[Capitolo I] Il nome
1. (Nomi che terminano per vocale). Tutti i nomi terminano per tredici lettere : cinque vocali, a, e, i, o, u; sei semivocali, l, m, n, r, s, x e due mute, c, t. Terminano con la vocale a al genere maschile i nomi latini come Seneca, Catilina, Silla, Iuba, Cinna, Pansa; quelli greci come Sosia, Paseta; quelli africani come Iugurtha, Micipsa; al genere femminile, i nomi come femina, musa, tabula, regula, norma, forma e simili. Quelli al genere neutro sono soltanto greci, come thema, schema e simili; uno solo è latino, il nome del fiume Turia, come dice Sallustio (flumen Turia 1). Sono di genere comune: advena, convena, indigena, Troiugena e simili; di genere promiscuo vipera, aquila, musca, locusta, ulula, che noi chiamiamo noctua, e simili.
Abbiamo detto della lettera a; passiamo ora a dire della e. Nessun nome latino termina con la vocale e al maschile, a meno che non vi sia congiunta una preposizione, come nel caso di proconsule e propraetore. Congiunta dunque una preposizione, i nomi, come ho detto, divengono latini: proconsule, propraetore, proquaestore; infatti, gli antichi al nominativo dicevano proconsul, intendendo che nessun nome latino esce in e al nominativo maschile. Ma, neppure al nominativo femminile ci sono nomi latini, ma soltanto nomi greci, come: Andromache, Niobe, Libye, Hecabe, Calliope, Euterpe, che al genitivo escono in es, come Andromaches, Niobes, Libyes, Hecabes, Calliopes, Euterpes. Ma tali questioni le trattiamo alla maniera dei Greci. Al neutro terminano con la e, come monile, sedile, cubile e altri dei quali faremo menzione tra poco, in riferimento alla regola del genere neutro. Di genere comune non c'è nessun nome, così come non ce n'è nessuno di genere promiscuo.
Ora, relativamente alla lettera i, vediamo in quali generi essa compaia al nominativo. Nel genere maschile e in quello femminile non c'è nessun nome che termina con la i; nel neutro invece c'è gummi, ed è indeclinabile; nel genere comune nessuno, mentre nel genere omne ci sono quelli come frugi, nihili, i quali si declinano come segue: hic vir frugi, haec femina frugi, hoc mancipium frugi. Frugi esce allo stesso modo al genitivo: huius viri frugi, huius feminae frugi, huius mancipii frugi; come pure diciamo frugi per tutti i casi. Analogamente si declina nihili: hic nihili vir, haec nihili mulier, hoc nihili mancipium. Con lo stesso suono si declinano tutti i casi; così al plurale: viri nihili, feminae nihili, mancipia nihili. Neppure nel genere promiscuo ci sono nomi che terminano con la i. Con la lettera o termina il nominativo del nome comune maschile, come ligo, ligonis; quello del nome proprio, come Cato, Cicero, Maro, Nero, Tubero e simili; quello del nome comune femminile, come vertigo, indago, farrago, siligo (in Giovenale, infatti, si legge così: Sed qui conductis inducitur atque fovetur / tot medicaminibus, coctaeque siliginis offas / accipit et madidae, facies dicetur an ulcus? 2), sartago, virago, lanugo, aurugo, aerugo, crepido (in Giovenale: Nulla crepido vacat, nusquam pons et tegetis pars 3) e simili; quello dei nomi propri femminili, come Carthago, di certo essi sono stranieri, come Dido, Ino, Io, Alecto, Celeno, Clio, Manto, e al genitivo escono in us, come Didus, Inus, Ius, Alectus, Celenus, Clius, Mantus. Ma questa questione la trattiamo alla maniera dei Greci. Dei nomi di genere neutro nessuno al nominativo esce in o; di quelli di genere comune vi escono quelli come: fullo, latro, caupo, ecc.; quelli di genere promiscuo: struthio, hirundo, hirudo, curculio, bufo e simili. Con la vocale u termina soltanto il neutro che al plurale si declina, mentre al singolare non si declina, come cornu, veru, genu, tonitru. Con questo suono si enunciano tutti i casi al singolare; al plurale, invece, come abbiamo detto, questi nomi si declinano e cioè: al nominativo, cornua, verua, genua; al genitivo, horum cornuum, veruum, genuum. Gli altri li declinerai secondo questa regola: versuum e fluctuum.
2. (Nomi che terminano con semivocali). Abbiamo detto delle cinque vocali con le quali termina il nominativo; ora diciamo delle semivocali. Il nominativo che termina con la lettera l, nei nomi comuni maschili esce così: hic sal; in quelli propri così: Sol. Tra quelli femminili ce n'è uno solo ed è un nome di matrona, Tanaquil; tra quelli neutri ci sono mel e fel; tra quelli comuni: vigil, pugil, (per questo appunto Terenzio, a proposito di una vergine dice: Pugilem esse aiunt 4); tra i promiscui non c'è nessun nome. Con il nominativo che termina in m, tra i nomi maschili non ce n'è nessuno latino; tra quelli femminili ci sono Glycerium, Phanium, Dorcium, Philocomasium; tra quelli neutri invece templum, telum, tectum, ed altri i cui plurali non presentano difficoltà. Tra i nomi comuni non ce n'è nessuno che termina in m, così come tra quelli promiscui.
Ora trattiamo della semivocale n. Tra i maschili terminano al nominativo in n: flamen, pecten, lien, cioè splen; tra i femminili: siren, plurale sirenes; tra i nomi neutri: carmen, germen, gramen e altri simili, che tratteremo in seguito nella regola del genere neutro. Tra i nomi comuni hanno il nominativo che termina in n: tibicen, tubicen, fidicen, cornicen, liticen [colui che suona la lituis]; tra i promiscui: oscen [cioè l'uccello che emette i presagi], attagen.
Ora trattiamo della semivocale r. Tra i maschili terminano al nominativo in r i nomi come Caesar, iubar, Arar, Nar, victor, tutor, sopor, maeror, ed altri che non presentano particolari difficoltà tanto tra quelli comuni, quanto tra quelli propri; tra i femminili: arbor, soror; tra quelli neutri: marmor, aequor e altri; tra i comuni: pauper, acer, alacer, memor, auctor; tra i promiscui: passer, accipiter, anser.
Ora trattiamo della semivocale s. Tra i nomi maschili terminano con la lettera s: iustus, doctus, pius; tra i femminili: dos, sors, mors e simili; tra i neutri: vulnus, pectus, pecus e gli altri che tra poco tratteremo regolarmente; tra i comuni: sacerdos, impos, compos, similis, nobilis, agilis; tra quelli di genere omne i nomi come nugas, ecc., dei quli però tratteremo tra poco più diffusamente; tra i promiscui: tigris, mus, lepus, ecc.
Ora trattiamo della semivocale x. Tra i nomi maschili escono in x al nominativo: vertex, cortex, pumex; tra quelli propri: Pollux; tra quelli femminili: nex, prex, fex, pax, fax e altri; tra i neutri nessun nome, a meno che non si unisca a quelli di genere omne, come felix.
3. (Nomi che terminano con le lettere mute). Restano le due lettere mute: c e t. Il nominativo che termina in c si ha nei nomi al maschile, come allec, e in quelli al neutro come lac. Il nominativo che termina in t si ha nei nomi al neutro, come caput, sinciput, semicaput.
4. (Terminazione e declinazione dei nomi di genere neutro). I nomi di genere neutro che escono in um si declinano come templum, che si declina: hoc templum, huius templi, huic templo, hoc templum, o templum, ab hoc templo, haec templa, horum templorum, his templis, haec templa, o templa, ab his templis. Si declinano in modo analogo anche tutti questi, cioè telum, tectum, scamnum, bellum, monstrum, portentum, oppidum, carpentum, venenum, damnum, bonum, malum, magnum, pessimum, parvum, frumentum, medicamentum, membrum, forum, metrum, porrum, tignum, plaustrum, claustrum, instrumentum, olivetum, vinetum, palmetum, quercetum, esculetum, lauretum, argumentum, sacrum, testamentum, iugerum, vinum, ma soltanto al singolare (vina infatti lo dissero i poeti e, più raramente, Cicerone 5); così oleum, hordeum, triticum, ferrum, viscum, aurum, argentum, plumbum, stagnum, vitrum, electrum, e simili che hanno a che fare con il peso o la misura.
Sono della stessa forma del genere neutro quelli che escono in ium; questi però al genitivo si scrivono con due ii, come hoc ingenium, huius ingenii, e così pure imperium imperii, scrinium scrinii, capitolium capitolii, tentorium tentorii, armarium armarii [solarium solarii, armentarium armentarii (luogo in cui si custodisce il bestiame)], spatium spatii, sacrarium sacrarii [luogo dove si ripongono le cose sacre]; così horarium horarii, solarium solarii, tectorium tectorii [tentorium tentorii, cioè tenda dei soldati], viridarium viridarii, pomerium pomerii [luogo dietro le mura], sacrificium sacrificii, folium folii, solium solii, testimonium testimonii; così rosarium rosarii, aviarium aviarii [luogo o sede degli uccelli], augurium augurii, auspicium auspicii, exilium exilii, exsilium exsilii, prodigium prodigii, auxilium auxilii, praesidium praesidii, atrium atrii, aucupium aucupii, adiutorium adiutorii, mancipium mancipii, dolium dolii.
C'è anche un'altra forma del neutro che esce per us, come hoc pecus, huius pecoris, huic pecori, hoc pecus, o pecus, ab hoc pecore, haec pecora, horum pecorum, his pecoribus, haec pecora, o pecora, ab his pecoribus. Li declineremo secondo questa formula: ulcus ulcera, facinus facinora, vellus vellera, viscus viscera, rus rura, ius iura, nemus nemora, tergus tergora, pectus pectora, genus genera, pondus pondera, corpus corpora, decus decora, funus funera, fenus fenera, olus olera, litus litora, opus opera, rudus rudera, tus tura, tempus tempora, foedus foedera, stercus stercora, onus onera, latus latera. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in ur, come hoc murmur, huius murmoris, huic murmori, hoc murmur, o murmur, ab hoc murmore, haec murmora, horum murmorum, his murmoribus, haec murmora, o murmora, ab his murmoribus. Declinerai secondo questa formula nomi simili, come ebur ebora, femur femora, sulfur sulfora, fulgur fulgora. Secondo questa formula tuttavia non se ne trovano molti; così come sono pochi i nomi di genere neutro che escono in or, come marmor, huius marmoris, huic marmori, hoc marmor, o marmor, ab hoc marmore; così aequor aequora, cor corda. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in ar, come far, huius farris, huic farri, hoc far, o far, ab hoc farre. Tale forma al plurale ha tre casi soltanto: il nominativo, haec farra, l'accusativo, che è simile, haec farra e il vocativo, o farra; dunque non ha il genitivo, il dativo e l'ablativo. Per questo al plurale tali verbi sono detti triptota, cioè di tre casi, come lo è iura: non diciamo però né horum iurum, né his iuribus, né aerum aeribus, né mellorum mellibus e pochi altri; infatti non sono molti.
Declinerai dunque questa forma soltanto al singolare: nectar nectaris, lasar lasaris e instar, che indica una somiglianza [ma hanno tre casi: il nominativo, l'accusativo e il vocativo], e sono di numero soltanto singolare. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in er, ma di numero soltanto singolare, come piper, huius piperis, huic piperi, hoc piper, o piper, ab hoc pipere. In questa forma declinerai ver, ma soltanto al singolare: hoc ver, huius veris, huic veri, hoc ver, o ver, ab hoc vere. Così declinerai anche siler, genere d'arbusto, come dice Virgilio (ut molle siler 6). Allo stesso modo declinerai anche iuger, che ha però il plurale (iuger iugera), conformemente a quanto dicevano gli antichi (horum iugerum), nonché uber ubera, tuber tubera. Ma, come ho detto, i nomi di tal genere sono pochi.
Un'altra forma esce per os, come os ora, e quindi osculum ma, mentre nel primo è breve, nel secondo invece è lunga, e da questo deriva ossa; perciò si declina così: hoc os, huius ossis, huic ossi, hoc os, o os, ab hoc osse, haec ossa, horum ossuum, his ossibus, haec ossa, o ossa, ab his ossibus. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in e, come monile, che è un ornamento costituito di gemme: hoc monile, huius monilis, huic monili, hoc monile, o monile, ab hoc monili, haec monilia, horum monilium, his monilibus, haec monilia, o monilia, ab his monilibus. Allo stesso modo declinerai sedile sedilia, praesepe praesepia, torale toralia, ducale ducalia, molle mollia, grave gravia, vile vilia, mite mitia, suave suavia, vitale vitalia, morale moralia, lene lenia, leve levia, ancile ancilia (che è un genere di scudo, del quale Virgilio dice: Laevaque ancile gerebat 7), facile facilia, nobile nobilia, agile agilia, mare maria; ma questa forma al plurale ha solamente tre casi: il nominativo, l'accusativo e il vocativo, mentre non ha né genitivo, né dativo, né ablativo; infatti, non diciamo al genitivo horum marium o al dativo his maribus o all'ablativo ab his maribus.
Declinerai in questo modo anche altri nomi simili. Secondo questa regola l'ablativo esce in i, e non in e, perché il genere neutro non ha mai quattro casi simili così da fare al nominativo hoc monile all'accusativo hoc monile, al vocativo o monile, e all'ablativo ab hoc monile, ma in quest'ultimo caso fa ab hoc monili, ab hoc cubili (di qui Virgilio: Instrato saxa cubili 8); e così: sacra mari colitur 9, così pure: hortatur pater ire mari 10, e parimenti: tenui de vimine 11, e similmente: crudeli vulnere 12, e ancora: lethali vulnere 13, nonché: dulci ex ore recuset 14, e quando diciamo " nobili genere natus ", non nobile. Pertanto, farai attenzione al nome neutro che termina al nominativo singolare in e, in modo che all'ablativo esca in i secondo la regola generale. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in al, come animal, hoc animal, huius animalis, huic animali, hoc animal, o animal, ab hoc animali, haec animalia, horum animalium, his animalibus, haec animalia, o animalia, ab his animalibus. Declinerai secondo questa forma tribunal tribunalia, lupercal lupercalia, che sono le cose sacre al famoso dio chiamato Pan (a proposito dello stesso luogo Virgilio dice: et gelida monstrat sub rupe Lupercal 15). C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in el, come mel: hoc mel, huius mellis, huic melli, hoc mel, o mel, ab hoc melle. Così declinerai anche: fel, hoc fel, huius fellis, huic felli, hoc fel, o fel, ab hoc felle. Ma al plurale tale forma ricorre in tre casi: al nominativo, all'accusativo e al vocativo. C'è un'altra forma del genere neutro che contiene i nomi che escono in en: hoc crimen, huius criminis, huic crimini, hoc crimen, o crimen, ab hoc crimine, haec crimina, horum criminum, his criminibus, haec crimina, o crimina, ab his criminibus.
Secondo questa regola declinerai i nomi simili, e cioè: carmen carminis, numen numinis, flamen flaminis, agmen agminis, acumen acuminis, gramen graminis, flumen fluminis, stamen staminis, lumen luminis, semen seminis, liquamen liquaminis, fulmen fulminis, rumen ruminis, bitumen bituminis, gluten glutinis, legumen leguminis, fundamen fundaminis, tegimen tegiminis, munimen muniminis, levamen levaminis, specimen speciminis. Questa forma però non ammette il plurale; allo stesso modo si comporta subtegumen subteguminis. Un'altra forma del genere neutro è quella aptota, cioè indeclinabile, come: genu, hoc genu, huius genu, huic genu, hoc genu, o genu, ab hoc genu, haec genua, horum genuum, his genibus, haec genua, o genua, ab his genibus. Declinerai secondo questa forma anche, come abbiamo detto sopra, cornu cornua, veru verua (che sono aste di ferro dei macellai, a proposito delle quali Virgilio scrive: veribusque trementia figunt 16), tonitru tonitrua. Ma la declinazione di tali nomi si trova di rado. C'è un'altra forma del genere neutro, della quale abbiamo trattato sopra, che in quattro nomi esce nelle due mute c e t, come caput, sinciput, e lac, allec; ma queste due non ammettono il plurale. Parimenti si comporta il neutro che termina in a, ma questo avviene soltanto nei nomi greci, come thema themata, toreuma toreumata, schema schemata, emblema emblemata, theorema theoremata, boethema boethemata e simili.
Ricordiamo anche che le singole lettere sono di genere neutro tanto in greco quanto in latino; diciamo infatti unum alfa, unum beta, unum gamma, e questo vale anche per le altre lettere: al plurale, diciamo infatti duo alfa, duo beta, duo gamma e similmente tria alfa, tria beta, tria gamma. Di qui derivano, τρίά κάππα κάκιστα, cioè le tre pessime c, ovvero Cornelio Silla, Cornelio Cinna e Cornelio Lentulo; costoro infatti sono designati con tre lettere nei libri Sibillini. C'è anche un nome di genere neutro in a, il fiume Turia, come abbiamo detto sopra.
5. (Terminazione e declinazione dei nomi di genere comune). Il genere comune esce per a, come in advena che si declina: hic e haec advena, huius advenae, huic advenae, hunc e hanc advenam, o advena, ab hoc e ab hac advena, hi e hae advenae, horum e harum advenarum, his advenis, hos e has advenas, o advenae, ab his advenis. Declinerai secondo questa formula Troiugena, indigena, incola, agricola, convena, caelicola, sacricola, publicola, terricola, urbicola, plebicola, Numida, Dalmata, ruricola, lucifuga, Persa, Romulida, ecc. Il genere comune non ha e ed i, cioè non esce né in e né in i al nominativo, ma in o, come in latro: hic e haec latro, huius latronis, huic latroni, hunc e hanc latronem, o latro, ab hoc e ab hac latrone, hi e hae latrones, horum e harum latronum, his latronibus, hos e has latrones, o latrones, ab his latronibus. Declinerai secondo questa formula: homo, ganeo, degulo, caupo, fullo, nemo, helluo, glutto, e simili. Invece non ha nessun nome che al nominativo esca in u. Il genere comune poi termina per es, come in comes: hic e haec comes, huius comitis, huic comiti, hunc e hanc comitem, o comes, ab hoc e ab hac comite, hi e hae comites, horum e harum comitum, his comitibus, hos e has comites, o comites, ab his comitibus. Si declinano secondo questa formula: sospes, locuples, hospes (sebbene Virgilio dica hospitam: hospita tellus 17), miles veles [cioè soldato con armatura leggera], interpres, ales, praepes, praes [cioè fideiussore], satelles, deses, praeses, dives, Caeres, caeles [gli dei celesti che compiono da sé un viaggio in cielo], indiges, indigetis ecc.
Termina con is, come in similis, hic e haec similis, huius similis, huic simili, hunc e hanc similem, o similis, ab hoc e ab hac similis, hi e hae similes, horum e harum similium, his similibus, hos e has similes, o similes, ab his similibus. Si declinano secondo questa forma: agilis, facilis, fragilis, viridis, nobilis, mobilis, dulcis, humilis, mitis, lenis, levis, mollis, civis, testis, hostis, tristis, fortis, suavis, frugalis, crudelis, inanis, gracilis, immanis, ecc. Termina per os come in sacerdos, hic e haec sacerdos, huius sacerdotis, huic sacerdoti, hunc e hanc sacerdotem, o sacerdos, ab hoc e ab hac sacerdote, hi e hae sacerdotes, horum e harum sacerdotum, his sacerdotibus, hos e has sacerdotes, o sacerdotes, ab his sacerdotibus. Si declinano secondo questa forma: custos, inpos, conpos, nepos. Termina con us, come in sus: hic e haec sus, huius suis, huic sui, hunc e hanc suem, o sus, ab hoc e ab hac sue, hi e hae sues, horum e harum suum, his subus, hos e has sues, o sues, ab his subus. Termina con er, come in pauper: hic e haec pauper, huius pauperis, huic pauperi, hunc e hanc pauperem, o pauper, ab hoc e ab hac paupere, hi e hae pauperes, horum e harum pauperum, his pauperibus, hos e has pauperes, o pauperes, ab his pauperibus. Si declinano secondo questa forma: acer, alacer [cioè laetus].
Il genere comune termina in ex, come in opifex: hic e haec opifex, huius opificis, huic opifici, hunc e hanc opificem, o opifex, ab hoc e ab hac opifice, hi e hae opifices, horum e harum opificum, his opificibus, hos e has opifices, o opifices, ab his opificibus. Declinerai secondo questa forma: aurifex, artifex, iudex, carnifex, index, vindex, auspex, haruspex, signifex ed altri. Termina in eps, come in princeps, che si declina così: hic e haec princeps, huius principis, huic principi, hunc e hanc principem, o princeps, ab hoc e ab hac principe, hi e hae principes, horum e harum principum, his principibus, hos e has principes, o principes, his principibus. E così si declinano manceps, particeps, municeps. Al contrario i sei nomi anceps, biceps, triceps, quadriceps, multiceps, praeceps al genitivo singolare prendono, contro la regola precedente, la terminazione tis e non pis: anceps ancipitis, biceps bicipitis, triceps tricipitis, quadriceps quadricipitis, multiceps multicipitis, praeceps praecipitis. Escono perciò in tis e non in pis come principis, mancipis, perché prendono il significato da capitis, mentre quelli precedenti da capiendi.
Si dice infatti princeps, perché prende (capiat) per primo e manceps perché prende con la mano; invece si dice anceps perché ha due estremità o perché ha la testa inclinata da entrambe le parti. Il genere comune esce anche per iux, come in coniux: hic e haec coniux. Esce pure per ux, come in hic e haec dux, redux. Esce per ops, cosa che ritornerà anche nel genere omne. Esce per ebs, come in caelebs [caelebs è detto chi non ha moglie, o chi non ha marito: tali sono gli dei del cielo, che sono privi di coniuge, se riteniamo attendibili i poeti], hic e haec caelebs, huius caelibis, huic caelibi, hunc e hanc caelibem, o caelebs, ab hoc e ab hac caelibe, hi e hae caelibes, horum e harum caelibum, his caelibibus, hos e has caelibes, o caelibes, ab his caelibibus. Esce per yx, come in Phryx, hic e haec Phryx, huius Phrygis, huic Phrygi, hunc e hanc Phrygem, o Phryx, ab hoc e ab hac Phryge, hi e hae Phryges, horum e harum Phrygum, his Phrygibus, hos e has Phryges, o Phryges, ab his Phrygibus. Esce per us, come in Ligus [così come Phryx, è un nome di luogo]: hic e haec Ligus, huius Liguris, huic Liguri, hunc e hanc Ligurem, o Ligus, ab hoc e ab hac Ligure, hi e hae Ligures, horum e harum Ligurum, his Liguribus, hos e has Ligures, o Ligures, ab his Liguribus. Il genere comune esce anche per il, come in vigil: hic e haec vigil, huius vigilis, huic vigili, hunc e hanc vigilem, o vigil, ab hoc e ab hac vigile, hi e hae vigiles, horum e harum vigilum, his vigilibus, hos e has vigiles, o vigiles, ab his vigilibus. Secondo questa regola declinerai hic e haec pugil. Esce anche per ul, come in exsul: hic e haec exsul, huius exsulis, huic exsuli, hunc e hanc exsulem, o exsul, ab hoc e ab hac exsule, hi e hae exsules, horum e harum exsulum, his exsulibus, hos e has exsules, o exsules, ab his exsulibus. Secondo questa forma declinerai praesul: hic e haec praesul [che è di modo maschile, come consul]. Esce per ur, come in fur: huius furis, huic furi, hunc e hanc furem, o fur, ab hoc e ab hac fure, hi e hae fures, horum e harum furum, his furibus, hos e has fures, o fures, ab his furibus. Secondo questa forma declinerai augur: hic e haec augur.
Il genere comune esce per or, come in maior, memor. Ma memor, se tale è la regola, non ammette il genere neutro in us, mentre maior ammette al neutro maius: hic e haec memor, huius memoris, huic memori, hunc e hanc memorem, o memor, ab hoc e ab hac memori, hi e hae memores, horum e harum memorum, his memoribus, hos e has memores, o memores, ab his memoribus. Ammette anche il neutro, ma non secondo la regola del genere omne, cioè come hoc memor: di qui anche Virgilio: Tum si quod non aequo foedere amantis / Curae numen habet, iustumque memorque precatur 18. Ma non ammette il plurale: per questo non è del genere omne; non diciamo infatti memora o memoria, numina. Similmente declinerai auctor: hic e haec auctor (come dice Giunone: Auctor ego audendi 19), hi e hae auctores.
6. (Terminazione e declinazione dei nomi di genere omne). Lo stesso si dica per il genere omne: esce per ax, ex, ix, ox, ux, ans, ens, ons, ar, ers, ors, us, es, am. Per ax: hic e haec e hoc pertinax, huius pertinacis, huic pertinaci, hunc e hanc pertinacem e hoc pertinax, o pertinax, ab hoc e ab hac e ab hoc pertinaci, hi e hae pertinaces e haec pertinacia, horum e harum e horum pertinacium, his pertinacibus, hos e has pertinaces e haec pertinacia, o pertinaces e o pertinacia, ab his pertinacibus. Secondo questa forma saranno declinati: efficax, tenax, pervicax, dicax, sequax, rapax, mordax, capax, furax, emax, fallax, mendax, nugax, vivax. Tutti questi hanno l'ablativo singolare in i. Parimenti il genere omne esce in ex, secondo le regole sopra elencate, come in simplex: hic e haec e hoc simplex, huius simplicis, huic simplici, hunc e hanc simplicem e hoc simplex, o simplex, ab hoc e ab hac e ab hoc simplici, hi e hae simplices e haec simplicia, horum e harum e horum simplicium, his simplicibus, hos e has simplices e haec simplicia, o simplices e o simplicia, ab his simplicibus. Secondo questa forma si declinano: duplex, triplex, quadruplex, quinquiplex, sexuplex; septuplex è escluso, perché in latino si dice septimplex che si declina come sopra.
Esce secondo la regola in ix, come in felix, che si declina: hic e haec e hoc felix, huius felicis, huic felici, hunc e hanc felicem, e hoc felix, o felix, ab hoc e ab hac e ab hoc felici (di accento neutro; tra i nomi propri esce in e ab hoc Felice, ed è di genere maschile), hi e hae felices e haec felicia, horum e harum e horum felicium, his felicibus, hos e has felices e haec felicia, o felices e o felicia, ab his felicibus. Secondo questa regola si declina pernix, che significa veloce. Quindi, secondo la regola in ox, come ferox si declina: hic e haec e hoc ferox, huius ferocis, huic feroci, hunc e hanc ferocem e hoc ferox, o ferox, ab hoc e ab hac e ab hoc feroce (dal suono di genere maschile e femminile), hi e hae feroces e haec ferocia, horum e harum e horum ferocium, his ferocibus, hos e has feroces e haec ferocia, o feroces e o ferocia, ab his ferocibus. Secondo questa forma atrox, velox. Tra quelli in ux un nome solo, trux, che si declina: hic e haec e hoc trux, huius trucis, huic truci, hunc e hanc trucem e hoc trux, o trux, ab hoc e ab hac e ab hoc truci (dal suono neutro), hi e hae truces e haec trucia, horum e harum e horum trucium (dal suono neutro), his trucibus, hos e has truces e haec trucia, o truces e o trucia, ab his trucibus.
Esce secondo la regola in ans, come praestans: hic e haec e hoc praestans, huius praestantis, huic praestanti, hunc e hanc praestantem, e hoc praestans, o praestans, ab hoc e ab hac e ab hoc praestanti (dal suono neutro), hi e hae praestantes e haec praestantia, horum e harum e horum praestantium (dal suono neutro), his praestantibus, hos e has praestantes e haec praestantia, o praestantes e o praestantia, ab his praestantibus. Secondo questa forma si declinano: amans, clamans, cantans, luctans, constans, prostans, regnans, pugnans, mirans, minans, miserans, aestuans, versans ed altri. Secondo la regola in ens, come amens: hic e haec e hoc amens, huius amentis, huic amenti, hunc e hanc amentem e hoc amens, o amens, ab hoc e ab hac e ab hoc amenti (similmente dal suono neutro), hi e hae amentes e haec amentia, horum e harum e horum amentium (dal suono neutro), his amentibus, hos e has amentes e haec amentia, o amentes e o amentia, ab his amentibus. Secondo questa forma si declinano: demens, potens, impotens, praepotens, prudens, imprudens, pudens, impudens, frequens, infrequens, sedens, haerens, moriens, merens, tenens, egens, ferens, cedens, saeviens, serviens, sapiens, insipiens, decipiens e simili. Secondo la regola in ons, come in sons: hic e haec sons, huius sontis, huic sonti, hunc e hanc sontem e hoc sons, o sons, ab hoc e ab hac e ab hoc sonti (dal suono neutro), hi e hae sontes e haec sontia, horum e harum e horum sontium (dal suono neutro), his sontibus, hos e has sontes e haec sontia, o sontes e o sontia, ab his sontibus. Secondo questa regola si declina insons [cioè innocens]. Solo questi due sono di genere omne. Secondo la regola in ar, come in par: hic e haec e hoc par, huius paris, huic pari, hunc e hanc parem, e hoc par, o par, ab hoc e ab hac e ab hoc pari (dal suono neutro), hi e hae pares e haec paria, horum e harum e horum parium, his paribus, hos e has pares e haec paria, o pares e o paria, ab his paribus. Secondo questa forma si declinano impar e suppar. Solo questi tre sono di genere omne.
Secondo la regola in ers, come in iners: hic e haec e hoc iners, huius inertis, huic inerti, hunc e hanc inertem e hoc iners, o iners, ab hoc e ab hac e ab hoc inerti, hi e hae inertes e haec inertia, horum e harum e horum inertium, his inertibus, hos e has inertes e haec inertia, o inertes e o inertia, ab his inertibus. Secondo la regola in ors, come in vecors: hic e haec e hoc vecors, huius vecordis, huic vecordi, hunc e hanc vecordem e hoc vecors, o vecors, ab hoc e ab hac e ab hoc vecordi (dal suono neutro), hi e hae vecordes e haec vecordia, horum e harum e horum vecordium, his vecordibus, hos e has vecordes, e haec vecordia, o vecordes e o vecordia, ab his vecordibus. Secondo questa regola si declinano: excors, concors, discors, consors, dissors. Ma questi due, cioè consors e dissors, escono al genitivo singolare con la sillaba tis, ossia consortis, dissortis. Inoltre, dissors si dice dissimilis sortis. Secondo la regola in us, come vetus: hic e haec e hoc vetus, huius veteris, huic veteri, hunc e hanc veterem e hoc vetus, o vetus, ab hoc e ab hac e ab hoc veteri (dal suono neutro), hi e hae eteres e haec vetera, horum e harum e horum veterum, his veteribus, hos e has veteres e haec vetera, o veteres e o vetera, ab his veteribus. Solo questo nome è di genere omne. Secondo la regola in es, come in teres [che significa rotondum] che si declina: hic e haec e hoc teres [teres è detto da terendo]. Secondo la regola in am, come in nequam, che è aptoton; infatti si declina con un solo suono per ogni caso e per ogni genere.
7. (Nomi di genere promiscuo). Il genere promiscuo. Il genere promiscuo è quello in cui, sotto un solo articolo, sono compresi entrambi i sessi, come avviene, ad esempio, in hic passer che, sotto lo stesso articolo che suona hic, è anche femminile e si declina così: hic passer, huius passeris, huic passeri, hunc passerem, o passer, ab hoc passere, hi passeres, horum passerum, his passeribus, hos passeres, o passeres, ab his passeribus. Questo vale anche per haec aquila: sotto il solo articolo haec, intendiamo anche il maschile. E così pure per haec tigris con cui s'intende anche il maschile. Non diversamente per haec hirundo, dove intendi anche il maschio; per hic struthio, dove intendi anche la femmina, e per sorix, stelio, musca. Dunque, c'è questa differenza tra il genere comune e quello promiscuo [di qui anche le altre, poiché sono di genere comune sia homines che pecora, mentre di genere promiscuo soltanto pecora]: che nel genere comune ci sono entrambi gli articoli, cioè hic ed haec, come in hic e haec canis, mentre in quello promiscuo c'è un solo articolo che comunica tanto il maschio quanto la femmina, come quando dico hic passer: sotto lo stesso articolo che suona hic, si intende anche la femmina. Così anche nel nome di genere neutro, come hoc pecus: sotto l'articolo che suona hoc, si intende anche la femmina, come dice Virgilio: Lenta salix feto pecori 20. E benché in pecore sia di genere neutro, vi percepiamo anche il genere femminile, quando dice feto pecori, cioè gravido.
8. (Nomi che hanno solo il singolare o solo il plurale). Ora si deve dire dei nomi che sono o solo di numero singolare o solo di numero plurale. Al maschile sono soltanto plurali: cancelli, manes, penates; al femminile sono soltanto plurali: thermae, exsequiae, insidiae, divitiae, nundinae, kalendae; come pure tra i nomi di città: Amyclae, Thenae, Athenae, Syracusae, Thebae, Tubunae 21, Saldae, Abiturae 22, Macomades, Cales, Carrae, Asirae, Lares, Furnitum, che sono detti loca tunos, ed altri simili. Al neutro sono soltanto singolari: aurum, argentum, plumbum, stagnum, piper, triticum, oleum, vinum, anche se Virgilio, per licenza poetica, concede il plurale a vinum (vina) e più raramente Cicerone lo concede ad hordeum, come in Serite hordea campis 23. Al neutro sono soltanto plurali: castra, moenia, arma, exta [cioè viscera], Bactra [che è una città della Partia]: anche questa città di genere neutro è soltanto di numero plurale.
Di certo ci sono nomi sotto una duplice enunciazione, come tribunus militum, praefectus urbis, praefectus fundis, praefectus annonae, praefectus vigilibus, plebis scitum, senatus consultum: dei quali una parte si declina e un'altra non si declina, come ad esempio praefectus vigilibus, il cui nominativo stesso si declina secondo i casi: praefectus, praefecti, praefecto, praefectum, praefecte, a praefecto, mentre vigilibus resta indeclinato; come senatus consultum, in cui consultum si declina così: hoc consultum, huius consulti, huic consulto, hoc consultum, o consultum, ab hoc consulto, mentre senatus è genitivo e non si declina.
Del nome abbiamo esposto più ampiamente di quanto in generale si conveniva: ora si deve parlare del pronome, che è la seconda delle otto parti del discorso.
[Capitolo II] Il pronome
1. (Il pronome). Si dice pronome perché fa le veci del nome, come ille, iste, ipse. Infatti, come dicendo il nome rendiamo esplicita la persona, per esempio Virgilio, così, quando diciamo hic fecit, iste fecit, tacendo il nome, i pronomi hanno quasi la medesima facoltà. I pronomi sono o definiti o indefiniti, oppure meno che definiti. Sono definiti quelli che designano una certa persona, come ego; indefiniti quelli come quis, quisque, quicumque, quaecumque, qui, aliqui, quae, aliquae; meno che definiti, infine, quelli che non definiscono una persona in modo da non aver bisogno di chi la indica, come quando diciamo: ego. Lo stesso tu, infatti, non è pienamente definito, a meno che tu non abbia rivolto il dito verso una persona. Questi pronomi, dunque, devono dirsi meno che definiti, nel senso che designano, ma non significano in modo compiuto, come ego. Immagina, ad esempio, che ci sia una folla: il "tu" che si dice ad uno che è all'interno della folla non sarebbe altrettanto chiaro dell'"io" che dice uno che ne è fuori. E, appunto, per significare tra molti uno che cerchiamo, o aggiungiamo il nome, oppure lo indichiamo col dito, affinché appaia certo a chi ci rivolgiamo. Dunque tu, ille, iste, ed altri pronomi che possono identificare una persona da qualche parte, devono essere chiamati meno che definiti.
2. (Declinazione dei pronomi di I, II e III persona). Quando diciamo nos, la prima persona non ha il caso vocativo né al singolare né al plurale, perché nessuno si rivolge a se stesso con o ego, o nos. Dunque ego si declina in questo modo: ego, mei, mihi, me, a me, nos, nostrum, nobis, nos, a nobis. Infatti, come ho detto, non ha il vocativo né al singolare né al plurale. Quella che segue è la declinazione della seconda persona: tu, tui, tibi, te, o tu, a te, vos, vestrum vobis, vos, o vos, a vobis. Senza dubbio la prima e la seconda persona, cioè ego e tu, sono di genere omne; infatti dicono ego sia l'uomo che la donna, come pure lo schiavo. Così vale anche per tu: sia all'uomo, alla donna che allo schiavo diciamo tu; così è pure per il plurale del genere, come nos, vos. Così si declina il genere maschile alla terza persona: ille, illius, illi, illum, o ille, ab illo, illi, illorum, illis, illos, o illi, ab illis; così il genere femminile: illa, illius, illi, illam, o illa, ab illa, illae, illarum, illis, illas, o illae, ab illis; così il genere neutro: illud, illius, illi, illud, o illud, ab illo, illa, illorum, illis, illa, o illa, ab illis.
Declinerai iste e, similmente, ipse secondo la forma precedente, tanto relativamente al genere quanto al numero. Di certo, riguardo a questo pronome c'è da chiedersi perché, quando diciamo istud e illud al genere neutro, diciamo ipsum, come dice Virgilio (Atque ipsum corpus amici 24), e non ipsud. Ma questa questione si risolve così: gli antichi infatti al nominativo singolare dicevano ipsus piuttosto che ipse. Così, attenendosi a questa regola degli antichi, i grammatici hanno conferito a questo pronome la stessa forma del nome, di modo che, quando per un nome diciamo iustus, iusta, iustum e perfectus, perfecta, perfectum, allo stesso modo enunciamo anche questo pronome: ipsus, ipsa, ipsum, e non ipsud. Lo stesso vale per istud e illud.
3. (La declinazione degli indefiniti). Dell'indefinito si deve dire: al maschile, qui, cuius, cui, quem, o qui, a quo, qui, quorum, quis vel quibus (secondo Virgilio: quis ante ora patrum 25), quos, o qui, a quibus; al femminile, quae, cuius, cui, quam, o quae, a qua, quae, quarum, quis, quas, o quae, a quibus; al neutro, quod, cuius, cui, quod, o quod, a quo, quae, quorum, quis (ma ormai secondo l'uso diciamo quibus), quae, o quae, a quibus. Gli antichi dicevano che quis è di genere comune e si declina così: hic e haec quis, huius quis, huic qui, hunc e hanc quem, o quis, ab hoc e ab hac qui. Da qui viene l'ablativo che esce in bus; a quis invece è l'ablativo plurale che viene dall'ablativo che esce in o, allo stesso modo in cui, nella regola dei nomi, quando l'ablativo esce in o, al dativo plurale esce in is, come da a iusto iustis, da a docto doctis, da a perfecto perfectis, da a fortunato fortunatis.
Come ho detto sopra, dunque, gli antichi dicevano hic e haec quis e, pertanto, come per i nomi si dice hic e haec similis, hic e haec agilis, hic e haec facilis, così per i pronomi si dice hic e haec quis, ab hoc e ab hac qui. Per questo, parlando della compagna di Camilla, Virgilio dice: Quicum partiri curas 26, cioè cum qua partiri curas. Parimenti, ci sono altri indefiniti come uter, che si declina: uter, utrius, utri, utrum, o uter, ab utro, utri, utrorum, utris, utros, o utri, ab utris. Di qui, aggiunta nella composizione la sillaba que, si ottiene uterque, che significa "entrambi", che è tuttavia di suono singolare, ma di significato duale. Infatti, quando Virgilio dice constitit in digitos extemplo arrectus uterque 27, sono due ad essere significati, poiché dice uterque; quando invece dice arrectus, non intende tener conto della pluralità, dal momento che al plurale è utrique. E questo è importante perché uterque può significare due e soltanto due: utrique invece significa due, ma in modo che nel singolo vi siano i molti: se dico infatti utrique exercitus, significo due, ma in modo che nei singoli voglio che si intenda la massa. In verità: due significati sono distinti, ma sono di nuovo confusi dall'autorità. Quando Virgilio, infatti, dice super utraque quassat tempora 28, fa confusione e, poiché parlava di due tempi soltanto per i quali era sufficiente utrumque tempus, in modo da dire super utrumque quassat tempus, egli avrebbe dovuto dire piuttosto super utrumque tempus. Pertanto, declineremo il pronome femminile, così come abbiamo declinato il pronome maschile: utra mulier, utrius mulieris, utri mulieri, utram mulierem, o utra mulier, ab utra muliere, utrae mulieres, utrarum mulierum, utris mulieribus, utras mulieres, o utrae mulieres, ab utris mulieribus; così al neutro: utrum mancipium, utrius mancipii, utri mancipio, utrum mancipium, o utrum mancipium, ab utro mancipio, utra mancipia, utrorum mancipiorum, utris mancipiis, utra mancipia, o utra mancipia, ab utris mancipiis.
Decliniamo così il suo contrario, cioè neuter: al maschile neuter, al femminile neutra, al neutro hoc neutrum mancipium. Di qui è invalso ormai l'uso di dire generis neutri, quando invece dovremmo dire generis neutrius, e lo stesso per utrius. Aggiunta la sillaba que, siffatto pronome si declina secondo la regola detta sopra: al maschile uterque, al femminile utraque, al neutro utrumque; così al plurale: al maschile utrique, al femminile utraeque, al neutro utraque mancipia. C'è anche un altro pronome: ullus, ullius, ulli, ullum, o ullus, ab ullo, ulli, ullorum, ullis, ullos, o ulli, ab ullis; al femminile, ulla, ullius, ulli, ullam, o ulla, ab ulla, ullae, ullarum, ullis, ullas, o ullae, ab ullis; al neutro, ullum, ullius, ulli, ullum, o ullum, ab ullo, ulla, ullorum, ullis, ulla, o ulla, ab ullis. Secondo questa forma declinerai anche nullus, nulla, nullum, come alius, huius alius, huic alii, come pure alter, huius alterius, huic alteri; allo stesso modo totus, huius totius, huic toti, così solus, huius solius, huic soli, come pure unus, huius unius, huic uni (dice Virgilio: huic uni forsan potui succumbere culpae 29).
4. (Pronomi di qualità). Ci sono anche i pronomi di qualità, i quali al genere comune escono così: hic e haec qualis, huius qualis; al neutro, invece: hoc quale, huius qualis, haec qualia, horum qualium. Ci sono anche i pronomi di quantità, come quantus, tantum, quanti, tanti, che si declinano come iustus iusti; al femminile, quanta, tanta, che si declinano come iusta; al neutro, quantum, tantum, che si declinano come iustum. Allo stesso modo si declinano: al maschile, quotus, totus; al femminile, quota, tota; al neutro, quotum, totum; al plurale: al maschile, quoti, toti, al femminile, quotae, totae, al neutro, quota iugera, quotorum iugerorum. Ci sono i pronomi relativi che si riferiscono a chi domanda, come quis est?, cui si risponde is est; questi si declinano: al maschile, is, eius, ei, eum, o is, ab eo, ei, eorum, eis, eos, o ei, ab eis; al femminile, ea, eius, ei, eam, o ea, ab ea; al neutro, id, eius, ei, id, o id, ab eo. Dunque, a proposito del viaggio (de itinere) si deve dire per id iter e non per eum iter, perché eum all'accusativo è di genere maschile, e al plurale si deve dire ea itinera, eorum itinerum, eis itineribus, ea itinera, o ea itinera, ab eis itineribus. Lo stesso si dica per id templum, per id monstrum, per id tectum, per id caput, ma non per eum, se non al genere maschile soltanto.
[Capitolo III] Il verbo
1. (Il verbo). Il termine verba lo impieghiamo in quattro modi: nel primo, ce ne serviamo come parole per significare fallacie, come quando diciamo verba illi dedit, cioè "lo ingannò" (per questo anche Terenzio dice cui verba dare difficile est 30); nel secondo, come parole per significare un discorso, come quando diciamo: verba fecisse Ciceronem in curia; nel terzo, come parole per significare sentenze comuni, che sono dette proverbi, come afferma Terenzio (verum illud verbum vulgo est quod dici solet 31); nel quarto, invece, ne facciamo dei verbi che esponiamo con i tempi e le persone, come clamo, clamas, clamat. Qui le persone sono tre, clamo ego, clamas tu, clamat ille, e il tempo è presente. Poi al plurale: clamamus nos, clamatis vos, clamant illi; al tempo passato imperfetto: clamabam ego, clamabas tu, clamabat ille clamabamus nos, clamabatis vos, clamabant illi; al tempo passato perfetto, clamavi ego, clamasti tu, clamavit ille, clamavimus nos, clamastis vos, clamaverunt illi; al tempo passato piucheperfetto, con cui intendiamo qualcosa che non solo abbiamo portato a termine, ma anche da lungo tempo, ed infatti diciamo: clamaveram ego, clamaveras tu, clamaverat ille, clamaveramus nos, clamaveratis vos, clamaverant illi; al tempo futuro: clamabo ego, clamabis tu, clamabit ille, clamabimus nos, clamabitis vos, clamabunt illi. Fin qui sul modo indicativo; infatti, tutto quello che abbiamo detto ha una funzione soltanto indicativa. Parliamo ora del modo imperativo, che invece si dice tale perché ha la forma del comando ma, poiché nessuno comanda a se stesso, questo modo non ha la prima persona, mentre si dice alla seconda e alla terza persona. Al singolare: alla seconda persona, clama; alla terza, clamet; al plurale: alla seconda persona, clamate; alla terza, clament; al tempo futuro: alla seconda persona, clamato, alla terza, similmente calmato. C'è una ragione per cui esce allo stesso modo alla seconda e alla terza persona; ma, per no distoglierci dall'argomento in questione, lasciamolo per il momento in sospeso e torniamo al plurale, che esce alla seconda persona, clamatote; alla terza, clamanto.
Trattiamo ora del modo ottativo; lo chiamiamo così, perché con esso si esprimono desideri; al tempo presente: alla prima persona, utinam clamarem; alla seconda, utinam clamares; alla terza, utinam clamaret; al plurale: alla prima persona, utinam clamaremus; alla seconda, utinam clamaretis; alla terza, utinam clamarent; al tempo passato: alla prima persona, utinam clamassem ego; alla seconda, utinam clamasses tu; alla terza, utinam clamasset ille; al plurale: utinam clamassemus nos, utinam clamassetis vos, utinam clamassent illi; al tempo futuro: utinam clamem ego, utinam clames tu, utinam clamet ille, utinam clamemus, clametis, clament.
Ora parliamo del modo congiuntivo, che invece si dice così perchè necessita di qualche cosa per rendere compiuta la sua affermazione, come, per esempio, cum clamem, clames, clamet, il cui senso è incompleto e richiede qualche cosa perché la proposizione sia completa, come se dicessi cum clamem, quare me tacere dicis? Proprio perché gli viene congiunto qualcosa per rendere l'enunciato completo, questo modo è detto congiuntivo. Decliniamo, dunque, questo modo come i precedenti, considerando che esso si declina secondo tre persone: la prima persona del presente, cum clamem; la seconda, cum clames; la terza, cum clamet; al plurale: la prima persona, cum clamemus; la seconda, cum clametis; la terza, cum clament; al passato imperfetto: la prima persona, cum clamarem; la seconda, cum clamares, la terza, cum clamaret; al plurale: la prima persona, cum clamaremus, la seconda, cum clamaretis; la terza, cum clamarent; al tempo passato perfetto: cum clamaverim, clamaveris, clamaverit, clamaverimus, clamaveritis, clamaverint; al tempo passato piuccheperfetto: cum clamassem, clamasses, clamasset, clamassemus, clamassetis, clamassent; al tempo futuro: cum clamavero, clamaveris, clamaverit, clamaverimus, clamaveritis, clamaverint.
Parliamo ora del modo infinito, che è detto tale perché, mentre i precendenti definiscono le persone, la prima, la seconda e la terza, questo invece non ha persone e ha soltanto il tempo determinato, presente, passato e futuro, come, per esempio, clamare è presente, clamasse è passato e clamatum ire è futuro. Ecco, vedi che sono designati solo i tempi e non le persone; infatti, in clamare, clamasse e clamatum ire è ignota la persona, a meno che tu non voglia aggiungere qualcosa e dire clamare debet ille, e allora, per così dire, diventa un modo definito. Se invece non aggiungi ille o ipse o iste, come ho detto, diventa un modo indefinito: infatti, è indefinito sia al singolare sia al plurale. Quando infatti dico clamare, clamasse, non è definito se dico di uno soltanto o di due. Questi pertanto sono i modi secondo i quali ricorrono tutti i verbi.
2. (La prima coniugazione). Esponiamo ora tutti gli altri verbi secondo la forma di uno soltanto. Come clamo clamas clamat, così amo amas amat, canto cantas cantat, pulso pulsas pulsat, freno frenas frenat, armo armas armat, inpugno inpugnas inpugnat, capto captas captat, paro paras parat, separo separas separat, accuso accusas accusat, mando mandas mandat, gravo gravas gravat, lavo lavas lavat, genero generas generat, creo creas creat, ligo ligas ligat, alligo alligas alligat, sacrifico sacrificas sacrificat, cito citas citat, vulnero vulneras vulnerat, macero maceras macerat, lacero laceras lacerat, aro aras arat, calco calcas calcat, memoro memoras memorat, calcio calcias calciat, lanio lanias laniat, investigo investigas investigat, vallo vallas vallat, domo domas domat, circumvallo circumvallas circumvallat, curvo curvas curvat, medico medicas medicat, consulto consultas consultat, intimo intimas intimat, insinuo insinuas insinuat, frequento frequentas frequentat, celebro celebras celebrat, ministro ministras ministrat, palpo palpas palpat, socio socias sociat, muto mutas mutat, postulo postulas postulat, quasso quassas quassat, denso densas densat, enervo enervas enervat, eviscero evisceras eviscerat, verbero verberas verberat, macto mactas mactat, fugo fugas fugat, elimino eliminas eliminat, celo celas celat, signo signas signat, sono sonas sonat, ventilo ventilas ventilat, contristo contristas contristat, sereno serenas serenat, e simili. Se a tutti questi si aggiunge la lettera r, diventano passivi: amor amaris amatur, pulsor pulsaris pulsatur, secor secaris secatur, curor curaris curatur. Analogamente procedi per i modi di cui abbiamo detto in precedenza, per l'indicativo, l'imperativo, l'ottativo, il congiuntivo e l'infinito.
Di certo, per il suono secondo cui abbiamo ordinato i verbi attivi, ossia quelli con i quali significhiamo che facciamo qualcosa, ce ne sono di simili, ma appartengono ai verbi neutrali. Perché però non ti colpisca che sono detti neutrali, sappi che lo sono perché non fanno né subiscono alcunché, come è il caso di sto, iaceo, cubo, sedeo. Questi non ricorrono in nessuna attività e in nessuna passività. Ci sono altri verbi che sono detti impropriamente neutrali: sono quelli che compiono azioni e non ne subiscono nessuna [come certo, che esprime un'attività, ma non diciamo certor], come curro.
In base al suddetto suono sono molti i verbi che, pur uscendo in o, non ammettono or, come i seguenti: pugno pugnas pugnat, bello bellas bellat, ceno cenas cenat, nato natas natat, ambulo ambulas ambulat, navigo navigas navigat, commeo commeas commeat, aestuo aestuas aestuat, regno regnas regnat, gelo gelas gelat, dico dicas dicat, exulo exulas exulat, sacrifico sacrificas sacrificat, cachinno cachinnas cachinnat. Tutti questi sono della prima coniugazione e sono verbi che escono alla seconda persona in as, come canto cantas, pulso pulsas, freno frenas, impugno impugnas, armo armas, salto saltas, curvo curvas, pugno pugnas. E questa, di cui hai sentito parlare, è la prima coniugazione; devi sapere perciò che la seconda persona del verbo esce per as. È detta infatti coniugazione perché riunisce in se stessa molti verbi secondo un unico suono [queste coniugazioni dai Greci sono chiamate συξυγίας]. Esponi così, secondo questa regola, tutti i verbi simili che troverai.
3. (La seconda coniugazione). La seconda coniugazione è quella che si ottiene allo stesso modo nella seconda persona, ed esce in es, come teneo tenes, praebeo praebes, moneo mones, deleo deles, tergeo terges, arceo arces, egeo eges, terreo terres, mulceo mulces, impleo imples, compleo comples, repleo reples, suppleo supples, mordeo mordes, spondeo spondes, e simili. Aggiungendo a questi la lettera r, diventano passivi: teneor teneris, mordeor morderis, arceor arceris, mulceor mulceris, impleor impleris. Li declinerai secondo i modi, i tempi e le persone. Secondo i modi, come ho detto, all'indicativo, all'imperativo [futuro], all'ottativo, al congiuntivo, all'infinito: questo è ciò che ho detto relativamente ai modi. Secondo i tempi invece li declinerai, al presente, al passato o al futuro e, quanto alle persone, alla prima, alla seconda e alla terza, come teneor teneris tenetur e, al plurale, tenemur tenemini tenentur.
Come ho detto, tu osserverai queste regole. Ma, come ho detto sopra, allo stesso modo in cui nella prima coniugazione che esce in as (come amo amas) sono inclusi anche i verbi neutrali (come certo certas, nato natas nei quali non è ammessa la lettera r: non diciamo infatti: certor, nator), così nella seconda coniugazione, la quale esce in eo es (come moneo mones, doceo doces), ce ne sono molti che non ammettono la r alla prima persona, come algeo alges, scateo scates: algeor infatti non è latino, come pure ferveo ferves, torpeo torpes, pendeo pendes, invideo invides, sebbene il poeta Orazio dica, anche in questo caso con un abuso, invideor 32; allo stesso modo emineo emines, anche a proposito del quale infatti non diciamo emineor. Queste due coniugazioni, la prima e la seconda, che abbiamo detto che escono in as e in es, come amo amas, moneo mones, escono al tempo futuro sempre in bo, come amabo, monebo.
4. (La terza e la quarta coniugazione). Rimarrai fedele a questa regola circa il tempo futuro dovunque questo uscirà con la sillaba bo, poiché ci sono altre due coniugazioni che al futuro escono in am e non in bo, le quali sono chiamate la terza abbreviata e la terza allungata. La terza abbreviata è quella che esce al modo imperativo con la e abbreviata come scribe, tolle, carpe, occide, sere, lege. Hai visto dunque che l'imperativo esce così. Essa è tale in quanto esce sempre al tempo futuro in am e mai in bo, come scribam, legam, tollam, carpam; se dicessi scribebo, legebo, tollebo, carpebo, infatti, non sarebbe latino. Anche la terza coniugazione allungata si ricava dal modo imperativo; infatti, quando quest'ultimo esce in i, allora si ha la terza coniugazione allungata, come audi, nutri, senti, muni, sarci, leni, ed altri. Parimenti, questi verbi escono in am anche al futuro: muniam, leniam, nutriam, audiam. Ma la terza abbreviata al modo infinito ha la e abbreviata prima dell'ultima sillaba, come scribere, legere, tollere, carpere; la terza coniugazione allungata, invece, al modo infinito ha la i prima dell'ultima sillaba, una i si allunga: munire, lenire, audire, sarcire, sentire, venire. Quindi in tutti i verbi vengono rispettate queste coniugazioni, le quali escono in as e in es, e al futuro in bo, come ho detto assai spesso. Quelle invece che escono in is, al futuro escono in am e mai in bo, se non per una temeraria autorità: infatti, la disciplina lo proibisce. Ma per noi rientrano nella terza coniugazione abbreviata alcuni verbi dai quali tu ne farai seguire altri ancora. Questi sono: lego, tollo, erigo, carpo, cognosco, capio, fugio, mergo, sero, arguo, accipio, pono, sumo, ascendo, expono, incipio. Se questi prendono la lettera r, diventano verbi passivi: legor, carpor, capior, ecc. Sotto questa forma sono neutrali quelli che non prendono la lettera r, come cado (non diciamo, infatti, cador), come pure modo ruo (né diciamo ruor), facio (né diciamo facior), e così fulgesco, mitesco, fervesco, algesco, torpesco, compesco, nigresco. Tutti questi non hanno la lettera r e sono detti neutrali (incoativi quelli che escono in sco). Ricordati dunque che i neutrali non ammettono mai la r.
5. (Il verbo comune). Rimangono altri due generi di verbi, che si dicono comuni e deponenti. Sono detti comuni perché comunemente contengono sotto un solo suono l'attivo e il passivo, allo stesso modo in cui, relativamente ai nomi, è detto genere comune quello che contiene sotto un unico suono tanto il maschile quanto il femminile, come sacerdos o homo, che si declinano hic e haec sacerdos, hic e haec homo. Così questi verbi sono detti comuni; inoltre, per essere latini bisogna che non perdono mai la lettera r, come osculor: se, infatti, togli la lettera r e dici osculo, non è latino. Quando compiamo un'azione, diciamo osculor te, mentre, quando la subiamo da parte di un altro, diciamo osculor a te; così diciamo criminor te e non crimino, quando significhiamo un'azione, cioè quando rimproveriamo qualcuno di un crimine; quando invece ci si rimprovera di un crimine, diciamo criminor a te, cioè sento da te crimen e ha significato passivo. Anche questi verbi si declinano, come i precedenti, secondo i modi, i tempi e le persone; al tempo presente: criminor, criminaris, criminatur, criminamur, criminamini, criminantur; al passato imperfetto: criminabar, criminabaris, criminabatur, criminabamur, criminabamini, criminabantur; al passato perfetto: criminatus sum, es, est, criminati sumus, estis, sunt; al passato piucheperfetto: criminatus eram, eras, erat, criminati eramus, eratis, erant; al futuro: criminabor, criminaberis, criminabitur, criminabimur, criminabimini, criminabantur. L'imperativo, invece, in questi verbi esce sempre in re, di modo che tu dici criminare illum, cioè crimen illi ingere. All'ottativo, così: utinam criminarer, criminareris, criminaretur, criminaremur, criminaremini, criminarentur; al passato perfetto: utinam criminatus essem, esses, esset, criminati essemus, essetis, essent; al futuro: utinam criminer, crimineris, criminetur, criminemur, criminemini, criminentur.
Al congiuntivo: cum criminer, crimineris, criminetur, criminemur, criminemini, criminentur; al passato imperfetto: cum criminarer, criminareris, criminaretur, criminaremur, criminaremini, criminarentur; al passato perfetto: cum criminatus sim, sis, sit, criminati simus, sitis, sint; al passato piucheperfetto: cum criminatus essem, esses, esset, criminati essemus, essetis, essent; al futuro: cum criminatus ero, eris, erit, cum criminati erimus, eritis, erunt. Il modo infinito, che abbiamo detto che non significa nessuna persona, fa al presente criminari, al passato, criminatum esse, al futuro, criminatum iri. Secondo questa forma declinerai i verbi comuni così: hortor, iaculor, osculor, nidificor, tutor, consolor, scrutor, moror, feneror, amplexor, furor, da cui: furor furaris furatur, comitor, recordor, reminiscor, perconctor, minor, gestor, piscor, odoror, aucupor, venor, contemplor, speculor, sector, veneror, dignor, precor, miseror, vador [cioè fidem dico], calumnior, ed altri che non perdono mai la lettera r, perché, se la perdessero non sarebbero latini. Chi, infatti, dirà reminisco o recordo o preco o digno o secto? Ricordati dunque di enunciare questi verbi sempre con la lettera r.
6. (Il verbo deponente). Resta il verbo deponente, che è detto così perché perde qualcosa della quantità del verbo comune. Infatti, mentre il verbo comune ha quattro participi: il presente, criminans, il futuro, criminaturus, il passato criminatus, il futuro passivo, criminandus, il verbo deponente non li ha. Pertanto è detto deponente perché omette il participio del tempo futuro passivo, che esce in dus. Ad esempio, sono verbi deponenti opinor o minor; passando al participio, al presente minor fa minans, al futuro minaturus, al passato minatus. Al futuro passivo non fa minandus; allo stesso modo fa opinans, opinaturus, opinatus, ma non fa opinandus; oppure, se tu dici moriens, moriturus, mortuus, non dirai moriendus, perché non è latino. Dunque, anche il verbo deponente si coniuga secondo i modi, i tempi e le persone.
Come abbiamo detto sopra, come il verbo comune è latino se non perde la lettera r e invece non è latino se la perde, così anche i deponenti non sono latini quando perdono la lettera r. Pertanto, ora propongo pochi verbi deponenti, gli altri li insegnerà l'uso latino; essi sono: opinor, minor, grator, gratulor, arbitror, gratificor, auspicor, misereor, lenocinor, meditor, luctor, conor, suffragor, vescor, laetor, morior, stomachor, orior, hariolor, argutor, paciscor, complector, adversor, angor, queror (nel significato di querelae), macior, ratiocinor, argumentor, blandior, fabulor, nitor, labor (nel significato di lapsus), vagor, rusticor, concionor [cioè ad populum loquor], moechor, iucundor, vociferor, nanciscor [cioè invenio], suspicor, ed altri. Ricordati, come ho già detto, di enunciare questi verbi con la lettera r, perché nessuno dice blandio o pacisco. Così tutti questi verbi si coniugano secondo la forma secondo cui si coniuga il verbo comune, cioè alla maniera di criminor.
7. (I verbi neutro-passivi e impersonali). Abbiamo trattato finora dei verbi attivi, che si dicono tali dal fatto che implicano un agire; dei neutrali, che prendono tale nome dal fatto che non implicano né un fare né un subire alcunché, come sto, iaceo, sedeo, cubo, ed altri. Abbiamo trattato anche di altri neutrali, cioè di quelli che implicano un fare, ma non un subire e che, per questo, sono chiamati semineutrali, come nato, curro, oppure che implicano un subire e non un agire, come vapulo, pendeo, sudo, algeo, aestuo, ferveo, febrio, somnio, meridio, rigeo, frigeo, tumeo, langueo, oleo, tepeo, rubeo, fulgeo, stupeo, ed altri. In tutti questi, come in quelli che in nessun modo implicano un fare o un subire alcunché, come pure in quelli che implicano un fare e non un subire e in quelli che implicano un subire e non un agire, non si aggiunge mai la lettera r, altrimenti comincerebbero a non essere latini. Ugualmente, abbiamo trattato dei verbi comuni abbiamo esposto che si dicono tali perché implicano tanto l'attività quanto la passività.
Abbiamo trattato dei deponenti e abbiamo esposto che si dicono tali perché omettono il participio del tempo futuro dal significato passivo che esce in dus (infatti non diciamo moriendus, gloriandus, blandiendus, ed altri che provengono dai verbi deponenti). È senz'altro vero che gli autori hanno aggiunto un'altra specie di verbi, che chiamarono neutro-passiva, ma questo nuovo genere è stato inventato per eufonia e comprende pochi verbi, come gaudeo. E poiché era sgradevole dire al tempo passato gavisi, essi cambiarono il suono del tempo passato del verbo passivo: così da gaudeo gavisus sum, come da audeo ausus sum, da soleo solitus sum, da fido fisus sum. Ma sono pochissimi i verbi di questo nuovo genere.
Ci sono anche altri pochi verbi che si dicono impersonali e che escono con le sillabe e e tur, come pudet, taedet, decet, libet, poenitet, paret, piget, miseret, liquet. Sono quindi detti impersonali perché sono privi di due persone, della prima e della seconda, e hanno soltanto la terza; infatti, non diciamo né pudeo pudes né deceo deces né libeo libes né pigeo piges né misereo miseres né poeniteo poenites né pareo pares né liqueo liques. Sappi poi che paret e liquet significano la stessa cosa di manifestum est; così, se dici "et si paret hoc te dixisse, iniuriam fecisti, liquet" significa anche questo, cioè manifestum est. Taedet significa invece taedium esse, così come piget ha a che fare, per così dire, con pigritiam. Infatti, quando diciamo piget me fecisse, questo equivale a dire non surgit meus animus probare quod feci. Tutti questi verbi poi si coniugano così: pudet me, piget me, miseret me, poenitet me. Oltre a questi, ci sono anche libet e licet, paret e liquet: ad essi facciamo seguire il caso dativo, come libet mihi, licet mihi, paret mihi, liquet mihi.
Ma c'è un'altra specie che esce in tur e anche questa è propria dei verbi impersonali, come: itur, curritur, certatur, pugnatur. Questi non hanno né la prima né la seconda persona; infatti, non si dice né eor iris né curror curreris né pugnor pugnaris né certor certaris. Questi verbi si coniugano così: itur a me, a te, ab illo; pugnatur a me, a te, ab illo; certatur a me, a te, ab illo; così al passato imperfetto: ibatur a me, a te, ab illo; currebatur a me, a te, ab illo; pugnabatur a me, a te, ab illo; così al passato perfetto: itum est a me, a te, ab illo; cursum est a me, a te, ab illo; certatum est a me, a te, ab illo; pugnatum est a me, a te, ab illo; così al passato piucheperfetto: itum erat a me, a te, ab illo; cursum erat a me, a te, ab illo; pugnatum erat a me, a te, ab illo; certatum erat a me, a te, ab illo; così al futuro: ibitur a me, a te, ab illo; curretur a me, a te, ab illo; pugnabitur a me, a te, ab illo; certabitur a me, a te, ab illo; così al plurale: a nobis, a vobis, ab illis. All'imperativo: eatur a me, a te, ab illo; a nobis, a vobis, ab illis. All'ottativo: al presente, utinam iretur a me, a te, ab illo; a nobis, a vobis, ab illis; al passato perfetto o piuccheperfetto, utinam itum esset a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al futuro, utinam eatur a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis ab illis. Al congiuntivo: al presente, cum curratur a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al passato imperfetto, cum curreretur a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al passato perfetto, cum cursum sit a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al passato piuccheperfetto, cum cursum esset vel fuisset a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al futuro, cum curretur a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis. All'infinito: al presente, curri debet a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al passato, cursum esse debuit a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis; al futuro, cursum iri debet a me, a te, ab illo, a nobis, a vobis, ab illis.
8. (I verbi incoativi, frequentativi e desiderativi). Ci sono anche altri verbi, che si dicono incoativi, e che nascono da un'affezione improvvisa e che escono in sco come: ardeo ardesco, caleo calesco, candeo candesco, labo labasco, tepeo tepesco, ferveo fervesco, vireo viresco, algeo algesco, dormio dormisco, e altri. Tutti questi non hanno il passato; infatti si dice potest calui e fervi facere, e non calesco o fervesco calui fecit o fervi, ma da ferveo fervi, da caleo calui: infatti calescui, fervescui e virescui non sono latini. E, pertanto, si dice che gli incoativi non hanno il tempo passato, perché le cose che incominciamo, non sono ancora compiute. E tutti quei verbi che ho detto che escono in sco, sono sempre neutrali e non prendono la lettera r; ho ammonito, pertanto che sono neutrali, affinchè non ti turbi che ci sono alcuni verbi che escono in scor e che tuttavia ammettono il tempo passato, come: obliviscor oblitus sum, paciscor pactus sum, adipiscor adeptus sum. Non ci sono appunto neutrali nei quali abbiamo detto che mancano i tempi passati.
Ce ne sono altri che sono detti frequentativi, perché con essi si significa qualcosa che è fatto assai frequentemente, come: da dicto dictito, da lego lectito, da scribo scriptito, da clamo clamito, da cio cito, ossia ciò che significa frequentemente voco, da cui ora diciamo aliquos voce praeconis citatos, cioè frequentemente vocatos, e altri. Ce ne sono altri ma di pochissimo numero, che sono detti desiderativi, come: esurio, ossia desidero mangiare; parturio, desidero apparire e, come è detto da Cicerone dei filosofi, morturiunt, cioè desiderano morire. Ma di questo genere, come ho detto, sono pochi quelli che rientrano nella purezza dell'impiego del latino.
[Capitolo IV] L'avverbio
1. (L'avverbio). È detto avverbio perché si unisce al verbo. La forza del verbo non potrebbe risonare nel modo più significativo se non gli fosse congiunto l'avverbio, come avviene, per esempio, con i verbi dico, navigo, valeo, curro, ed altri. Questi, infatti, non significano in maniera completa se non gli aggiungiamo avverbi del tipo bene, male, docte, feliciter; di qui appunto: bene dicit, imperite dicit, prospere navigat, infeliciter navigat, integre valeo, debiliter valet, agiliter currit, tardius currit. Tu comprendi perché il significato dei verbi non può essere completo, senza l'aggiunta degli avverbi. Così, alcuni avverbi sono congiunti per completare il significato, come è il caso di quelli di luogo: hic dico, hic habito, intro eo, intus sum, foras eo, foris sum, hinc navigo; come pure di quelli di tempo: cras navigo, hodie navigo, di altri ancora, che sono detti tali in senso lato per le altre arti e che sono comprensibili per l'intelletto: non li ho voluti elencare perché, di fronte al fastidio dell'apprendere, è opportuno essere brevi. Correttamente, negli avverbi dobbiamo osservare quanto segue: dipende dall'ablativo quando essi escono in e e quando escono in ter. Quando infatti l'ablativo esce in o, l'avverbio esce in e: così da docto docte, da iusto iuste, da perfecto perfecte, da pio pie, da valido valide, da fortunato fortunate, da magno magne, da amplo ample, da minimo minime, e altri. Allo stesso modo, come ho detto, dipende dall'ablativo quando l'avverbio esce in ter: così, da agili agiliter, da humili humiliter, da acri acriter, da forti fortiter, da levi leviter, da gravi graviter, da iugi iugiter. Ce ne sono però alcuni che, siccome risuonavano aspramente, sono stati messi da parte e non devono essere trattati secondo questa regola: così, da miti non diciamo mititer, da tristi non diciamo tristiter. Come pure, ce ne sono altri simili a questi che, affinché non risuonassero aspramente, hanno perduto l'utima sillaba, come da sapiente sapienter e non sapientiter, da prudente prudenter e non prudentiter, da praestanti praestanter e non praestantiter. Facciamo dunque attenzione a non applicare l'eufonia alla regola o a rifiutare l'eufonia; infatti l'eufonia, cioè la piacevolezza del ben risuonare, è ammessa nel discorso latino per mitigare le asperità e ci si allontanta dall'arte e dalla ragione laddove l'asprezza offende l'udito. Come dice Cicerone: è consentito dalla ragione che sia lecito il peccare a causa della soavità 33. L'eufonia tuttavia è ammessa in pochi avverbi; infatti, la ragione è ricca e molto ampia di diritto. Di certo, l'autorità osò andare contro queste regole e ebbe l'ardire di farlo in pochi casi, di modo che Cicerone disse humaniter, mentre avrebbe dovuto dire humane, e Terenzio disse vitam parce ac duriter agebat 34, invece che dure. Pur tuttavia gli stessi autori, più modestamente e con un certo qual pudore, in pochi casi osarono andare contro la regola. Infatti, dissero falso per false, necessario per necessarie, sedulo per sedule, raro per rare, crebro per crebre, tuto per tute. Allo stesso modo ne sono stati adoperati anche altri, sebbene pochi e in maniera contenuta, ovvero con un certo ritegno.
Indubbiamente, ci sono avverbi che escono con altre sillabe: da fundo funditus, da coelo coelitus, da radice radicitus, da penetralibus locis penitus, da stirpe stirpitus. Parimenti, escono in im: da vico vicatim, da ostio ostiatim, da viris viritim, così pure da nimio nimis, come in ne quid nimis. Escono in ens, come recens, cioè nel tempo recente. Dice Virgilio: Sole recens orto 35, cioè nel tempo recente. Dunque, tutti questi avverbi non presentano differenze. Analogamente avviene per inter, intro e intus: intro indica movimento, come intro eo e intus indica stato, come intus sum, poiché eo sta per movimento e sum per stato.
C'è comunque una certa oscurità negli avverbi secundo, tertio, quarto, quinto, sexto e secundum, tertium, quartum, quintum, sextum: come per esempio, nel caso di "secundo factus est consul" e di "secundum factus fuit consul". Secundo infatti attiene all'ordine, secundum al numero, come, per esempio, quando dico "secundo factus est consul", come ho detto, attiene all'ordine, poiché come l'uno è fatto per primo, l'altro è fatto per secondo; quando invece diciamo secundum consul o tertium o quartum o quintum o sextum, attiene al numero, poichè è stato console per tre volte. Per questo Cicerone dice così di Mario: sextum consul 36, cioè che meritò sei consolati e septimum consul 37, cioè che meritò il consolato per sette volte. Varrone 38 fece queste distinzioni nei libri dei numeri. Tutte le altre cose ormai sono evidenti e facili a comprendersi da qualsivoglia arte.
2. (Ancora sull'avverbio). L'avverbio è la parte del discorso che, aggiunta al verbo, ne spiega il significato e lo completa : come scribo bene, lego optime. All'avverbio si addicono il significato, la forma, il grado. Gli avverbi o nascono da se stessi come heri, nuper, oppure provengono da altre parti del discorso, come docte e sapienter, che provengono da doctus e sapiens.
Sono molti i significati degli avverbi: ci sono quelli di tempo, come heri, nuper, o di persona, come mecum, tecum, o di luogo, come hic, istic. Degli avverbi di luogo, alcuni si usano per domandare, come unde, ubi, qua; altri per rispondere, come illinc, hinc, illo. Ce ne sono di duplice forma, come intus intro, foris foras; rispetto ad essi, però, vale la seguente osservazione: foris e intus indicano lo stare in un luogo, come in intus est, intus fuit, intus futurus est; foris erat, fuerat, futurus erat; o la provenienza da un luogo, come in intus venio, foris venio; foras e intro invece significano la direzione verso un luogo, come in foras eo, intro eo, foras ieram, intro ieram. Questi avverbi si presentano in quattro modi, indicando rispettivamente: moto per luogo (per locum), moto a luogo (ad locum), stato in luogo (in loco) e moto da luogo (e loco); il moto per luogo, come in hac iter Elysium nobis 39; il moto a luogo, come in huc ades, o Galatea 40; lo stato in luogo, come in hic e Naricii posuerunt moenia Locri 41; e il moto da luogo, come in hinc me digressum vestris deus appulit oris 42.
Ci sono quelli che significano parimenti lo stato in luogo e il moto da luogo, come intus sum, intus venio; e quelli che significano lo stato in luogo, il moto a luogo e il moto da luogo, come penitus sum, eo, venio. Ci sono quelli che hanno il significato di un numero, come semel, bis, ter; di una presentazione, come en, ecce; di un'affermazione, come quidni, quippe; di un'esortazione, come eia; di un'interrogazione, come cur, quare, nempe; di una similitudine, come sic, quasi; di una comparazione o di una preferenza, come magis, potius; di un dubbio, come fortasse; di un assenso, come plane, sane; di una separazione, come seorsum, segregatim; di un desiderio, come utinam; di una chiamata, come heus; di una risposta, come heu, di una restrizione, come nequaquam, frustra; di un giuramento, come edepol, ecastor; di una proibizione, come ne; di una negazione, come non, haud, minime; di una aggregazione, come una, simul; di una disposizione secondo un ordine, come deinde, denique; di una meraviglia, come papae; di una lode, come euge; di un'esclamazione, come pro; di un dolore, come ei; di una scelta, come vaha; di un lamento, come ei, em. Ma questi ultimi, poiché significano un'affezione dell'animo, sono detti interiezioni da tutti coloro che vogliono che l'interiezione sia separata dall'avverbio e che, poiché è proprio dell'avverbio essere aggiunto al verbo, essa sia pertanto una parte del discorso. In quanto assegnano i moti dell'animo alla qualità, i Greci, invece, non separano l'interiezione dall'avverbio e fanno ricadere tutti questi avverbi sotto il genere della qualità. Ci sono inoltre avverbi di quantità, come longe, alte e di qualità, come bene, male.
Gli avverbi non derivano soltanto dalle denominazioni, cioè dai nomi comuni, come da pulchro pulchre; ma anche dai nomi propri, come da Tullius Tulliane. Provengono inoltre dai pronomi, come da meo e tuo, meatim e tuatim; dai verbi, come da curro cursim, o anche da entrambi, come pedetentim da pede e tento, cioè insieme dal nome e dal verbo. Ci sono anche avverbi per i quali non è certo se provengano dal nome o dal verbo, come furtim, che è incerto se provenga da fure, che è un nome o, piuttosto, dal verbo furor furaris. Alcuni escludono che derivino da participi, però se ne trovano, come da decente decenter.
3. (Le terminazioni degli avverbi derivati dai nomi). Gli avverbi derivati dai nomi terminano in sei modi: in e, come docte, pulchre, honeste; in r, come velociter; in im, come ubertim, singillatim; in us, come radicitus, mordicus; in u, come noctu, diu; in i, come domi, humi, vesperi. Gli avverbi di qualità che escono in e, si devono allungare, ad eccezione di quelli che al comparativo o al superlativo sono di grado indefinito, come bene, male, o di quelli che non derivano da un nome, come impune, saepe. Del resto facile e difficile, che sono considerati come avverbi, sono dei nomi dai quali nascono gli avverbi faciliter e difficiliter, ma l'uso li ha rivendicati come avverbi. Qualunque nome, che sia di qualità o di quantità, se al dativo singolare termina in o, nell'avverbio termina con la e allungata, come da iusto iuste. Tuttavia, gli antichi li consideravano indistintamente, come nel caso di humaniter e duriter. Qualunque nome poi termini con la lettera i, esce nell'avverbio in ter, come da agili, nobili, audaci, difficili si hanno agiliter, nobiliter, audaciter, difficiliter. E, a causa dell'eufonia, alcuni di questi nomi li diciamo in forma abbreviata, come audacter, difficulter, sapienter, constanter.
Ci sono avverbi comuni ad altre parti del discorso. Ce ne sono di comuni ai nomi, come dice Sallustio: falso queritur de natura sua genus humanum 43, per false; oppure Virgilio: e pede terram crebra ferit 44, e: multa Iovem manibus supplex orasse supinis 45; di comuni con la congiunzione, di modo che, quando sono avverbi, significano parecchie cose e cioè: similitudine (ut quondam Creta fertur Labyrinthus in alta 46), tempo (ut regem aequaevum 47 e ut vidi, ut perii; ut me malus abstulit error 48), qualità (Troianas ut opes et lamentabile regnum 49), quantità (Quibus Hector ab oris / Exspectate venis? ut te post multa tuorum / Funera [...] 50); ma significano anche congiunzione (ut faciem mutatus et ora Cupido / Pro dulci Ascanio 51). Infine, ce ne sono di comuni con la preposizione, come pro.
La forma negli avverbi è semplice, come docte, prudenter, o composta, come indocte, imprudenter. Gli avverbi hanno tanti gradi quanti ne hanno i sostantivi da cui derivano, come docte, doctius, doctissime. Prendono anche il grado diminutivo, come meliuscule. Sono comunque soggetti a comparazione anche quelli che nascono da se stessi, come nuper, nuperrime.
A nessuno degli avverbi si deve aggiungere separatamente una preposizione, sebbene in Terenzio si legga ab hinc (interea mulier quaedam ab hinc triennium 52) e in Virgilio exinde (exinde per altum mittimur Elisium 53), e inoltre dehinc (dehinc ubi libera colla 54) e deinde (deinde feraces plantae immittuntur 55). Tutti questi e quanti altri di simili ve ne sono, come proinde, piacque esprimerli senza rispettare la regola degli accenti, affinché non sembrasse che delle preposizioni fossero state aggiunte separatamente agli avverbi.
[Capitolo V] Il participio
1. (Il participio). Questa parte del discorso partecipa sia del verbo che del nome; per questo, infatti, si dice participio. Questa parte del discorso esce al presente in ens e in ans, come legens, amans; al futuro in rus, come legens lecturus, amans amaturus; al passato, come lectus, amatus; al futuro, come legendus, amandus. Vedi che questa parte del discorso si articola secondo i tempi che mutua dal verbo; infatti al verbo si addicono i tempi. Ciò che invece si declina secondo i casi, lo mutua dal nome; infatti, la declinazione per casi è di pertinenza del nome, come hic legens, huius legentis, huic legenti, hunc legentem, o legens, ab hoc legente. Questa parte del discorso, che si articola o per tempi o per casi, è dunque chiamata participio, poiché partecipa del nome e del verbo. Non è una parte del discorso difficile, ma facile a comprendersi; infatti, al presente esce in ans e in ens, come amans, legens; al futuro con il significato attivo esce in rus, come amaturus, lecturus; con il significato passivo in tus e in dus, come amatus, legendus. Certamente anche il tempo passato termina con tre sillabe: in tus, come lectus, scriptus; in sus, come occisus, visus; in xus, come fixus; e non troverai altro.
Come abbiamo detto, pertanto, il participio esce al presente in ens e in ans, al futuro in rus, al passato in tus, al futuro in dus. Di certo, ci sono nomi che per il suono sono ritenuti participi, ma che sono nomi. Sono infatti participi quelli che vengono dai verbi, come da lego legens, lecturus, lectus, legendus; sono invece nomi e non participi tunicatus, galeatus, clypeatus e tropaeatus, perché non vengono dal verbo. C'è un solo participio di tempo passato in tutta la lingua latina, che si dà nella forma [o declinazione] del nome, mortuus. Proviene da morior e al participio del tempo passato dovrebbe uscire in tus, con una sola u e non con due, poiché, dove c'è la doppia u al nominativo, si tratta di un nome e non di un participio, come fatuus, ingenuus, arduus, carduus, exiguus, belluus, come dice Cicerone, e simili. Ebbene, contro la regola dei participi, mortuus si ritiene che sia un participio, ma è impiegato secondo la forza e la regola del nome.
[Capitolo VI] La congiunzione
1. La congiunzione è la parte del discorso che unisce e mette ordine nella proposizione. Sono di pertinenza della congiunzione la forma, l'ordine e le proprietà. La forma è tale per cui appare semplice o composta. Ma di certo, anche l'ordine è quello per cui avviene che una congiunzione può essere o soltanto preposta, come nam, o soltanto aggiunta, come que, oppure sia preposta sia aggiunta, come igitur.
Le proprietà delle congiunzioni si dividono in cinque specie: ci sono infatti quelle copulative, come et, que, ast, at, atque; quelle disgiuntive, come aut, vel, ve, nec, neque, neve, an, utrum; quelle espletive, come quidem, equidem, autem, tamen, porro, videlicet, proinde, denique, utique; quelle causali, come si, etsi, tametsi, etiamsi, siquidem, quando, quandoquidem, quin, quinetiam, sin, sinetiam, quamquam, quamvis, sinautem, seu, sive, nam, namque, nisi, nisisi, enim, etenim, sed, ut, praeterea, interea, quamobrem, quare, praesertim, item, itemque, caeterum, alioquin e quelle razionali, come ita, itaque, enim, enimvero, quia, quapropter, quippe, quoniam, quoniamquidem, ergo, igitur, ideo, idcirco, scilicet, propterea. Di queste, quella copulativa, et, significa molte cose; spesso poi si trasforma in una specie di altra proprietà: ora in quella espletiva, come et quae tanta fuit Romam tibi causa videndi? 56; ora di quella della qualità o della quantità, come in timeo Danaos et dona ferentis 57; ora prende il posto di quella disgiuntiva, come et quisquam numen Iunonis adorat / Praeterea, aut supplex aris imponit honorem? 58; ora di quella causale, come et claro silvas 59 (c. a. m. sta per nam claro s. c. a. m.*), come Quorum Iphytus aevo / Iam gravior, Pelias et vulnere tardus Ulixi 60, dove sta per etiam vulnere tardus; ora è presa al posto dell'avverbio di ordinare, come nel caso di Corpusque lavant frigentis et ungunt 61, che sta al posto di deinde ungunt.
Parimenti, la congiunzione aut significa molte cose; infatti ora è presa per un avverbio che indica distinzione, come in Ante urbem pueri et primaevo flore iuventus / Exercentur equis, domitantque in pulvere currus, / Aut acris tendunt arcus, aut lenta lacertis / spicula contorquent 62; ora per significare il tempo, come Aut ante ora deum pinguis spatiatur ad aras 63, cioè nunc ante ora deum spatiatur ad aras. Parimenti, Aut agmina curru / Proterit, aut raptas fugientibus ingerit hastas 64.
Due sono le forme delle congiunzioni: semplice, come nam, composta, come namque. L'ordine delle congiunzioni consiste in questo: che o sono congiunzioni prepositive, come at e ast, o aggiuntive, come que e autem, o comuni, come et e igitur. Ci sono anche modi di dire che è incerto se sia opportuno chiamarli preposizioni o avverbi, e che tuttavia si riconoscono facilmente. Si trovano anche congiunzioni impiegate al posto di altre congiunzioni, con differenti proprietà.
[Capitolo VII] La preposizione
1. (Preposizioni che reggono l'accusativo, l'ablativo o entrambi). Tutte le preposizioni si dicono tali in generale. Quanto alle loro specie, alcune sono accusative, altre ablative, altre dell'una e dell'altra specie. Si chiamano accusative perché reggono il caso accusativo, come ad, apud, ante, adversus, cis, citra, circum, circa, contra, erga, extra, intra, infra, iuxta, ob, penes, per, prope, propter, praeter, post, pone, secundum, supra, trans, ultra. In queste preposizioni si deve fare attenzione ai generi dei nomi, cioè maschile, femminile, neutro e comune, come pure al numero, come, per esempio, al maschile singolare ad agrum e al maschile plurale ad agros, al femminile singolare ad villam o ad possessionem, al plurale ad villas o ad possessiones; così al neutro singolare ad templum, ad Capitolium, e al neutro plurale ad templa, ad Capitolia; come pure al genere comune di numero singolare, ad civem, ad hostem, ad sacerdotem, e di numero plurale ad cives, ad hostes, ad sacerdotes.
Così, dunque, valuterai tutte le proposizioni, come ho detto, facendo attenzione al genere, al numero singolare e plurale, come pure ai pronomi, secondo il genere: maschile, ad hunc, plurale, ad hos; femminile, ad hanc, plurale ad has; neutro, ad hoc templum vado, plurale, ad haec templa; nonché al genere comune; singolare ad hunc e ad hanc sacerdotem, e plurale ad hos e has sacerdotes. Si chiamano ablative in quanto reggono l'ablativo tanto al singolare quanto al plurale; vanno valutate prestando attenzione ai generi e ai numeri, come, per esempio, a, ab, abs, cum, coram, clam, de, e, ex, pro, prae, palam, sine, absque, tenus: al maschile singolare a fratre, plurale a fratribus; al femminile singolare, a sorore, plurale a sororibus o a civitate, a civitatibus; al maschile singolare ab amico, plurale ab amicis, ab agro, ab agris; al femminile singolare ab urbe, plurale ab urbibus; al neutro singolare ab templo, plurale ab templis; al comune singolare a cive, plurale a civibus, ab hoste, ab hostibus. Attieniti a questa declinazione in tutte queste preposizioni ablative secondo i generi e i numeri.
2. (Preposizioni di entrambi i casi). Rimane la terza specie di preposizioni, che sono dette di entrambi i casi, in quanto reggono tanto l'accusativo quanto l'ablativo. Ma il criterio che è alla bae di queste preposizioni sfugge ai più e non è chiaro con quale distinzione si comprenda. La differenza risiede nello star fermi o nel muoversi.
Alcuni ritengono l'uno e l'altro, ma con un certo criterio. Infatti, il movimento, talora richiede soltanto l'accusativo, e cioè quando significa che noi ci muoviamo da un luogo ad un altro, come curro in forum, o in campum. Se diciamo che corriamo da un luogo nel foro o in aperta campagna, ricorriamo al caso accusativo; se invece diciamo che ci muoviamo all'interno in un solo e medesimo luogo, ricorriamo all'ablativo, come nel caso di curro in foro, curro in campo, come pure nel caso di ambulo in foro e di ambulo in campo: se diciamoche passiamo da un luogo nel foro, allora ricorriamo all'accustivo, mentre se diciamo che camminiamo nel medesimo luogo, ricorriamo all'ablativo, come in ambulo in foro; così pure in cadit in forum e in cadit in foro; così in ingrediturque solo, et caput inter nubila condit 65; come pure in in arvis altius ingreditur 66, cioè ambulat, dove tu vedi che c'è un movimento e tuttavia rivendica per sé l'ablativo, ma in loco, come ho detto, e non de loco in locum. Così pure lapsus in piscinam e lapsus in piscina: se scivola in piscina provenendo da un altro luogo, ci vuole l'accusativo; se invece cade restando all'interno della piscina, allora richiede l'ablativo. Venio invece richiede sempre l'accusativo, poiché chi viene, viene da un luogo ad un altro. Quando invece uno è già in un luogo, il movimento cessa. Parimenti si dà un movimento da un luogo ad un altro luogo anche con volvo o evolvo: Reperire viam qua evolvere posset / In mare se Xanthus 67, equivale a evolvere se ab alveo in mare. Invece l'aggirarsi nello stesso luogo richiede l'ablativo, come in Fundo volvuntur in imo 68.
Sub è un'altra preposizione di entrambi i casi. Anche per sub, il movimento da un luogo ad un altro luogo richiede l'accusativo; a proposito dell'asta infatti Virgilio dice: sub altum pectus abit 69, che equivale a sub illam rem; invece, il movimento in un luogo richiede l'ablativo: Troiae sub moenibus altis contigit oppetere 70, cioè cadere o iacere. E appunto dice Troiae sub moenibus altis. Per il movimento da un luogo ad un altro, vale l'esempio in cui dice: Sive sub incertas zephyris mutantibus umbras 71 e soggiunge come in succedimus, dove appunto c'è un movimento da un luogo ad un altro. Così in super, dove super Garamantas et Indos proferet imperium 72, il movimento è da un luogo ad un altro e richiede l'accusativo, mentre, dove è il movimento è in uno stesso luogo, come in Geminae super arbore sidunt 73, richiede l'ablativo. Lo stesso vale per subter: dove si ha il passaggio da un luogo ad un altro, come in Angusti subter fastigia tecti ingentem Aeneam duxit 74, richiede l'accusativo; dove invece il movimento è nel medesimo luogo, come in Cum tamen omnis / Ferre libet subter densa testudine casus 75, richiede.
Così sub: se avviene il movimento da un luogo ad un altro, allora richiede l'accusativo, come in sub speluncam curro; se invece la cosa riguarda uno che sta sotto la stessa spelonca, richiede l'ablativo, come in sub spelunca curro. Allo stesso modo super: se avviene un movimento da un luogo ad un altro luogo, richiede l'accusativo, come in super tectum curro. Se invece qualcuno posto sopra al tetto corre, richiede l'ablativo, come in super tecto curro. Così è per subter fluctus mergor; se dalla costa avviene un movimento di immersione, è accusativo, come mergor subter fluctus; se invece la cosa riguarda qualcuno che è già tra i flutti, è ablativo, come in subter fluctibus mergitur. Ma a questo modo di esprimersi e al rispetto di questa regola molto giovano due avverbi di luogo, quo e ubi. Quo si usa nel moto a luogo, mentre ubi nello stato in luogo; e appunto si dice: quo venit telum? in hostem; ubi haesit? in hoste. Quo voluit Catilina telum dirigere? in consulis corpus; ubi voluit defigi? in consulis corpore. Così infatti si dice del pugnale: ut eam putes in consulis corpore defigere 76 e così pure quando diciamo: quo fugimus?, cioè in locum; Ubi latet?, in loco. Dunque, come abbiamo detto, questi due avverbi sono di grande aiuto contro la confusione che c'è nel distinguere le preposizioni di entrambi i casi. Ci si purifica infatti così di questo modo di comportarsi degli avverbi, anche a proposito di quello che si dice nelle Verrine: Quod ille in capite ab hostium duce acceperat 77. Dunque la ferita è diretta al capo ed è ricevuta nel capo; ebbene, forse che diciamo: Quo accipis vulnus? No, ma: Ubi accipis. E Virgilio dice: quo ire iubes, che significa moto a luogo; invece, ubi ponere iubes, quando significa stato in luogo. Lo stato in verità richiede sempre l'ablativo, poiché è contrario al movimento; del resto, il nome, come tale, significa una certa posizione, come, ad esempio, sum in foro, eram in foro, fui in foro, futurus sum in foro. Così semplicemente sedeo, iaceo, cubo, sto, consisto, aereo: sono tutti verbi pertinenti allo stare. Tutte queste cose devono essere meditate e messe in pratica, per far conoscere con maggiore accuratezza coloro che, parlando rettamente e senza nessuna esitazione, si sono già applicati in questa forma di preposizioni.
[Capitolo VIII] L'interiezione
1. L'interiezione non è una parte del discorso, ma è un'affezione dell'animo che si esprime nella voce e significa o letizia, come evax, o amarezza, come heu, presso i Greci, φευ. Pertanto, quanti sono i moti dell'animo turbato, tanti ne rendono le voci e si chiamano interiezioni, poiché interrompono il discorso, come in hic inter densas corilos modo namque gemellos / spem gregis 78; segue subito l'interiezione con la lettera a: a silice in nuda connixa reliquit. La lettera a è inserita nel mezzo del discorso.
Epilogo
Abbiamo passato in rassegna tutte le parti del discorso, cosa che è sufficiente come compendio per gli indaffarati o per i negligenti. E ovviamente, ciò che abbiamo omesso trattando del nome, lo presentiamo ora. Dobbiamo infatti sapere che i nomi dei numeri da quattro fino a cento sono nomi indeclinabili e di genere omne; infatti, diciamo quatuor viri, quatuor feminae, quatuor mancipia. Così, per tutti i casi diciamo quatuor: per esempio, diciamo: virorum quatuor, mulierum quatuor, mancipiorum quatuor. Così all'accusativo: viros quatuor, feminas quatuor, mancipia quatuor; così all'ablativo: a viris quatuor, a feminis quatuor, a mancipiis quatuor. Ho detto però che sono indeclinabili da quattro fino a cento, perché due si declina: duo, duorum, duobus, duos o duo, o duo, a duobus; anche tre si declina e si articola per casi: hi e hae tres, horum e harum trium, his tribus, hos e has tres, o tres, ab his tribus; al neutro: haec tria, horum trium, his tribus, haec tria, o tria, ab his tribus. Da questa forma dunque comprendiamo che, come diciamo hic duumvir, cioè come se due uomini fossero un solo uomo, così pure diciamo triumvir, cioè come se tre uomini fossero un solo uomo. Dunque hic ammette il genitivo. Quatuor invece è già indeclinabile e diciamo quatuorvir o quinquevir o sexvir; per questo Lucano dice septemvirque epulis festus 79, ove al posto del genitivo usa l'accusativo septem. I nomi dei numeri da duecento a novecento invece si declinano, come è il caso di hi ducenti e hae ducentae e, al neutro, ducenta; mentre mille è indeclinabile.