la mente rappresenta solo un problema, più che un mistero; un problema che non ha nulla della magna quaestio riconosciuta da Agostino, perché neutralizza in radice ogni riferimento autoimplicativo e perché respinge in linea di principio l’idea di un dislivello epistemologico nella continuità dell’analisi. La conclusione di Searle su questo punto è forse la più antiagostiniana possibile: "Se disponessimo di una scienza del cervello adeguatamente sviluppata e di una descrizione di questo organo in grado di spiegare in termini causali la coscienza in tutte le sue forme e varietà, e se superassimo i nostri errori concettuali, - egli scrive - il problema mente-corpo si dissolverebbe come neve al sole".
Non è possibile in questa sede esplorare le ragioni di questa sordità, probabilmente attribuibili ad un deficit di prospettiva storico-filosofica, tipico della cultura anglo-americana (dove fioriscono la maggior parte di questi studi), ma anche ad una vera e propria ossessione anticartesiana (anch’essa condizionata, peraltro, da qualche stereotipo interpretativo). La volontà di marcare la distanza da qualsiasi forma di dualismo ingenuo accentua sicuramente la diffidenza nei confronti d’ogni filosofia riflessiva, teorizzando l’irrilevanza di quel fenomeno d’introspezione, di cui si riconosce proprio ad Agostino la paternità, e alimentando l’equivoco di una soluzione dell’enigma del sé affidata interamente alla scienza cognitiva, alla psicologia sperimentale e alle neuroscienze.
A questo punto, allora, non resta che chiedersi, con Marvin Minsky: "Come è possibile che il cervello, in apparenza così solido, sia il supporto di cose tanto impalpabili come i pensieri?" Una volta impostato in tal modo il problema, i giochi in un certo senso sono fatti: per rispondere, basterà cercare le "piccole macchine" che si comportano come "agenti della mente" e non avrà più senso invocare un’anima, intesa come "una scintilla di luce invisibile […] Perché tentare di racchiudere il valore di un Sé in una forma così singolarmente congelata?".
Verità e linguaggio
Agostino nella filosofia del Novecento/3
Indice
Introduzione (Luigi Alici)
Ludwig Wittgenstein. I limiti del linguaggio (Luigi Perissinotto)
1. Premessa
2. Le Confessioni di Wittgenstein
3. Et vae tacentibus de te quoniam loquaces luti sunt
4. Agostino, il linguaggio e le Ricerche filosofiche
5. "Quid ergo est tempus?
le teorie del segno (Antonio Pieretti)
1. Oltre il denominativismo
2. Linguaggio e significato
3. L’identificazione del segno
4. Tra intenzione e convenzione
5. Linguaggio e pensiero
6. L’eredità agostiniana
Michel Polany. Nisi credideritis, non intelligetis (Carlo Vinti)
1. Fonti agostiniane
2. Epistemologia personalista
3. Addio a Laplace
4. Alle origini della filosofia postcritica
5. Il paradigma fiduciario
I sentieri dell’ermeneutica (Graziano Ripanti)
1. Agostino e l’ermeneutica teologica
2. Agostino e Gadamer
Paul Ricoeur. Soggetto e negatività (Isabelle Bochet)
Carl Gustav Jung. Individuazione e realizzazione del Sé (Giuseppe Galli)
1. Libido
2. Archetipo
3. Archetipo del Sé
4. Realizzazione del Sé
Lacan, Derrida, Lyotard e la compagnia di Agostino
(Silvano Petrosino)
1. Lacan: "Di Agostino si armino anzitutto i miei uditori…"
2. Derrida: "… sant’Agostino, che d’altra parte io venero ed invidio"
3. Lyotard: "… Agostino non ha la risorsa della geometria di Dedekind e Poincaré"
4. Il senso di una compagnia
Appendice bibliografica (Donatella Pagliacci)
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