LIBRO OTTAVO

Il paradiso terrestre: realtà o figura?

1. 1. Dio inoltre piantò il paradiso in Eden nell'Oriente e vi collocò l'uomo che aveva formato 1. So bene che molti autori hanno scritto molto a proposito del paradiso: tre sono tuttavia le opinioni, diciamo così, più comuni su questo argomento. La prima è quella di coloro che vogliono intendere il "paradiso" unicamente in senso letterale; la seconda quella di coloro che lo intendono solo in senso allegorico; la terza è quella di coloro che prendono il "paradiso" in entrambi i sensi: cioè ora in senso letterale, ora in senso allegorico. Per dirla dunque in breve, confesso che a me piace la terza opinione. Conforme a questa opinione mi sono accinto adesso a parlare del paradiso, come il Signore si degnerà di concedermi. Ecco: l'uomo ch'era stato fatto con il fango della terra - cosa questa che indica certamente il corpo umano - fu collocato nel paradiso materiale. Adamo è, sì, simbolo di un'altra persona secondo l'affermazione dell'Apostolo - ossia ch'egli è figura del secondo Adamo 2 - ma qui lo prendiamo nel senso di un "uomo" costituito nella sua propria natura, che visse un determinato numero di anni e, dopo aver generato una sua numerosa discendenza, morì allo stesso modo in cui muoiono gli altri uomini, sebbene non fosse nato da genitori come tutti gli altri, ma fatto di terra, com'era conveniente al primo uomo. Per conseguenza si dovrà anche ritenere che il paradiso ove Dio collocò l'uomo, non è altro che una località, cioè una contrada, dove potesse dimorare un uomo terrestre.

Senso letterale e senso allegorico nei libri della Scrittura.

1. 2. Effettivamente in questi libri il racconto non è scritto nel genere letterario in cui le realtà sono prese in senso figurato, come nel Cantico dei cantici, ma nel senso letterale di fatti realmente accaduti, come nei Libri dei Re e negli altri di tal genere. Ma in detti libri vengono esposti fatti che càpitano abitualmente nella vita umana e perciò vengono intesi senza difficoltà, anzi di primo acchito, in senso letterale, di modo che se ne può trarre poi il significato allegorico ch'essi hanno di avvenimenti anche futuri. Nella Genesi, al contrario, poiché vi sono esposti fatti che non càpitano a lettori abituati a considerare solo il corso ordinario della natura, alcuni vogliono intenderli non in senso proprio, ma in senso figurato; per conseguenza pretendono che la storia, cioè la narrazione di fatti accaduti realmente, cominci solo dal punto in cui Adamo ed Eva, dopo essere stati espulsi dal paradiso, si unirono nell'amplesso sessuale e generarono figli. Come se per la nostra esperienza fossero fatti ordinari la lunga vita di Adamo ed Eva, o la traslazione di Enoch o il parto d'una donna anziana e sterile o altri fatti di tal genere.

Obiezione: il racconto di fatti meravigliosi diverso da quello della creazione.

1. 3. Ma - obiettano essi - c'è differenza tra un racconto di fatti meravigliosi e quello della creazione delle creature. Nel primo caso la singolarità degli stessi fatti dimostra che v'è diversità tra quelli che sono - per così dire - i modi in cui avvengono i fatti naturali e i modi in cui avvengono i miracoli, ch'essi chiamano "fatti meravigliosi"; nel secondo caso ci vien posta sotto gli occhi la creazione delle nature. A questi tali si risponde che anche la stessa creazione è insolita per il fatto ch'essa è la prima. Che c'è infatti tanto privo di esempi e senza pari nella costituzione del mondo quanto il mondo stesso? Bisogna forse credere che Dio non ha creato il mondo per il fatto che non crea più altri mondi? oppure credere che non ha creato il sole per il fatto che non crea più altri soli? Ecco la risposta che per la verità dovrebbe darsi a quanti provano imbarazzo per queste obiezioni a proposito non solo del paradiso ma dell'uomo stesso. Orbene, poiché credono che l'uomo fu creato da Dio come non è stato creato nessun altro, come mai rifiutano di credere che il paradiso fu creato allo stesso modo che adesso vengono create le foreste?

I fatti narrati con termini concreti sono da intendere anzitutto in senso proprio.

1. 4. Mi rivolgo naturalmente a coloro che accettano l'autorità delle Scritture: alcuni di essi infatti vogliono intendere il paradiso non in senso proprio, ma in senso figurato. Con quelli invece che respingono in blocco le Scritture che stiamo interpretando, abbiamo trattato in un'altra opera in modo diverso; ma ciononostante anche nella suddetta opera nostra noi difendiamo - nei limiti della nostra capacità - il senso letterale; in tal modo coloro, che senza alcun motivo razionale, rifiutano di credere questi fatti per ostinazione o per ottusità mentale, non possono trovare alcuna ragione per dimostrare che sono falsi. D'altra parte alcuni dei nostri scrittori, che credono nelle divine Scritture, rifiutano d'intendere il paradiso nel senso letterale, cioè come un luogo assai ameno, ombreggiato da alberi carichi di frutti e in pari tempo spazioso fecondato da una sorgente abbondante mentre vedono tanti e tanto vasti boschetti verdeggianti arricchirsi di rami senza alcun concorso dell'uomo ma solo grazie all'occulta azione di Dio. Io mi stupisco come mai [questi scrittori] credono che l'uomo fu creato in un modo completamente estraneo alla loro esperienza. Oppure, se anche l'uomo si deve intendere in senso figurato, chi mai generò Caino, Abele e Set? Esistettero forse anch'essi solo in senso figurato e non erano uomini nati da uomini? Questi pensatori considerino quindi più attentamente ove li condurrebbe la loro opinione preconcetta e si sforzino con noi d'intendere in senso proprio i fatti narrati. Chi, infatti, non li approverebbe allorché intendono che cosa questi fatti indicano anche in senso figurato, riguardo alle realtà spirituali o ai sentimenti o agli eventi futuri? Naturalmente, se non fosse affatto possibile salvaguardare la verità della fede prendendo anche in senso letterale le cose della Genesi che qui commentiamo e sono denotate con termini di significato materiale, quale alternativa ci resterebbe che prenderle in senso figurato, anziché accusare empiamente la sacra Scrittura? Se, al contrario, anche prendendo queste cose in senso letterale, non solo non impediscono ma servono a difendere con più valide prove il racconto della sacra Scrittura, io penso che non ci sarà nessuno tanto ostinato nella sua opinione contraria alla fede che, vedendo che sono narrate in senso letterale, conforme alla norma della fede, preferisca restare nella sua precedente opinione se per caso gli fosse sembrato che quelle cose non potevano esser prese se non in senso figurato.

Perché Agostino espose allegoricamente la Genesi contro i Manichei.

2. 5. Io stesso, poco dopo la mia conversione, scrissi due libri contro i manichei i quali sono in errore non perché intendono questi libri dell'Antico Testamento in senso diverso da quello dovuto, ma perché li rigettano del tutto e, nel rifiutarli, ne fanno oggetto di bestemmie sacrileghe. Allora io desideravo confutare subito le loro aberrazioni o stimolarli a cercare nelle Sacre Scritture, da essi aborrite, la fede insegnata da Cristo e consegnata nei Vangeli. In quel tempo però non mi si presentava alla mente in qual modo tutti quei fatti potessero intendersi in senso proprio, anzi mi pareva che non fosse possibile o lo fosse solo a stento e difficilmente. Per questo, affinché la mia opera non subisse ritardi, spiegai quale fosse il senso figurato dei fatti, di cui non riuscivo a trovare il senso letterale e lo feci con la maggiore brevità e chiarezza possibili, al fine di evitare che i manichei rimanessero scoraggiati dalla prolissità della mia opera o dall'oscurità della discussione e non si curassero di prenderla nelle loro mani. Mi ricordavo tuttavia dello scopo che mi ero proposto e che non ero in grado di raggiungere: quello cioè d'intendere tutti i fatti dapprima non già in senso figurato, ma in senso proprio e, perché non disperavo del tutto di poterli intendere anche in senso proprio, esposi lo stesso pensiero nella prima parte del secondo libro, ove dico: Senza dubbio se uno desidera intendere tutti i fatti [della Genesi] solo alla lettera, intenderli cioè non diversamente da ciò che significa la lettera, e può evitare di esprimere concetti falsi ed empi, affermando invece dottrine pienamente conformi alla fede cattolica, non solo non dev'essere visto di malocchio, ma considerato un interprete eccellente e assai lodevole. Se invece non ci è data alcuna possibilità d'intendere i racconti della Genesi in un senso religioso e degno di Dio se non credendo che essi ci son presentati in figure ed enigmi, dobbiamo attenerci all'autorità degli Apostoli, dai quali sono spiegati tanti enigmi dell'Antico Testamento, e mantenere il metodo esegetico intrapreso con l'aiuto di Colui che ci esorta a chiedere, cercare e bussare 3, per potere spiegare in conformità con la fede cattolica tutte le realtà sia di genere storico, sia di genere profetico, senza pregiudicare una spiegazione più esatta e più accurata fatta da noi o da altri, ai quali il Signore si degnerà di manifestarla 4. Così dicevo allora. Adesso invece il Signore ha voluto che, guardando più addentro e considerando più attentamente quei testi, pensassi non senza fondatezza - a mio parere - che potessi mostrare anch'io che quei fatti sono stati scritti in senso proprio anziché in quello allegorico. Perciò come abbiamo voluto mostrare questo senso letterale per i testi precedenti, allo stesso modo cerchiamo d'esaminare anche i testi seguenti relativi al paradiso.

La piantagione degli alberi nel paradiso.

3. 6. Dio dunque piantò il paradiso in un luogo di delizie - questo è il significato di "Eden" - nell'Oriente e vi pose l'uomo che aveva formato 5. Così afferma la Scrittura, poiché così avvenne. La Scrittura poi riprende il racconto stesso che aveva esposto brevemente, per mostrare come ciò avvenne, come cioè Dio piantò il giardino e vi pose l'uomo che aveva formato. Ecco infatti come prosegue il testo: Dio inoltre fece germogliare ancora dalla terra ogni specie di alberi belli a vedersi e buoni a mangiarsi 6. La Scrittura non dice: "Dio inoltre fece germogliare dalla terra un altro albero o gli altri alberi", ma dice: Dio inoltre fece germogliare ancora dalla terra ogni specie di alberi belli a vedersi e buoni a mangiarsi. La terra dunque aveva già prodotto, cioè al terzo giorno, ogni specie di alberi graditi alla vista e buoni per il nutrimento. Dio infatti il sesto giorno aveva detto: Ecco, io vi ho dato ogni specie di erba che si semina e produttrice di seme, che si trova su tutta la faccia della terra e ogni sorta d'alberi fruttiferi aventi in sé il frutto produttore di seme: ciò sarà per vostro nutrimento 7. Può forse essere dunque che "allora" Dio diede agli uomini una cosa e "ora" ha voluto darne un'altra? Io non lo credo. Ma siccome questi alberi piantati nel giardino sono della stessa specie di quelli che la terra aveva già prodotti il terzo giorno, essa li produsse ancora al tempo fissato. Poiché quando la Scrittura afferma che la terra produsse le piante il terzo giorno, esse erano state create "allora" sulla terra nei loro princìpi causali, nel senso cioè che "allora" la terra aveva ricevuto il potere latente di produrre le piante, lo stesso potere grazie al quale avviene che ancora "adesso" la terra produce quelle piante in modo palese e a termine determinato.

In che modo Dio parlava creando le ragioni causali degli esseri.

3. 7. Per conseguenza le parole dette da Dio il sesto giorno: Ecco, io vi ho dato ogni specie d'erba che si semina e produttrice di seme, che si trova su tutta la faccia della terra 8 ecc., non furono pronunciate da Dio mediante la voce risonante nel tempo, ma per mezzo della sua potenza creatrice che è nel suo Verbo; tuttavia solo con suoni emessi nel tempo si può dire agli uomini ciò che Dio disse senza servirsi di suoni misurabili nel tempo. Sarebbe infatti avvenuto che l'uomo, già plasmato col fango e fatto un essere vivente mediante il soffio di Dio e tutti i membri del genere umano discendenti da lui avrebbero dovuto servirsi, per il loro nutrimento, dei frutti delle piante che sarebbero spuntate dalla terra in virtù della potenzialità generatrice già ricevuta dalla terra. Dio perciò, deponendo nelle creature le ragioni causali [di quelle erbe e piante] che poi sarebbero esistite, come se già esistessero, parlava mediante la propria intima e trascendente verità, che nessuno ha mai vista o udita 9, ma che il suo Spirito ha rivelato allo scrittore sacro.

L'albero della vita.

4. 8. Le parole che seguono: Dio inoltre piantò l'albero della vita nel centro del paradiso e l'albero della conoscenza del bene e del male 10 dobbiamo considerarle con particolare attenzione per non essere costretti a intenderle in senso allegorico, come se questi alberi non esistessero [davvero] e, sotto il nome di alberi, simboleggiassero un'altra realtà. La Scrittura infatti dice della sapienza: Albero della vita è per tutti coloro che l'abbracciano con amore 11. Tuttavia, sebbene esista in cielo la Gerusalemme eterna, anche sulla terra è fondata una città che di quella è simbolo. Anche Sara e Agar, sebbene fossero figura dei due Testamenti 12, erano tuttavia anche due donne. Inoltre, sebbene Cristo ci bagni con l'acqua spirituale mediante la passione sofferta sul legno della croce, era tuttavia anche la roccia che, percossa da un legno, fece scaturire acqua per il popolo assetato 13 e perciò la Scrittura può dire che la roccia era Cristo 14. Tutte quelle cose simboleggiavano qualcos'altro diverso da ciò ch'esse erano, ma tuttavia erano anch'esse delle realtà materiali. E quando l'agiografo ne parlava, il suo non era un parlare figurato, ma il racconto preciso di fatti reali che prefiguravano realtà future. V'era dunque un albero della vita, come v'era una roccia ch'era Cristo; Dio poi non volle che l'uomo vivesse nel paradiso senza simboli di realtà spirituali, presentati a lui mediante cose materiali. L'uomo aveva dunque negli altri alberi il suo nutrimento, ma in quello della vita c'era un simbolo. E che cosa simboleggiava, se non la sapienza, di cui la Scrittura dice: Albero della vita è per tutti coloro che l'abbracciano con amore 15? Allo stesso modo, di Cristo si potrebbe dire ch'è la roccia da cui sgorga la sorgente per tutti coloro che hanno sete di lui. Giustamente egli vien chiamato con il nome di ciò ch'era simbolo di lui prima della sua venuta. Egli è l'agnello che viene immolato a Pasqua; tuttavia quell'immolazione non solo era prefigurata mediante il nome ma anche mediante un'azione reale. Poiché non può dirsi che quell'agnello non fosse un agnello: era senza dubbio un agnello che veniva ucciso e mangiato 16. Tuttavia con quell'azione reale veniva prefigurata anche un'altra realtà diversa. Quel fatto era diverso da quello del vitello ingrassato che fu immolato per il banchetto in onore del figlio minore 17 per il suo ritorno a casa. In quest'ultimo caso il racconto per se stesso ha un senso figurato e non si tratta di un fatto realmente accaduto avente un senso figurato. Non fu l'Evangelista a narrare quel fatto ma fu lo stesso Signore a raccontarlo; l'Evangelista al contrario narra che fu il Signore a raccontare quella parabola. Ecco dunque perché anche ciò che narra l'Evangelista, che cioè il Signore fece quel racconto, è anch'esso un fatto reale, ma il racconto fatto dal Signore in persona era una parabola, a proposito della quale non si esige mai che le cose espresse a parole si possano dimostrare come fatti avvenuti anche alla lettera. Cristo è anche la pietra consacrata con l'olio da Giacobbe, e la pietra scartata dai costruttori, ma divenuta pietra angolare 18. Nel primo caso però c'è anche una relazione a un fatto realmente accaduto, mentre nel secondo si tratta solo di un fatto predetto in un linguaggio figurato. Il primo è un fatto accaduto nel passato e narrato dallo scrittore sacro; il secondo invece è solo la predizione di avvenimenti futuri.

L'albero della vita insieme realtà concreta e simbolo.

5. 9. Così anche la Sapienza, cioè lo stesso Cristo, è l'albero di vita nel paradiso spirituale, ove il Signore inviò dalla croce il buon ladrone 19, ma nel paradiso materiale fu creato anche un albero di vita che avrebbe simboleggiato la Sapienza. Questo afferma la Scrittura che, narrando i fatti accaduti al loro tempo, narra parimenti che anche l'uomo, creato con un corpo e vivente nel suo corpo, fu posto nel paradiso. Oppure, se c'è chi pensa che le anime, dopo essere uscite dal corpo, sono trattenute in luoghi materialmente visibili, sebbene siano prive del loro corpo, sostenga pure la sua opinione. Tra i fautori di questa teoria non mancheranno di quelli che arrivano a sostenere che anche il ricco tormentato dalla sete era in un luogo sicuramente materiale e non esitano a dichiarare che l'anima stessa è assolutamente corporea per il fatto che la lingua del ricco [epulone] era riarsa e bramava una goccia d'acqua dal dito di Lazzaro 20. Io con costoro non voglio discutere a vanvera riguardo a una questione così difficile: è meglio aver dubbi su cose misteriose che discutere su quelle incerte. Io non dubito affatto che il ricco [epulone] si trovava nel castigo del fuoco ardente mentre il povero [Lazzaro] si trovava nella gioia del refrigerio. Ma in che senso dobbiamo intendere le fiamme dell'inferno, il seno di Abramo, la lingua [arida e riarsa] del ricco, il dito del povero, il refrigerio della goccia d'acqua? È forse possibile trovare a stento una risposta a questi problemi da chi li indaga con spirito pacato, mentre non sarà mai possibile a coloro che discutono con acrimonia. Noi perciò dobbiamo rispondere in fretta per non attardarci in una questione difficile e che richiede lunghi discorsi. Se le anime anche dopo la loro dipartita dal corpo sono trattenute in luoghi materiali, il buon ladrone poté essere introdotto nel paradiso, ove fu posto il primo uomo vivente nel suo corpo. Ciò detto, aggiungo che mediante un passo più appropriato delle Scritture, se lo esigerà la necessità d'una spiegazione, spero di precisare in qualche modo ciò che potrò venire a conoscere con le mie indagini o esprimere il mio pensiero riguardo a questo argomento.

L'albero della vita era reale ma anche simbolo della sapienza.

5. 10. Tuttavia, che la Sapienza non è un corpo e perciò neppure un albero, non solo non lo dubito io ma penso che non lo dubiti nessuno. Era però possibile che la Sapienza avrebbe potuto esser simboleggiata nel paradiso terrestre mediante un albero, per mezzo cioè d'una creatura materiale usata - per così dire - come un simbolo; ma questa ipotesi crede non doverla accettare chi non vede quante realtà materiali nelle Scritture sono simbolo di realtà spirituali, oppure chi sostiene che il primo uomo non avrebbe dovuto regolare la propria vita conforme a un simbolo siffatto, mentre invece vede un simbolo di tal genere l'Apostolo parlando della donna - che di certo è stata tratta da una costola dell'uomo - dicendo che l'affermazione della Scrittura: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e saranno due in una carne sola 21 è un mistero grande in rapporto a Cristo e alla Chiesa 22. È strano e assai difficile a tollerarsi che alcuni vogliano intendere il "paradiso" solo in senso figurato e non ammettano che sia stato fatto anche come figura di un'altra realtà. Ma se a proposito di Agar e di Sara, d'Ismaele e d'Isacco si ammette che sono anch'essi persone reali e tuttavia sono anche delle figure simboliche, io non vedo perché non ammettere che anche l'albero di vita non solo era un vero albero e tuttavia era anche simbolo della Sapienza.

Di che natura era il cibo offerto da quell'albero.

5. 11. Si deve inoltre notare che il cibo dell'albero di vita, benché fosse materiale, era tuttavia di tal natura da rinvigorire il corpo umano dandogli una sanità duratura, non come uno degli altri alimenti, ma grazie ad un influsso misterioso che conservava [sempre] sano il corpo. Infatti, benché quello fosse di certo un pane ordinario, tuttavia in un'altra occasione ebbe un potere maggiore, poiché con una sola piccola focaccia Dio preservò un uomo dall'inedia per lo spazio di quaranta giorni 23. Esiteremo forse noi a credere che Dio, mediante il frutto di un albero, destinato ad essere figura d'un cibo più eccellente, potesse dare all'uomo il potere di preservare il proprio corpo dal deterioramento fisico, causato da malattie o dall'età, o dal cadere anche nella morte, dal momento che diede al cibo dell'uomo una proprietà tanto meravigliosa che la farina e l'olio, contenuti in recipienti di terracotta, potessero ristorare le forze mancanti senza che venissero a mancare essi stessi 24? Adesso venga pure fuori uno della genìa degli attaccabrighe a dire che Dio avrebbe dovuto compiere simili miracoli nelle nostre regioni ma non avrebbe dovuto compierli nel paradiso terrestre, come se creare nel paradiso l'uomo con il fango o la donna traendola da una costola dell'uomo non fosse un miracolo più grande di quello di risuscitare i morti sulla nostra terra.

L'albero della conoscenza del bene e del male.

6. 12. Dobbiamo ora considerare l'albero della conoscenza del bene e del male. Anche quest'albero era certamente visibile e materiale come tutti gli altri alberi. Non dobbiamo dunque dubitare che fosse un albero, ma cercare il motivo per cui ebbe questo nome. Quanto a me, considerando più e più volte il problema, non posso dire quanto approvi l'opinione di quegli scrittori i quali affermano che il frutto di quell'albero non era dannoso - poiché Dio che aveva fatto ogni cosa molto buona 25, non aveva creato nulla di cattivo nel paradiso - ma che per l'uomo il male fu l'aver trasgredito il precetto di Dio. Era invece conveniente che all'uomo, posto sotto il dominio di Dio suo Signore, fosse vietato qualcosa in modo che proprio l'ubbidienza fosse per lui la virtù mediante la quale potesse piacere al proprio Signore. Io posso dire con tutta verità che l'unica virtù di ogni creatura ragionevole operante sotto il dominio di Dio è l'ubbidienza, mentre la radice e il più grande di tutti i vizi è la superbia per cui uno usa il proprio potere per la propria rovina e questo vizio si chiama disubbidienza. L'uomo dunque non avrebbe avuto alcuna possibilità di rendersi conto o di accorgersi d'essere soggetto al Signore, se non gli fosse stato impartito un precetto. L'albero perciò non era cattivo, ma ebbe il nome di albero della conoscenza del bene e del male perché, se l'uomo ne avesse mangiato il frutto dopo il divieto, quell'albero sarebbe divenuto l'occasione della futura trasgressione del precetto e a causa della trasgressione l'uomo avrebbe compreso - mediante il castigo che avrebbe sperimentato - la differenza che c'è tra il bene dell'ubbidienza e il male della disubbidienza. Ecco perché neppure qui la Scrittura parla d'un simbolo, ma dobbiamo prendere l'albero nel senso letterale e concreto, al quale fu imposto il nome suddetto non a causa dei frutti o dei pomi che nascevano da esso, bensì a causa dell'effetto che ne sarebbe seguito, se fosse stato toccato contro il divieto [di Dio].

I fiumi del paradiso.

7. 13. E un fiume, che irrigava il paradiso, usciva da Eden e di lì si divideva in quattro bracci. Il primo di essi si chiama Fison; questo scorre intorno a tutta la regione di Evilath dove c'è l'oro, e l'oro di quel paese è puro e c'è anche il carbonchio e lo smeraldo. Il secondo fiume si chiama Geon; esso scorre attorno a tutto il paese dell'Etiopia. Il terzo fiume è il Tigri; questo scorre attraverso l'Assiria. Il quarto fiume è l'Eufrate 26. Parlando di questi fiumi perché mai dovrei sforzarmi ulteriormente di confermare ch'essi sono veri fiumi e non espressioni figurate, come se non fossero delle realtà ma solo nomi significanti qualche altra realtà, dal momento che sono assai noti nei paesi attraverso i quali scorrono, e sono conosciuti quasi da tutti i popoli? Si può anzi costatare che questi fiumi esistono davvero: a due di essi l'antichità ha cambiato il nome, come [è accaduto per] il fiume che ora si chiama Tevere, mentre prima si chiamava Albula; il Geon è infatti lo stesso fiume che ora si chiama Nilo; si chiamava invece Fison quello che ora si chiama Gange; gli altri due, il Tigri e l'Eufrate, al contrario, hanno conservato tuttora il loro nome. Questi riscontri dovrebbero persuaderci a prendere anzitutto in senso letterale gli altri particolari e a non vedervi un modo figurato di parlare, bensì che non sono soltanto dei fatti reali, narrati come storici ma che sono anche figure di qualche altra realtà. Ciò non perché una parabola non possa prendere qualche particolare della realtà benché sia evidente che i fatti raccontati da essa non sono avvenuti in senso letterale. Così il Signore parla di quel tale che scendeva da Gerusalemme a Gerico ed incappò nei briganti 27. Chi mai non si accorge e non vede chiaramente che si tratta d'una parabola e che tutto quel racconto è allegorico? Cionondimeno le due città nominate nella parabola si possono vedere anche adesso nei propri luoghi. Anche questi quattro fiumi potremmo prenderli in senso figurato, se una qualche necessità ci costringesse a prendere in senso figurato e non letterale tutto il rimanente racconto del paradiso; ma ora, poiché nessuna ragione c'impedisce di prendere i fatti stessi anzitutto in senso letterale, perché non dovremmo seguire semplicemente piuttosto l'autorità della Scrittura relativa alla narrazione dei fatti, prendendoli dapprima come fatti veramente accaduti e poi, alla fine, indagare qual altra realtà potrebbero simboleggiare?

La sorgente e il percorso di quei fiumi.

7. 14. Saremo forse imbarazzati [ad ammettere ciò] per il fatto che, a proposito di questi fiumi, si dice che la sorgente di alcuni di essi è nota mentre di altri è del tutto ignota e perciò non può esser preso alla lettera [il racconto biblico], che cioè sarebbero bracci dell'unico fiume del paradiso? Ma poiché non sappiamo affatto dove si trovasse il paradiso, bisognerebbe piuttosto supporre che di lì si diramassero i quattro corsi d'acqua come attesta la Scrittura assolutamente veridica, e che i fiumi di cui si dice che si conosce la sorgente fossero andati a finire sotterra e, dopo aver percorso estese regioni, risgorgassero in altre località in cui si pretende di localizzare la sorgente. Chi non sa che questo fenomeno è comune ad alcuni corsi d'acqua? Ma questo fenomeno si conosce solo nelle regioni ove i fiumi hanno un corso sotterraneo breve.

Si può credere che l'uomo fu posto nel paradiso per lavorarlo senza fatica.

8. 15. Il Signore Dio prese poi l'uomo ch'egli aveva fatto e lo pose nel paradiso perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio inoltre diede il seguente comando ad Adamo: Tu potrai mangiare sicuramente di tutti gli alberi del paradiso, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrete mangiare perché il giorno che ne mangerete morrete sicuramente 28. Dopo aver detto più sopra che Dio aveva piantato il paradiso e vi aveva posto l'uomo da lui formato 29, l'agiografo riprende qui il racconto per narrare in qual modo fosse costituito il paradiso. Ora perciò, riprendendo il racconto, ricorda anche in quali condizioni Dio vi pose l'uomo fatto da lui. Vediamo dunque che cosa voglia dire la frase "per coltivarlo e custodirlo". Che cosa doveva coltivare e che cosa doveva custodire? Volle forse il Signore che il primo uomo lavorasse coltivando la terra? Oppure è forse credibile che Dio condannasse l'uomo al lavoro prima che peccasse? Noi potremmo certamente pensare così, se non vedessimo alcuni coltivare la terra con tanto godimento spirituale che per essi sarebbe un gran castigo esserne distolti per qualche altro lavoro. Qualsiasi diletto dunque, che può arrecare l'agricoltura, era allora certamente di gran lunga maggiore dal momento che nessuna avversità poteva accadere né da parte della terra né dell'atmosfera. L'agricoltura infatti non sarebbe stata un lavoro gravoso, ma un esercizio gioioso della volontà, poiché tutti i prodotti della creazione di Dio, grazie alla collaborazione del lavoro dell'uomo, sarebbero nati più abbondanti e rigogliosi; in tal modo al Creatore sarebbe stata resa una lode maggiore per aver dato all'anima posta in un corpo vivente il metodo razionale e la capacità di lavorare nella misura di quanto desiderava di fare liberamente o nella misura richiesta dai bisogni del corpo che potesse costringere uno a lavorare contro la sua volontà.

L'agricoltura e la potenzialità della natura creata da Dio.

8. 16. Quale spettacolo è più grande e meraviglioso, oppure dove mai la ragione umana può meglio conversare in certo qual modo con la natura che quando si è seminato, si sono piantati i virgulti, trapiantati gli arbusti, innestati i maglioli? Allora la mente umana si mette, per così dire, a esaminare che cosa possa o non possa effettuare l'energia di ogni radice e di ogni germe, per qual motivo lo possa o non lo possa, quale efficacia abbia nella natura la potenza invisibile e interna delle sue energie e quale ne abbia la cura applicata dall'esterno. Con queste considerazioni la mente può comprendere che non è qualcosa né chi pianta né chi irriga, ma è Dio che fa crescere 30; poiché anche il lavoro applicato dall'esterno viene eseguito da un uomo, creato tuttavia da Dio e invisibilmente guidato e regolato da Dio.

La duplice azione della Provvidenza per le creature.

9. 17. Ora, da questo punto la mente eleva lo sguardo a considerare lo stesso mondo come una specie di grande albero della creazione e anche in esso si scopre la duplice attività della Provvidenza: quella naturale e quella volontaria. L'attività naturale della Provvidenza viene esplicata dall'occulta azione di Dio che fa crescere anche gli alberi e le erbe, mentre l'attività volontaria viene esplicata mediante l'opera degli angeli e degli uomini. In virtù della prima attività sono regolate le creature celesti in alto e quelle terrestri in basso, risplendono i luminari e le stelle, si avvicendano il giorno e la notte, la terraferma è solcata e circondata dalle acque, si diffonde l'aria al di sopra della terra, arbusti e animali sono generati e nascono, crescono, s'invecchiano e muoiono; e così avviene per tutto ciò che nelle cose si produce per un impulso interno e naturale. Per mezzo dell'altra attività della Provvidenza si dànno segni, s'impartisce l'insegnamento e s'acquista l'apprendimento, si coltivano i campi, si governano le comunità, si esercitano le varie professioni e ogni altra attività che si compie tanto nel consorzio della città celeste quanto in quello terrestre e mortale: in tal modo anche i malvagi, a loro insaputa, concorrono al bene dei buoni. Anche nell'uomo stesso esercita il suo influsso la duplice attività della Provvidenza: anzitutto esercita l'attività riguardo al corpo, in virtù cioè del moto per cui l'uomo nasce, cresce, invecchia; quella volontaria poi per cui provvediamo a nutrirci, a vestirci, a conservarci. Lo stesso avviene per quanto riguarda l'anima: grazie all'attività naturale essa vive e sente, grazie all'attività volontaria invece impara e acconsente.

L'agricoltura considerata nel senso allegorico: paragone tra l'albero e l'uomo.

9. 18. Orbene, come l'azione esterna del coltivatore contribuisce a far progredire lo sviluppo interno di un albero, così per quanto riguarda il corpo dell'uomo, l'azione interna della natura è aiutata all'esterno dalla medicina. Ugualmente, per quanto riguarda l'anima, l'insegnamento impartito dall'esterno contribuisce all'interiore felicità della natura. Ciò che è la negligenza nel coltivare un albero, è per il corpo trascurare le cure mediche, e per l'anima è la pigrizia nell'imparare. Ciò che è per l'albero l'acqua superflua, è per il corpo il nutrimento nocivo e per l'anima è l'incentivo al male. Al di sopra di tutte le cose è Dio che tutto ha creato e tutto governa, crea ogni natura con bontà e governa ogni volontà con giustizia. Che cosa c'è dunque di contrario alla verità se crediamo che l'uomo fu posto nel paradiso per esercitare l'agricoltura non già costretto da un lavoro servile ma spinto da un godimento spirituale adatto alla sua nobiltà? Che cosa c'è di più innocente per chi ha tempo libero, e che cosa desta pensieri più profondi per i sapienti?

Che significa: per coltivarlo e custodirlo.

10. 19. [L'uomo fu messo nel paradiso] per custodire: ma per custodire che cosa? Forse lo stesso paradiso? Ma contro chi? Di sicuro non c'era da temere alcun invasore dalle vicinanze né alcuno che avrebbe scompigliato le frontiere, nessun ladro, nessun aggressore. In qual senso dobbiamo intendere dunque che il paradiso materiale potesse essere custodito con mezzi materiali? Tuttavia nemmeno la Scrittura dice: "perché coltivasse e custodisse il paradiso", ma semplicemente: per lavorare e custodire. Se d'altra parte si traducesse più accuratamente alla lettera, dal greco, sta scritto così: Il Signore Dio prese l'uomo che aveva fatto e lo pose nel paradiso per coltivarlo e custodirlo 31. Ma noi non sappiamo se Dio vi pose l'uomo a lavorare: così interpretò il traduttore: perché lavorasse o coltivasse (ut operaretur), oppure "a lavorare" il medesimo paradiso, cioè "affinché l'uomo coltivasse il paradiso"; il testo è ambiguo e il modo di esprimersi sembra richiedere che non si dica "a lavorare il paradiso", ma "nel paradiso".

Prima ipotesi: spiegazione allegorica.

10. 20. Tuttavia, nell'ipotesi che la Scrittura dicesse per lavorare il paradiso nel senso in cui più sopra aveva detto: Ma non c'era [ancora] l'uomo che lavorasse la terra 32 - poiché "lavorare la terra" e "lavorare il paradiso" sono due espressioni identiche - dovremmo spiegare questa frase ambigua nell'uno e nell'altro senso. Ammesso che non sia necessario intendere quella frase nel senso di "custodire il paradiso", ma "nel paradiso", che c'era dunque da custodire nel paradiso? Infatti abbiamo già spiegato che cosa voglia dire - a nostro avviso - lavorare nel paradiso. Diremo forse che l'uomo avrebbe dovuto custodire in se stesso con la disciplina il prodotto da lui ottenuto lavorando nella terra mediante l'agricoltura? In altre parole, allo stesso modo che la terra ubbidiva a lui quando la coltivava, così doveva ubbidire anche lui al Signore, dal quale aveva ricevuto il precetto, in modo da rendergli il frutto dell'ubbidienza e non le spine della disubbidienza? Di conseguenza, poiché l'uomo non volle restare ubbidiente e custodire in se stesso la rassomiglianza dal paradiso da lui coltivato, fu condannato e ricevette in castigo un campo simile a lui. Dio infatti disse: Spine e rovi produrrà la terra per te 33.

Seconda ipotesi: altra spiegazione allegorica.

10. 21. Se invece accettiamo la seconda ipotesi, e intendiamo che l'uomo "coltivava il paradiso" e "custodiva il paradiso", avrebbe, sì, potuto coltivarlo esercitando l'agricoltura - come abbiamo detto più sopra --, ma non avrebbe potuto custodirlo contro furfanti o nemici - che non esistevano - bensì, forse, contro le bestie selvagge. Ma come sarebbe stata possibile una simile cosa? E per qual motivo? Forse che le bestie infierivano già contro l'uomo, dal momento che ciò sarebbe avvenuto solo a causa del peccato? Come infatti è ricordato in seguito dalla Scrittura, fu proprio l'uomo a imporre il nome a tutte le bestie che erano state condotte davanti a lui; inoltre egli stesso il sesto giorno per ordine impartito da Dio ricevette il cibo comune con tutte le bestie. Oppure, se c'era già da temere qualcosa da parte delle bestie, come avrebbe potuto, un uomo solo, difendere il paradiso? Esso infatti non era una piccola località, dato che era irrigata da un fiume tanto grande. L'uomo pertanto avrebbe dovuto difendere il paradiso qualora fosse stato in grado di fortificarlo da ogni lato con una muraglia tanto grande e lunga che non potesse penetrarvi il serpente; ma sarebbe stata un'azione incredibile, se l'uomo avesse potuto scacciarne tutti i serpenti prima di recingerlo da ogni lato con una muraglia!

10. 22. Perché dunque trascuriamo l'interpretazione più ovvia? L'uomo fu messo nel paradiso per coltivare lo stesso paradiso, com'è stato spiegato più sopra, mediante il lavoro agricolo non faticoso ma gioioso e adatto a suscitare nella mente di un sapiente pensieri alti e salutari. L'uomo inoltre doveva custodire il paradiso badando di non commettere qualche fallo per cui meritasse d'esserne espulso. Per conseguenza ricevette un precetto osservando il quale avrebbe potuto conservare per sé il paradiso, nel senso cioè che non ne sarebbe stato espulso qualora avesse ubbidito. Giustamente infatti si dice che uno non custodisce un suo bene se agisce in modo da perderlo, anche se quel bene rimane intatto per un altro che lo trova e merita di riceverlo.

Senso preferibile: Dio lavora e conserva l'uomo.

10. 23. La frase che discutiamo può avere anche un altro senso che per una giusta ragione io credo preferibile: Dio cioè lavorava e conservava l'uomo in persona. Poiché, allo stesso modo che l'uomo coltiva la terra non per far sì che sia terra, ma renderla con il suo lavoro tale da portar frutto, così Dio in un modo più efficace coltiva l'uomo, creato da lui stesso, perché possa essere reso giusto, purché non si allontani da lui per superbia. Infatti allontanarsi da Dio è ciò che la Scrittura chiama principio della superbia: Principio della superbia dell'uomo - dice la Scrittura - è allontanarsi da Dio 34. Dio è il Bene immutabile, l'uomo al contrario è un essere mutevole non solo quanto all'anima ma anche quanto al corpo; egli quindi non può essere formato per essere giusto e felice se non si volgerà e resterà stretto al Bene immutabile che è Dio. Per conseguenza il medesimo Dio, che crea l'uomo perché sia uomo, coltiva anche l'uomo e lo custodisce perché sia anche buono e felice; ecco perché la Scrittura con la medesima espressione con cui dice che l'uomo coltiva la terra - ch'era già terra - per renderla bella e feconda, dice che Dio coltiva l'uomo - ch'era già uomo - perché sia buono e saggio, e lo custodisce poiché, quando l'uomo si compiace della propria potenza più di quella di Dio, che è al di sopra di lui, e quando disprezza la signoria di Dio, vive in una continua insicurezza.

Perché la Scrittura chiama qui Dio: il Signore.

11. 24. Io penso perciò che non sia privo di significato, ma che ci richiami alla mente qualcosa d'importante, il fatto che dalla prima riga di questo libro della sacra Scrittura, cioè dalla frase iniziale: Nel principio Dio creò il cielo e la terra, fino al passo che qui discutiamo, la Scrittura non dice mai "il Signore Iddio", ma soltanto Dio. Ora, al contrario, appena giunta al punto in cui racconta che Dio pose l'uomo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo in ubbidienza al suo precetto, la Scrittura dice: Il Signore Iddio prese poi l'uomo ch'egli aveva creato e lo pose nel paradiso a coltivarlo e custodirlo 35. Dice così non perché Dio non fosse il Signore delle altre creature menzionate in antecedenza, ma perché questa frase non era scritta né per gli angeli né per alcun altro degli esseri creati, bensì per l'uomo, al fine di ricordargli quanto gli sia utile aver Dio per Signore; vivere cioè in ubbidienza sotto la sua sovranità piuttosto che secondo il proprio arbitrio, abusando senza alcuna misura del proprio potere. Ecco perché l'autore sacro non volle usare questa espressione prima di arrivare al punto [del suo racconto] in cui l'uomo sarebbe stato messo nel paradiso per coltivarlo e custodirlo. La Scrittura non dice più, come per le altre opere precedenti: "Dio inoltre prese l'uomo da lui creato", ma dice: Il Signore Dio prese poi l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per coltivarlo, affinché fosse giusto, e per custodirlo, affinché fosse sicuro operando precisamente sotto la sua sovranità, che è utile non già a Dio, ma a noi. Non è infatti Dio che ha bisogno della nostra sudditanza, ma siamo noi che abbiamo bisogno della sua sovranità, affinché egli ci coltivi e ci custodisca. Ecco perché è lui il vero e solo Signore, poiché noi serviamo lui non per la sua ma per la nostra utilità e salvezza. Se, infatti, fosse lui ad avere bisogno di noi, per ciò stesso non sarebbe il vero Signore, perché saremmo noi a soccorrere la sua indigenza, alla quale sarebbe soggetto anche lui. Giustamente il Salmista dice in un suo Salmo: Io ho detto al Signore: Mio Dio sei tu, poiché non hai bisogno dei miei beni 36. Quanto a ciò che abbiamo detto, che cioè noi serviamo Dio per il nostro bene e per la nostra salvezza, non dobbiamo prenderlo nel senso che noi aspettiamo qualcos'altro di diverso da lui ma unicamente lui stesso che è il sommo Bene e la nostra salvezza; è così che lo amiamo disinteressatamente conforme a quanto dice il Salmista: Bene è per me stare unito a Dio 37.

L'uomo è incapace di fare il bene senza Dio.

12. 25. L'uomo non è un essere costituito in modo che, una volta creato, possa compiere alcuna buona azione come se potesse farla da se stesso, qualora venisse abbandonato dal suo Creatore. Tutta la sua azione buona consiste invece nel volgersi verso il proprio Creatore e per opera di lui divenire giusto, pio, saggio e sempre felice; egli però non deve acquisire queste qualità e poi allontanarsi da lui come fa uno che, una volta guarito dal medico del corpo, se ne va per conto suo; poiché il medico del corpo presta solo esternamente la sua opera alla natura che opera internamente sotto l'azione di Dio, che è la causa di tutta la salute con la duplice azione della Provvidenza, di cui abbiamo parlato più sopra. L'uomo dunque non deve volgersi a Dio in modo che, una volta reso giusto, se ne allontani, ma in modo da ricevere sempre la giustificazione da lui. Poiché proprio per il fatto che non si allontana da Dio che non cessa di coltivarlo e custodirlo, viene giustificato da lui che gli è presente, viene illuminato e reso felice finché resta ubbidiente e sottomesso ai suoi precetti.

Come Dio lavora l'uomo.

12. 26. L'opera di Dio però non è come quella dell'uomo, il quale - come dicevamo - coltiva la terra perché sia in condizione di produrre ed essere fertile, e dopo aver fatto il proprio lavoro se ne va lasciandola arata o seminata o irrigata o in qualsiasi altro modo preparata; anche se l'agricoltore se ne va, rimane tuttavia l'opera compiuta. Dio invece non fa così: egli coltiva - è vero - l'uomo rendendolo giusto, cioè giustificandolo, ma non in modo che, se egli si allontana, l'opera da lui compiuta rimanga in chi si allontana da lui. Avviene invece piuttosto come avviene nell'aria che non è luminosa per sé ma lo diventa quando è presente la luce poiché, se fosse già luminosa di per sé e non lo diventasse, rimarrebbe luminosa anche quando manca la luce. Così l'uomo viene illuminato da Dio se Dio è presente a lui ma, se Dio è assente, piomba subito nelle tenebre. Da Dio però ci si allontana non a causa di distanze spaziali tra noi e lui, ma a causa dell'avversione della volontà umana che si volge via da lui.

L'uomo diventa buono per mezzo di colui che è immutabilmente buono.

12. 27. È dunque Dio - che è immutabilmente buono - colui che colloca e custodisce l'uomo per renderlo e conservarlo buono. Da lui noi dobbiamo essere continuamente fatti e continuamente resi perfetti, restando uniti a lui e rivolti verso di lui, del quale la Scrittura dice: Bene è per me restare unito a Dio 38, e al quale viene detto: Io conserverò la mia forza rivolto verso di te 39. Noi infatti siamo opera sua non solo perché fossimo esseri umani ma anche perché fossimo buoni. Anche l'Apostolo infatti, parlando ai fedeli convertiti dall'incredulità, mette in risalto la grazia in virtù della quale sono stati salvati e dice: In virtù di questa grazia infatti voi siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi ma è dono di Dio, né viene dalle opere perché nessuno per caso se ne vanti. Noi infatti siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone predisposte da Dio perché noi le compissimo 40. E in un altro passo, dopo aver detto: Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore, per allontanare da essi il pensiero di attribuire a se stesso il merito d'esser divenuti giusti e buoni, subito soggiunge: È Dio infatti che opera in voi 41. Prese dunque Dio l'uomo da lui creato e lo mise nel paradiso per lavorarlo - cioè perché lavorasse in lui - e custodirlo.

Perché all'uomo fu proibito di mangiare il frutto di quell'albero buono?

13. 28. Il Signore Iddio diede poi questo comando ad Adamo, dicendo: D'ogni albero che si trova nel paradiso tu potrai mangiare sicuramente, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrai mangiare poiché il giorno che ne mangerete morrete certamente 42. Se quell'albero, di cui Dio aveva proibito all'uomo di mangiare, fosse stato qualcosa di male, sarebbe potuto sembrare che l'uomo sarebbe rimasto avvelenato a morte proprio dalla natura cattiva di quell'albero. Ma poiché Dio aveva piantato nel paradiso alberi tutti buoni, avendo creato molto buone tutte le cose 43, e non c'era alcuna natura cattiva, poiché in nessuna cosa c'è alcuna natura di male - ma ciò lo esamineremo con più attenzione, se il Signore vorrà, quando parleremo del serpente - all'uomo fu proibito di toccare quell'albero, che non era cattivo, affinché la stessa osservanza del precetto fosse in se stessa un bene per lui e la trasgressione del male.

Il gran bene dell'ubbidienza e il gran male della disubbidienza.

13. 29. Non si sarebbe potuto mostrare meglio e più esattamente qual gran male è la disubbidienza in se stessa, dal momento che l'uomo si rese colpevole di peccato solo per aver toccato, contro il divieto, una cosa che, se l'avesse toccata senza che gli fosse stata proibita, di certo non avrebbe peccato. Poiché se uno, per esempio, dice: "Non toccate quest'erba", se per caso è velenosa, e predice la morte per chi la toccherà, certamente a colui che disprezzerà il divieto toccherà la morte; ma anche se nessuno lo avesse proibito e qualcuno avesse toccato l'erba, sarebbe tuttavia morto certamente. Quell'erba infatti sarebbe stata nociva alla sua salute e alla sua vita, avesse ricevuto o no il divieto di toccarla. Può darsi peraltro che uno vieti di toccare una cosa perché l'azione recherebbe danno non a chi fa l'azione, ma a chi la vieta, come sarebbe il caso di chi mettesse le mani sul denaro altrui contravvenendo al divieto del proprietario del denaro; quell'azione allora sarebbe peccato per chi ne ha ricevuto il divieto, poiché potrebbe risultare dannosa per chi l'ha vietata. Quando, al contrario, si tocca qualcosa senza che l'azione rechi danno né a chi la tocca - qualora non gli fosse proibito - né ad alcun altro in qualunque momento la si toccasse, perché mai è un'azione vietata, se non per mostrare qual male sia la disubbidienza in se stessa?

Il peccato è ribellione alla volontà di Dio.

13. 30. Per conseguenza chi commette un peccato, non brama se non sottrarsi alla sovranità di Dio quando egli commette un'azione ch'è peccaminosa solo in quanto è proibita da Dio. Se a ciò solo si fosse prestata attenzione, a chi si sarebbe prestata attenzione se non alla volontà di Dio? Cos'altro si sarebbe amato, se non la volontà di Dio? Cos'altro si sarebbe preferito alla volontà umana, se non quella di Dio? Lo saprà certo il Signore perché ha dato l'ordine: al servitore tocca solo far ciò che Dio ha ordinato, e solo allora chi ha il merito [dell'ubbidienza] potrà vedere perché Dio ha dato quell'ordine. Tuttavia non dobbiamo indagare più a lungo il motivo di quell'ordine, dal momento che un gran vantaggio per l'uomo è proprio quello di servire Dio. Iddio con il comandare rende vantaggioso tutto ciò che vorrà comandare, poiché non dobbiamo temere che egli possa comandare qualcosa che non sia per il nostro bene.

Dal disprezzo del precetto di Dio l'esperienza del male.

14. 31. È impossibile che la volontà propria dell'uomo non si abbatta su di lui con il peso di una grande sventura, se nella sua superbia la preferisce alla volontà di Colui che gli è superiore. Ecco quel che ha sperimentato l'uomo nel disprezzare il precetto di Dio, e da questa esperienza ha imparato quale differenza c'è tra il bene e il male, ossia tra il bene dell'ubbidienza e il male della disubbidienza, vale a dire della superbia e della ribellione, della perversa imitazione di Dio e della dannosa libertà. Anche se l'albero poté essere l'occasione di questa esperienza, esso prese il nome dall'azione stessa [della disubbidienza], come ho già detto più sopra. Infatti noi non conosceremmo il male se non lo provassimo per esperienza, poiché non esisterebbe, se non lo avessimo commesso. Poiché il male non è una sostanza, ma ciò a cui diamo il nome di "male" è la perdita del bene. Il Bene immutabile è Dio, l'uomo invece relativamente alla sua natura in cui è stato creato da Dio, è sì un bene, ma non il bene immutabile come Dio. Ora un bene mutevole, che è inferiore al Bene immutabile, diventa migliore quando si tiene unito a Dio, il Bene immutabile, amandolo e servendolo con la propria volontà razionale e personale. Ecco perché questa natura è anch'essa un gran bene poiché ha ricevuto la facoltà di unirsi alla natura del sommo Bene. Se però l'uomo lo rifiuterà, priverà se stesso del bene e questo rifiuto è per lui un male, dal quale a causa della giustizia di Dio deriva anche il tormento. Che cosa infatti potrebbe essere più contrario alla giustizia che il benessere di chi ha abbandonato il Bene? È assolutamente impossibile che sia così. Talora però la perdita d'un bene superiore non è percepita come un male quando si possiede un bene inferiore che si ama. La giustizia divina vuole tuttavia che, se uno ha perduto volontariamente un bene che avrebbe dovuto amare, soffra la pena d'aver perduto il bene da lui amato, venendo così ad essere lodato in tutte le cose il Creatore delle nature. È comunque anche un bene che l'uomo senta dolore per il bene da lui perduto poiché, se non rimanesse un qualche bene nella natura, non sentirebbe il castigo che egli ha nel soffrire per il bene perduto.

Duplice maniera di conoscere il bene e il male.

14. 32. Chi ama il bene senza aver fatto esperienza del male, chi cioè, prima di provare [dolore per] la perdita del bene, sceglie di mantenersi il bene per non perderlo, è degno d'essere lodato al di sopra di tutti gli altri uomini. Ma se questa dote non fosse d'un pregio singolare, non sarebbe attribuita al Bambino che, nato dalla stirpe d'Israele, divenuto Emmanuele, cioè "Dio con noi" 44, ci riconciliò con Dio, come Uomo mediatore tra gli uomini e Dio 45, Verbo con Dio, carne con noi 46, Verbo incarnato tra Dio e noi. Di lui infatti il Profeta dice: Prima che il bambino conosca il bene e il male, rigetterà il male per scegliere il bene 47. Ma come fa [il Bimbo] a rigettare o a scegliere ciò che non conosce, se non perché queste due cose sono conosciute in due modi diversi: in un modo per via della sapienza con cui si sceglie il bene, in un altro per via dell'esperienza che si è avuta del male? Il male, anche se non se ne fa l'esperienza, è conosciuto mediante la sapienza di conservare il bene: uno si tiene stretto al bene per evitare di perderlo e sperimentare così il male. Così pure il bene si conosce mediante l'esperienza del male, perché comprende che cosa ha perduto colui che soffre il male per la perdita del bene. Ancor prima dunque che il Bambino conoscesse il bene, di cui fosse rimasto privo, o il male che avrebbe potuto provare per la perdita del bene, rigettò il male per scegliere il bene, non volle cioè perdere quel che aveva, per tema di provare [il dolore per] la perdita di ciò che non avrebbe dovuto perdere. Singolare esempio d'ubbidienza è questo poiché [il Signore] non venne per fare la volontà propria ma quella di Colui dal quale era stato inviato 48, a differenza di colui che preferì di far la propria volontà e non quella del suo Creatore. Giustamente perciò [la Scrittura] dice: Come, per causa della disubbidienza di un solo uomo, molti sono stati fatti peccatori, così anche per l'ubbidienza di un solo Uomo molti sono fatti giusti 49, poiché allo stesso modo che tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo 50.

Perché l'albero della conoscenza del bene e del male fu chiamato così.

15. 33. Senza ragione alcuni scrittori si sono rotti la testa nell'indagare come mai quell'albero potesse chiamarsi "albero della conoscenza del bene e del male" prima che l'uomo trasgredisse il divieto mangiandone il frutto e conoscesse - per averlo sperimentato - la differenza tra il bene perduto e il male compiuto. Ora, l'albero ebbe quel nome affinché [il primo] uomo si astenesse dal toccarlo secondo il divieto ricevuto e così evitasse ciò che avrebbe provato toccandolo contro la proibizione che aveva ricevuta. Quell'albero non divenne l'albero della conoscenza del bene e del male per il fatto che i progenitori ne mangiarono il frutto contro il divieto ricevuto; anche se fossero rimasti ubbidienti e non avessero trasgredito il precetto astenendosi dal prendersi alcun frutto, sarebbe stato chiamato correttamente così a motivo di ciò che sarebbe loro accaduto qualora se ne fosse preso il frutto. Nell'ipotesi che un albero si chiamasse "l'albero della sazietà" per il fatto che gli uomini si sarebbero potuti saziare mangiandone i frutti, forse che, se nessuno vi si fosse accostato, quel nome non gli sarebbe stato appropriato, dal momento che accostandovisi e saziandosi con i suoi frutti avrebbero sperimentato quanto quell'albero meritasse quel nome?

L'uomo avrebbe potuto capire cos'è il male prima di sperimentarlo.

16. 34. "E come mai - dicono essi - l'uomo avrebbe potuto comprendere ciò che gli veniva detto riguardo all'albero della conoscenza del bene e del male, dal momento che non sapeva assolutamente che cosa fosse il male? Coloro che pensano così, non riflettono abbastanza come noi comprendiamo un gran numero di cose a noi ignote per mezzo di quelle contrarie che non conosciamo; tanto è vero che non c'è alcuno che, ascoltando, non comprenda chiaramente anche il significato dei nomi di cose che non esistono, quando si pronunciano nella conversazione. Così, per esempio, si chiama nihil ("niente") ciò che non esiste assolutamente, e tra quelli che capiscono e parlano il latino, non c'è alcuno che non intenda queste due sillabe. Perché mai ciò se non perché l'intelligenza vede "ciò che è" e, mediante la negazione di "ciò che è", si forma anche l'idea di "ciò che non è"? Lo stesso accade quando parliamo di "vuoto": noi, vedendo la pienezza d'un oggetto materiale comprendiamo che cosa si chiama "vuoto", dalla negazione di "pienezza", che è, per così dire, il contrario di essa. Allo stesso modo che, mediante il senso dell'udito, noi giudichiamo solo le voci che sentiamo ma anche il silenzio, così mediante il senso della vita ch'era insito nell'uomo, questo avrebbe potuto evitare il suo contrario, cioè "la mancanza della vita" che si chiama "morte". Anche quanto alla causa per cui avrebbe perso ciò che amava, ossia qualunque sua azione per cui avrebbe potuto perdere la vita, poteva essere indicata con un termine non importa di quante sillabe - come quando in latino si dice peccatum ("peccato") o malum ("male") - che l'uomo avrebbe potuto intendere come segno della realtà che la mente discerneva. Come mai, infatti, noi comprendiamo che cosa sia la "risurrezione" quando sentiamo questa parola, pur non avendo mai sperimentato la risurrezione? Non è forse perché noi comprendiamo che cosa sia "vivere" e chiamiamo "morte" la perdita della vita, e perciò chiamiamo "risurrezione" il ritorno alla vita, di cui abbiamo esperienza? Inoltre qualunque altro termine possa essere usato per denotare la medesima cosa in qualsiasi altra lingua, la mente lo percepisce come segno nella voce di coloro che parlano e, mentre vien pronunciato, si può riconoscere ciò che si poteva pensare anche senza quel segno. È sorprendente infatti come la natura, ancor prima d'averne esperienza, evita la perdita delle cose ch'essa possiede. Chi mai infatti ha insegnato agli animali bruti ad evitare la morte se non il sentimento della vita? Chi mai ha insegnato ad un bimbetto ad aggrapparsi a chi lo porta in braccio se gli si fanno minacce di gettarlo per terra? Questa paura comincia ad un dato momento [della vita] ma tuttavia ancor prima che il bimbo abbia fatto esperienza di qualcosa di simile.

Obiezione: come potevano intendere la parola di Dio i progenitori?

16. 35. Così dunque per i nostri progenitori la vita era completamente piacevole e non volevano certamente perderla, anzi erano in grado di comprendere qualsiasi specie di segni o di parole con cui Dio lo faceva loro capire. Inoltre non sarebbe stato possibile commettere il peccato, se prima non fossero stati persuasi che a causa di quell'azione non sarebbero stati condannati alla morte, cioè che non avrebbero perso il bene che possedevano e ch'erano assai contenti di perdere; ma di ciò parleremo a suo luogo. Se alcuni dunque hanno difficoltà di capire come mai i nostri progenitori potessero comprendere le parole o le minacce di Dio relative a cose da essi non sperimentate, dovrebbero riflettere e riconoscere che noi comprendiamo senza alcun dubbio o esitazione i nomi d'ogni specie di cose estranee alla nostra esperienza soltanto perché conosciamo il correlativo contrario quando si tratta di parole significanti una privazione o perché conosciamo cose simili quando si tratta di cose della medesima natura. Ma forse qualcuno potrebbe essere imbarazzato [non riuscendo a spiegarsi] come mai potessero parlare o capire un linguaggio persone che non l'avevano mai imparato col crescere tra altre persone che lo parlavano né apprendendolo da qualche maestro, come se a Dio fosse difficile insegnare a parlare a quelle persone, dal momento che le aveva create capaci d'imparare una lingua anche dagli uomini, se ne fossero esistiti altri dai quali apprenderla.

La proibizione riguardo all'albero fu data anche alla donna?

17. 36. È senza dubbio ragionevole porre il quesito se Dio diede questo precetto solamente all'uomo o anche alla donna. Ma l'agiografo non aveva ancora narrato come fu creata la donna. Era forse già stata creata? In questa ipotesi l'agiografo narra forse solo in seguito, quando riprende daccapo il racconto, come fu fatto ciò che era stato fatto in precedenza? Ecco infatti come si esprime la Scrittura: Il Signore Iddio diede inoltre un ordine ad Adamo, dicendo; non dice "diede un ordine ad ambedue". Soggiunge poi: D'ogni specie di alberi che si trovano nel paradiso tu potrai mangiare sicuramente 51; non dice: "potrete mangiare". Di poi aggiunge: Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovete mangiare. A questo punto Dio parla al plurale come rivolgendosi ad ambedue e termina l'ordine usando il plurale quando dice: Ma il giorno in cui ne mangerete morrete sicuramente 52. Ma si potrebbe avanzare forse un'altra ipotesi. Che cioè Dio, sapendo di accingersi a fare la donna per l'uomo, diede il precetto osservando l'ordine gerarchico quanto mai appropriato in modo che il precetto del Signore giungesse alla donna tramite l'uomo? È questa la norma che l'Apostolo rispetta nella Chiesa dicendo: Se le donne desiderano imparare qualcosa lo domandino ai loro mariti in casa 53.

In qual modo Dio parlò all'uomo?

18. 37. Possiamo ugualmente chiederci come mai Dio parlò ora all'uomo da lui creato, ch'era certamente già dotato di senso e d'intelligenza perché fosse in grado di udire e di capire la parola di Dio. L'uomo infatti non avrebbe potuto ricevere diversamente un precetto la cui trasgressione lo rendesse colpevole, se non avesse capito il precetto ricevuto. In qual modo parlò dunque all'uomo? Gli parlò forse nell'intimo dell'anima sua, in un modo confacente alla sua intelligenza, in modo cioè che l'uomo capisse con la sua sapienza la volontà e il comando di Dio, senza bisogno d'alcun suono fisico o d'alcuna immagine di realtà fisiche? Ma io non credo che Dio parlasse così al primo uomo, poiché il racconto della Scrittura ha tali caratteristiche da indurci a credere piuttosto che Dio parlò all'uomo come anche in seguito parlò ai Patriarchi, ad Abramo, a Mosè, vale a dire prendendo un aspetto corporeo. Ecco perché i progenitori udirono la voce di Dio che verso sera passeggiava nel paradiso e si nascosero 54.

La duplice opera della Provvidenza.

19. 38. Ci si offre qui una magnifica occasione che non dovremmo trascurare: quella cioè di considerare - per quanto siamo in grado e Dio si degna d'aiutarci e di concederci - la duplice attività della Provvidenza, cui più sopra abbiamo accennato di sfuggita parlando dell'agricoltura, perché fin d'allora l'animo del lettore si abituasse a considerare quell'attività, poiché questa considerazione ci è d'immenso aiuto a non concepire alcuna idea indegna della natura di Dio. Diciamo dunque che l'Essere supremo, il vero, solo e unico Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo - cioè Dio, il suo Verbo e lo Spirito d'ambedue, ossia la Trinità, senza confusione e senza separazione [delle Persone] - Dio che solo possiede l'immortalità e abita in una luce inaccessibile, che nessuno degli uomini ha mai visto né può vedere 55, non è contenuto in alcun luogo finito o infinito dello spazio né è soggetto a mutamento per il volgere finito od infinito dei tempi. Nella sua sostanza, per cui è Dio, non esiste alcuna parte che sia minore dell'intero, come è invece necessariamente il caso delle sostanze situate nello spazio, e neppure c'era, nella sua sostanza, qualcosa che ora non c'è più o vi sarà ciò che ancora non c'è, come accade invece nelle sostanze che possono esser soggette al cambiamento nel tempo.

La creatura corporale, mutevole nel tempo e nello spazio, la spirituale nel tempo, Dio in nessun modo.

20. 39. Dio, dunque, che vive in un'eternità immutabile, ha creato simultaneamente tutte le cose, a partir dalle quali cominciassero a scorrere i secoli, a riempirsi gli spazi, a svolgersi i secoli con il movimento degli esseri soggetti al tempo e situati nello spazio. Di questi esseri alcuni li fece spirituali, altri corporali, formando una materia che non fu creata da altri né era increata, ma da lui solo fu creata formata e formabile, in modo che la sua formazione fosse precedente non rispetto al tempo ma rispetto all'origine. Le creature spirituali Dio le ha poste al di sopra di quelle corporali, poiché quelle spirituali possono cambiare solo nel tempo, quelle corporali invece nel tempo e nello spazio. L'anima, per esempio, cambia nel tempo col ricordarsi di ciò che aveva dimenticato o con l'imparare ciò che non sapeva o col volere ciò che non voleva; il corpo invece si muove nello spazio o dalla terra verso il cielo o dal cielo verso la terra, o da Oriente verso Occidente o con qualunque altro simile movimento. Ora, tutto ciò che si muove attraverso lo spazio non può farlo se non movendosi allo stesso tempo anche attraverso il tempo. Per contro, non tutto ciò che si muove attraverso il tempo deve necessariamente muoversi anche attraverso lo spazio. Come dunque la sostanza che si muove solo attraverso il tempo è superiore a quella che si muove nel tempo e nello spazio, così è superiore ad essa quella che è immobile sia nello spazio che nel tempo. Allo stesso modo quindi che lo spirito creato, che si muove solo nel tempo, muove il corpo attraverso il tempo e lo spazio, così lo Spirito creatore, pur essendo immobile nel tempo e nello spazio, muove lo spirito creato attraverso il tempo; lo spirito creato invece muove se stesso attraverso il tempo e muove il corpo attraverso il tempo e lo spazio, mentre lo Spirito creatore muove se stesso fuori del tempo e dello spazio, muove lo spirito creato nel tempo ma fuori dello spazio, e muove il corpo attraverso il corpo e lo spazio.

In che modo Dio immobile muove le creature si arguisce dall'esempio dell'anima.

21. 40. Se perciò uno si sforza di capire in qual modo Iddio eterno, veramente eterno e veramente immortale e immutabile, che non si muove né attraverso lo spazio né attraverso il tempo, muove le sue creature nel tempo e nello spazio, penso non riesca ad arrivarci qualora non abbia prima capito con l'anima, cioè lo spirito creato, che si muove non attraverso il tempo, muove il corpo attraverso il tempo e lo spazio. Se infatti non è ancora in grado di capire ciò che si attua nell'interno di se stesso, quanto meno sarà capace di capire ciò che è al di sopra di lui!

In che modo l'anima muove le membra del corpo.

21. 41. L'anima infatti, a causa del suo abituale legame con i sensi del corpo, immagina di muoversi anch'essa nello spazio insieme col corpo mentre lo muove attraverso lo spazio. Ma se potesse conoscere con esattezza come sono disposti nelle articolazioni quelli che sono, per così dire, i perni delle membra del corpo sui quali quelle poggiano nel primo impulso dei loro movimenti, scoprirebbe che le membra le quali sono mosse attraverso lo spazio, non vengono mosse che da una parte del corpo che rimane ferma. Così, per esempio, non si muove un sol dito se non a condizione che la mano sulla cui articolazione, come su di un perno immobile, si effettua il movimento, resti ferma. Così l'intera mano, quando si muove, poggia sull'articolazione del gomito, il gomito su quella dell'omero e questo su quella della scapola; mentre i perni, su cui poggiano i vari movimenti, restano immobili, il membro che si muove si sposta attraverso lo spazio. Così l'articolazione della pianta del piede è nel tallone che sta fermo perché essa possa muoversi; quella del femore sta nel ginocchio e quella dell'intera gamba nella coscia. Nessun membro, quand'è mosso dalla volontà, può assolutamente muoversi se non poggiando sul perno di qualche articolazione che viene dapprima immobilizzato dall'ordine della medesima volontà affinché il membro, che non si muove attraverso lo spazio, possa imprimere l'impulso a quello che si muove. Infine neppure un piede nel camminare può alzarsi senza che l'altro immobile non sopporti il peso di tutto il corpo fino a quando il piede in moto non sia portato dal luogo, d'onde si sposta, all'altro dove sta andando, poggiando sul perno fermo della propria articolazione.

Il medesimo argomento.

21. 42. Orbene, la volontà non muove alcun membro [del corpo] attraverso lo spazio se non servendosi dell'articolazione d'un membro ch'essa tiene immobile, sebbene non solo la parte del corpo che vien mossa, ma anche quella che rimane ferma e permette il movimento dell'altra, abbiano le loro dimensioni corporee con cui occupano uno spazio corrispondente alla loro estensione. A maggior ragione quindi resta immobile nello spazio l'anima che ordina il movimento alle membra soggette al suo volere: conforme a questo resta fermo il perno [del membro] su cui possa poggiare quello che dev'essere mosso. L'anima infatti non è una sostanza corporea e non riempie il corpo con l'occupare uno spazio come l'acqua riempie un otre o una spugna; ma essa è misteriosamente unita al corpo, per vivificarlo, con l'impulso incorporeo del suo comando e governa il corpo mediante una - diciamo così - tensione spirituale, non mediante il peso d'una massa corporale. Con tanta maggior ragione dunque la volontà che comanda non muove se stessa attraverso lo spazio, per muovere il corpo nello spazio, dal momento che lo muove tutto per mezzo delle sue parti senza muoverne alcuna nello spazio se non mediante le parti ch'essa tiene immobili.

In qual modo Dio muove le creature, in qual modo l'anima.

22. 43. Anche se è difficile capire quanto ho detto, dobbiamo credere non solo che la creatura spirituale muove il corpo attraverso lo spazio senza muoversi attraverso lo spazio, ma altresì che Dio muove la creatura spirituale attraverso il tempo senza muovere se stesso attraverso il tempo. Qualcuno forse rifiuta di ammettere questa proprietà nell'anima; senza dubbio però - a dire il vero - non solo l'ammetterebbe ma la comprenderebbe anche, se riuscisse a pensarla incorporea com'è in realtà. Chi infatti non capirebbe facilmente che non può muoversi nello spazio ciò che non ha estensione nello spazio? Ora, tutto ciò che è esteso nello spazio è un corpo; per conseguenza non può pensarsi che l'anima si muova attraverso lo spazio se si ammette ch'essa non è un corpo. Ma, come avevo incominciato a dire, se uno rifiuta di ammettere questa proprietà nell'anima, non dev'essere spinto ad ammetterlo con eccessiva insistenza; se al contrario non ammette che la sostanza di Dio non si muove né attraverso il tempo né attraverso lo spazio, non crede ancora che Dio è completamente immutabile.

Sapienza con cui Dio governa il mondo.

23. 44. Ma la natura della Trinità è completamente immutabile e perciò tanto perfettamente eterna che non ci può essere nulla di coeterno ad essa. La Trinità, pur restando intrinsecamente identica in se stessa fuori del tempo e dello spazio, muove nel tempo e nello spazio le creature che le sono soggette. La Trinità crea gli esseri mossa dalla sua bontà e, in virtù del suo potere, ordina la volontà in modo che tra gli esseri non ce ne sia alcuno che non abbia l'essere da essa e tra le volontà non ce ne sia alcuna buona a cui essa non giovi, né alcuna cattiva di cui non possa servirsi per il bene. Ma poiché Dio non ha dato a tutti gli esseri il libero arbitrio, e quelli a cui l'ha dato sono più potenti e più eccellenti, quelli che ne son privi sono necessariamente soggetti a quelli che lo posseggono. Tutto ciò avviene grazie all'ordine stabilito dal Creatore che non punisce mai le volontà perverse fino al punto d'annientare la dignità della loro natura. Poiché dunque tutti i corpi e tutte le anime irrazionali sono privi del libero arbitrio, questi esseri sono soggetti agli esseri dotati del libero arbitrio, anche se non tutti quelli a tutti questi altri, ma conforme a quanto stabilito dalla giustizia del Creatore. La provvidenza di Dio, dunque, guida e governa tutte quante le creature, sia le nature che le volontà; le nature per farle esistere e le volontà perché non siano prive del premio quelle buone e non siano immuni dal castigo quelle cattive: egli anzitutto assoggetta a sé tutte le creature, poi le creature corporali a quelle spirituali, le irrazionali alle razionali, le terrestri alle celesti, le femminili alle maschili, le meno potenti alle più potenti, le più povere alle più ricche. Per quanto poi riguarda le volontà, Dio assoggetta a sé quelle buone, tutte le altre invece le assoggetta a quelle che gli ubbidiscono, di modo che le volontà perverse soffrano ciò che per ordine di Dio faranno le volontà buone, sia che agiscano da se stesse, sia che agiscano per mezzo di volontà cattive; ma ciò accade solo nell'ambito delle cose che per natura sono sotto il dominio anche delle volontà cattive, vale a dire nell'ambito dei corpi. Le volontà cattive infatti hanno il loro castigo interiore, cioè la loro stessa malvagità.

L'azione degli angeli verso le creature.

24. 45. Per conseguenza ogni essere corporeo, ogni vita irrazionale, ogni volontà debole o perversa è soggetta agli angeli del cielo che godono del possesso di Dio stando a lui sottomessi e lo servono nella beatitudine e, negli esseri loro sottomessi o con loro, hanno lo scopo di compiere ciò che da tutti esige l'ordine della natura conforme al comando di Colui al quale sono soggette tutte le cose. Gli angeli pertanto vedono in Dio la verità immutabile e su di essa regolano la loro volontà. In tal modo essi diventano partecipi dell'eternità, della verità e della volontà di Dio, essendo di là dai limiti del tempo e dello spazio. Essi, tuttavia, sono mossi dai comandi di Dio anche nel tempo, sebbene in Dio non esista alcun movimento temporale; così agiscono senza allontanarsi o distrarsi dalla contemplazione di Dio, ma nello stesso tempo non solo contemplano Dio senza limiti di spazio e di tempo, ma eseguono anche i suoi ordini riguardanti le creature loro soggette, movendo se stessi nel tempo e i corpi nel tempo e nello spazio secondo quanto è conveniente alla loro attività. In tal modo Dio, mediante la duplice azione della sua Provvidenza, dirige tutte le creature: le nature perché abbiano l'esistenza, e le volontà perché non facciano nulla senza il suo ordine o il suo permesso.

Come Dio governa le creature corporee.

25. 46. La natura dell'universo materiale è dunque aiutata esteriormente da una forza materiale, poiché fuori di essa non c'è alcun essere materiale, altrimenti non sarebbe più l'universo. Essa invece è aiutata da una forza incorporea poiché è Dio a far sì che la natura esista effettivamente, poiché da lui, per mezzo di lui e in lui sono tutte le cose 56. Per contro le parti del medesimo universo non solo sono intrinsecamente aiutate - o piuttosto dovrei dire fatte - da una forza incorporea perché siano nature sussistenti, ma anche esternamente da una forza corporea con cui possano avere uno sviluppo più vigoroso, per esempio per mezzo degli alimenti, [dei prodotti] dell'agricoltura, della medicina e da tutto ciò che può servire al loro ornamento, in modo che non siano solo sane e più feconde, ma anche più belle.

Come Dio governa le creature spirituali.

25. 47. Quanto poi alle creature spirituali in quanto sono perfette e beate, come lo sono i santi angeli, esse ricevono solo un aiuto interiore e incorporeo per quanto le riguarda, vale a dire per esistere ed essere sagge. Dio infatti parla ad esse interiormente in modo misterioso ed ineffabile, senza servirsi né di scrittura fissata con strumenti materiali né di parole risonanti a orecchi del corpo né per mezzo di sembianze prodotte dall'immaginazione nello spirito, come avviene nei sogni o in qualche rapimento dello spirito, chiamato in greco estasi (), termine ormai usato anche da noi invece di quello latino. Le visioni di questa specie, benché siano più interiori di quelle trasmesse all'anima tramite il messaggio dei sensi fisici, tuttavia sono simili a quelle altre, sicché quando si formano non possono affatto o, al massimo, solo a stento, distinguersi da quelle. Esse inoltre sono più esteriori di quelle che hanno luogo quando l'anima razionale e intellettiva contempla [l'oggetto visto] nella verità immutabile, nella cui luce giudica tutte le cose e perciò, a mio avviso, devono ascriversi tra le visioni prodotte da una causa esterna. Per conseguenza le creature spirituali e intellettuali, perfette e beate come sono gli angeli, per ciò che le riguarda, cioè per poter esistere, esser sapienti e beate, sono aiutate - come ho già detto - solo interiormente dall'eternità, verità e carità del Creatore. Se al contrario si deve dire che esse ricevono un aiuto esteriore, forse lo ricevono solo per il fatto che gli angeli si vedono gli uni gli altri e godono in Dio della società che formano, per il fatto che vedono anche tutte le creature dappertutto nei loro compagni, e per questo ringraziano e lodano il Creatore. Per quanto invece riguarda l'attività delle creature angeliche, con la quale la provvidenza di Dio si prende cura d'ogni genere di creature e specialmente del genere umano, essa apporta loro un aiuto intrinseco sia mediante le visioni che

rappresentano realtà corporali, sia mediante gli stessi corpi che sono soggetti al potere degli angeli.

Dio, rimanendo sempre lo stesso, governa tutte le creature.

26. 48. Stando così le cose, Dio onnipotente e mantenente tutto, che è sempre lo stesso nella sua immutabile eternità, verità e volontà, senza muoversi attraverso il tempo e lo spazio, muove le sue creature spirituali attraverso il tempo e muove anche le creature corporali attraverso il tempo e lo spazio. Per conseguenza, grazie a questo movimento di esseri da lui costituiti, con la sua azione intrinseca, li governa altresì con la sua azione estrinseca, sia mediante le volontà che gli sono soggette e da lui mosse attraverso il tempo, sia mediante i corpi soggetti a lui e a quelle volontà, e da lui mossi attraverso il tempo e lo spazio ma nel tempo e nello spazio, la cui ragione causale è vita in Dio stesso di là dai limiti di tempo e di spazio. Allorché dunque Dio interviene così con la sua azione, non dobbiamo pensare che la sua sostanza, per la quale egli è Dio, sia mutevole attraverso il tempo e lo spazio, ma dobbiamo riconoscere queste cose come opere della divina Provvidenza e non come risultato dell'attività con cui egli crea gli esseri, ma dell'attività con cui governa, mediante il suo intervento estrinseco, gli esseri creati da lui intrinsecamente. Poiché grazie alla sua immutabile e trascendente potenza non limitata per nulla quanto a distanza ed estensione spaziale, egli è allo stesso tempo interiore a tutte le cose, poiché sono tutte in lui, ed esteriore a tutte le cose poiché è al di sopra di ogni cosa. Così pure, senza alcun intervallo o spazio di tempi, a causa della sua eternità, è allo stesso tempo più antico di tutte le cose in quanto è l'Essere più antico di tutte le cose, ed è più nuovo di tutte le cose in quanto è sempre il medesimo dopo tutte le cose.

In qual modo parla Dio.

27. 49. Ecco perché, quando sentiamo la Scrittura che dice: Il Signore Iddio inoltre diede il seguente ordine ad Adamo dicendo: D'ogni albero del paradiso tu potrai mangiare sicuramente, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non dovrai mangiarne, poiché il giorno che ne mangerete, morrete sicuramente 57, se cerchiamo di sapere in che modo Iddio disse queste parole, ci è impossibile capirlo esattamente. Dobbiamo tuttavia ritenere con assoluta certezza che Dio parla in due modi: o mediante la propria sostanza o mediante una creatura a lui soggetta; mediante la propria sostanza parla a tutte le nature dell'universo solo per crearle; al contrario parla alle nature spirituali e intelligenti non solo per crearle ma anche per illuminarle poiché sono già capaci d'intendere la sua parola che è nel suo Verbo, il quale era in principio con Dio e il Verbo era Dio e per mezzo di lui è stata fatta ogni cosa 58. Quando invece Dio parla agli esseri che non sono capaci d'intendere la sua parola, non parla se non mediante una creatura, o solo mediante una creatura spirituale sia in sogno che in estasi per mezzo di sembianze rappresentanti cose corporali o anche una creatura corporale quando ai sensi del corpo appare qualche immagine o si fanno sentire delle voci.

In qual modo Dio parlò ad Adamo.
27. 50. Se dunque Adamo era in grado di poter capire la parola che Dio comunica agli spiriti angelici mediante la propria sostanza, non si può dubitare che Dio movesse lo spirito di Adamo in modo misterioso e ineffabile senza muoversi attraverso il tempo e gli inculcasse un precetto utile e salutare della Verità e nella stessa Verità quale castigo sarebbe dovuto toccare al trasgressore; in tal modo vengono intesi o visti tutti i precetti salutari nell'immutabile Sapienza che in determinati momenti si comunica alle anime 59 sante pur senza muoversi affatto nel tempo. Se invece Adamo era giusto solo nella misura che aveva ancora bisogno dell'autorità di un'altra creatura più santa e più saggia mediante la quale arrivare a conoscere la volontà e il comando di Dio - come noi abbiamo avuto bisogno dei Profeti e questi hanno avuto bisogno degli angeli -, per qual motivo dovremmo dubitare che Dio gli parlasse mediante una creatura di tal genere con un linguaggio che Adamo potesse capire? Quando infatti la Scrittura in seguito narra che i nostri progenitori, dopo aver commesso il peccato, sentirono la voce di Dio che passeggiava nel paradiso, nessuno, che crede alla fede cattolica, dubita affatto che Dio parlò non mediante la propria sostanza ma per mezzo d'una creatura a lui soggetta. Su questo argomento ho voluto discorrere un po' più a lungo perché certi eretici pensano che la sostanza del Figlio di Dio era visibile per se stessa prima che assumesse un corpo e che perciò fu visto dai Patriarchi prima di prendere il corpo dalla Vergine, come se la Scrittura solo di Dio Padre dicesse: che nessuno degli uomini ha visto né può vedere 60. Secondo loro il Figlio fu visto proprio nella sua sostanza, prima di assumere la natura di schiavo 61, dottrina empia questa, che deve essere respinta dalla mente dei cattolici. Se dunque piacerà al Signore, tratteremo più a fondo questo argomento un'altra volta. Per ora, terminato questo libro, si deve sperare [di poter spiegare] nel libro seguente la continuazione del racconto biblico, in che modo cioè la donna fu creata venendo tratta da una costola del proprio marito.