LIBRO SETTIMO

 

QUESTIONI SUI GIUDICI

 

Con quale racconto inizia il libro dei Giudici.

1. Alla fine del libro di Giosuè di Nun il narratore prolungò un po’ la storia fino al tempo in cui i figli d’Israele si rivolsero al culto degli dèi stranieri 1; in questo libro invece si torna alla narrazione ordinata dei fatti nella successione in cui avvennero dopo la morte di Giosuè di Nun. Il libro dunque non comincia dal momento in cui il popolo tralignò nell’adorazione degli idoli, ma dai primi momenti trascorsi, in cui ebbero luogo i fatti dopo i quali il popolo giunse a quella defezione.

Il successore di Giosuè.

2. (1, 1-3) E accadde che dopo la morte di Giosuè i figli d’Israele consultarono il Signore dicendo: Chi salirà con noi come capo contro il Cananeo per combattere con lui? E il Signore rispose: Salirà Giuda; ecco, ho posto il paese nelle sue mani. Qui si pone il problema se Giuda era il nome di una persona oppure l’agiografo chiama così la tribù di Giuda, come fa di solito. Ma coloro che avevano consultato il Signore chiedevano un capo dopo la morte di Giosuè; si pensa perciò che qui sia indicato chiaramente il nome di una persona. Tuttavia, poiché la Scrittura non è solita nominare i capi quando sono instituiti, senza menzionare anche l’origine dei loro antenati, e risulta che, dopo la morte di Giosuè, il popolo ebbe i suoi capi, il primo dei quali è Gotoniel, figlio di Cenez, è più esatto pensare che sotto il nome di Giuda è indicata la tribù di Giuda. Proprio per mezzo di questa tribù il Signore cominciò ad opprimere i Cananei. E poiché il popolo lo aveva consultato a proposito del capo, la risposta del Signore fu adatta per far loro capire che Dio non voleva che tutto quanto il popolo facesse guerra contro i Cananei. Disse dunque: Salirà Giuda. E la Scrittura continua il racconto dicendo: E Giuda disse a suo fratello Simeone, per l’appunto una tribù a un’altra tribù, poiché non erano più in vita quei figli di Giacobbe chiamati Giuda e Simeone denotati con i propri nomi tra gli altri fratelli; disse dunque la tribù di Giuda alla tribù di Simeone: Sali con me nel territorio toccatomi in sorte e combattiamo contro il Cananeo, poi verrò anch’io con te nel territorio che ti è toccato in sorte. È evidente che la tribù di Giuda chiese aiuto all’altra tribù per ricambiarlo quando anche quell’altra tribù avesse avuto bisogno.

Il fatto della figlia di Caleb promessa in premio al vincitore.

3. (1, 9-12) E Caleb disse: A chiunque riuscirà a battere la Città delle Lettere e la conquisterà darò in moglie mia figlia Aksa. Questo particolare è già menzionato anche nel libro di Giosuè di Nun 2; uno però può chiedersi a ragione se ciò accadde essendo ancora vivo Giosuè e ora sia narrato di nuovo sotto forma di ricapitolazione, o dopo la sua morte quando era stato detto: Giuda salirà, e Giuda aveva già preso a far guerra contro i Cananei, nella quale guerra si narra che accaddero tutti questi fatti. Ma è più probabile che questo fatto sia avvenuto dopo la morte di Giosuè ed è raccontato allora per prolessi, cioè per anticipazione come anche altri fatti. Ora, infatti, venendo narrate le imprese della tribù di Giuda contro i Cananei, l’ordine della narrazione è seguito perfettamente, e tra le altre gesta belliche della tribù di Giuda, delle quali il Signore aveva parlato dopo la morte di Giosuè, è detto: Salirà Giuda. E di poi i figli di Giuda discesero per combattere il Cananeo che abitava la zona montuosa e il sud e la pianura. E Giuda marciò contro il Cananeo che abitava in Ebron ed Ebron uscì dalla parte opposta - il nome di Ebron era precedentemente Cariatharbocsfer - e battè Sesi, Achiman e Colmi, figli di Enac. Di lì salirono contro gli abitanti di Dabir - il nome di Dabir in antecedenza era Città delle Lettere. - E Caleb disse: A chiunque batterà la Città delle Lettere e la conquisterà gli darò in moglie mia figlia Aksa. Da questa serie di gesta risulta tanto chiaro dunque che ciò avvenne dopo la morte di Giosuè. Al contrario, allorché si menzionano le città consegnate a Caleb, il narratore andando avanti anticipa alla prima occasione ciò che successe dopo. Non penso inoltre che la Scrittura abbia voluto menzionare senza un motivo per due volte il fatto della figlia di Caleb data in premio al vincitore.

A proposito della figlia di Caleb.

4. (1, 14-15) A proposito della figlia di Caleb sorge un altro quesito, poiché nel libro di Giosuè, figlio di Nun, così si dice di lei: E successe che, mentre essa entrava, si consultò con lui dicendo: Chiederò un campo a mio padre, e stando sull’asino si mise a gridare etc., ove chiese al padre un campo e le fu concesso 3. Qui invece si dice: E accadde che, mentre egli entrava, Gotoniel la esortò a chiedere a suo padre un campo. Ebbene, tra l’espressione precedente quando essa entrava, e quella usata qui, quando egli entrava, non c’è contraddizione, poiché facevano la strada insieme. Anche quanto a ciò che segue, nel passo precedente si diceva: Si consigliò con lui - cioè con suo marito - dicendo: Chiederò un campo a mio padre, e stando sull’asino si mise a gridare e lo chiese; all’atto di consigliarsi con il marito fu esortata a chiederlo: di questi due particolari uno è detto nel passo precedente e l’altro in questo; ambedue le cose si potevano esprimere nel modo seguente: " E si consigliò con lui dicendo: Chiederò un campo a mio padre; egli poi la esortò ed essa gridò stando sull’asino ". Inoltre in quel passo si riferisce che essa chiese un campo e non è taciuto il nome del campo; in questo invece, essendo stata esortata dal marito a chiedere il campo, non si dice che chiese il campo " gridando essendo ancora seduta sulla bestia da soma " - ivi si dice: stando seduta sull’asino -, ma chiese l’acquisto di acqua, poiché era stata assegnata alla terra del Sud; e la Scrittura aggiunge: E Caleb le diede, secondo il suo desiderio, l’acquisto [d’acqua] degli eccelsi e l’acquisto dei bassi; il testo non si comprende bene, salvo che il campo era chiesto dalla figlia per avere dai suoi prodotti la somma necessaria per comprare l’acqua di cui c’era scarsità nelle regioni dove la sposa veniva condotta. Ma nell’espressione: Caleb le diede l’acquisto [d’acqua] degli eccelsi e dei bassi, non vedo che cosa sia sottinteso se non " corsi d’acqua " molto alti, cioè ruscelli nelle parti montuose e in quelle basse dei campi e delle valli.

Le città che Giuda non riuscì a conquistare.

5. (1, 18-19) Giuda però non riuscì a conquistare né Gaza con il suo territorio né Ascalon con il suo territorio né Accaron con il suo territorio né Azoto e i suoi dintorni. Il Signore invece stava con Giuda e conquistò la zona montuosa, poiché non riuscì a conquistare gli abitanti della valle, poiché Rechab gli si oppose ed aveva carri di ferro. Spiegando nel libro di Giosuè, figlio di Nun, il passo ove sta scritto: E il Signore diede ad Israele tutto il paese 4, quando invece ancora non possedeva molte sue regioni, dissi che l’affermazione che era stato dato tutto il paese, poteva intendersi nel senso che non era dato in possesso ma perché servisse in certo qual modo come prova 5; ciò appare con maggiore evidenza in questo passo. Dal momento che qui vengono menzionate le città che Giuda non riuscì a conquistare, pur dicendosi che il Signore era con Giuda. Conquistò la zona montuosa poiché gli Israeliti non riuscirono a conquistare gli abitanti della valle. Ora chi non comprende che anche questo rientrava nel fatto che il Signore era con Giuda, perché non s’insuperbisse ottenendo tutto d’un tratto l’intero territorio? Riguardo a quanto soggiunge il testo: Rechab tenne testa loro e aveva carri di ferro, si dice che quei carri li temesse non il Signore, che stava con Giuda, ma lo stesso Giuda. Se si pone il quesito perché aveva paura Giuda con cui stava il Signore, si può credere prudentemente che Dio, nella sua misericordia, smorzasse gli eccessi di una soverchia prosperità anche nel cuore dei suoi per convertire i nemici a loro vantaggio, non solo quando i nemici vengono vinti, ma anche quando sono temuti; nel primo caso per mettere in risalto la sua generosità, nel secondo per reprimere la loro superbia. Infatti nemico dei santi è l’angelo di satana, che tuttavia l’Apostolo dice che gli fu dato al fine di schiaffeggiarlo perché non montasse in superbia per la grandezza delle rivelazioni 6.

Ciò che è detto per ricapitolazione.

6. (1, 20) Come Mosè aveva ordinato, Ebron fu data a Caleb; ed ereditò da essa le tre città dei figli di Enac e ne scacciò i tre figli di Enac. Questo è già stato detto nel libro di Giosuè, figlio di Nun 7, poiché successe quando questi era ancora in vita, ma qui è ricordato per ricapitolazione nell’occasione che la Scrittura parla della tribù di Giuda alla quale apparteneva Caleb.

La città di Iebus è la stessa che Gerusalemme.

7. (1, 21. 8) Ci si chiede come mai la Scrittura dice: I figli di Beniamino non scacciarono i Gebusei che abitavano Gerusalemme, perciò i Gebusei abitarono con i figli di Beniamino in Gerusalemme fino ad oggi, mentre poco prima si legge che la medesima città fu presa e incendiata da Giuda dopo esserne stati uccisi i Gebusei. Ma bisogna sapere che questa città era posseduta in comune dalle due tribù, di Giuda e di Beniamino, come è dimostrato dalla stessa divisione delle terre fatta da Giosuè, figlio di Nun 8. La città di Iebus è infatti la stessa che Gerusalemme 9. Queste due tribù rimasero però presso il tempio del Signore quando le altre tribù - ad eccezione della tribù di Levi, che era sacerdotale e non ricevette alcun territorio nella divisione - si separarono dal regno di Giuda con Geroboamo 10. Si deve dunque pensare che la città fu presa, sì, da Giuda e incendiata dopo che furono uccise le persone che vi si trovavano, ma non tutti i Gebusei furono sterminati, sia perché erano fuori della città sia perché riuscirono a fuggire; i figli di Beniamino insieme con la tribù di Giuda, che possedevano in comune quella città, permisero che abitassero insieme con loro i Gebusei che erano rimasti. Pertanto l’espressione: I figli di Beniamino non cacciarono i Gebusei, deve intendersi nel senso che non riuscirono o non vollero renderli tributari o almeno la Scrittura dice non cacciò i Gebusei poiché non possedette senza di loro il territorio posseduto da quelli.

La città degli Sciti, Scitopoli.

8. (1, 27) E Manasse non conquistò Betsan, che è la città degli Sciti. Si dice che oggi questa città si chiama Scitopoli. Può tuttavia procurare imbarazzo il fatto che in quelle regioni molto lontane dalla Scizia potesse esserci una città degli Sciti. Ma potremmo similmente stupirci come mai Alessandro il Macedone abbia fondato la città di Alessandria tanto lontano dalla Macedonia, cosa che poté attuare facendo la guerra per ogni dove. Così anche gli Sciti poterono fondare questa città quando un tempo avanzavano facendo la guerra in terre lontane. Poiché nella storia universale si legge che gli Sciti ebbero un tempo sotto il loro potere quasi tutta l’Asia quando si scontrarono con il re d’Egitto che senza motivo aveva dichiarato loro guerra, ma egli atterrito dal loro arrivo si ritirò nel suo regno.

Le filiali di Scitopoli.

9. (1, 27) E Manasse non conquistò Betsan, che è la città degli Sciti, né le sue filiali. L’agiografo chiama sue filiali le città che Betsan aveva fondato quale metropoli.

Ricapitolazione o anticipazione.

10. (1, 28) E successe che quando Israele era divenuto più forte, sottomise i Cananei a pagare il tributo, ma non riuscì totalmente a scacciarli dalla loro terra. Già qualcosa di simile è detto nel libro di Giosuè di Nun quasi con le stesse parole 11. Perciò o qui si dice per anachefaliosi o lì per prolessi, cioè o qui per ricapitolazione o lì per anticipazione.

Ancora ricapitolazione o anticipazione.

11. (1, 34) E gli Amorrei respinsero i figli di Dan costringendoli sulla zona montuosa e non permisero loro di scendere nella valle. Ugualmente anche qui ciò o è narrato nel libro di Giosuè, figlio di Nun 12, per anticipazione o qui per ricapitolazione.

Il monte del pianto.

12. (2, 1) E l’angelo del Signore salì sul Clautmonte. L’autore di questo libro chiama così il luogo poiché scrisse in un’epoca posteriore, poiché quando l’angelo del Signore ascese in quel luogo, ancora non si chiamava così; prese infatti il nome da " pianto " per il fatto che in greco il pianto si dice . In realtà ivi il popolo pianse dopo aver udito da questo angelo le parole del Signore che li puniva perché avevano disubbidito per non avere sterminati secondo il suo comando i popoli [pagani] da essi vinti, preferendo assoggettarli del tutto 13 piuttosto che annientarli e disperderli come aveva ordinato il Signore 14. Sia che agissero così per disprezzo del comando del Signore sia per paura di spingere i nemici a combattere più accanitamente contro di loro per ottenere la salvezza piuttosto che per non dare il tributo, senza dubbio peccarono o disprezzando l’ordine dato da Dio o non avendo fiducia che li avrebbe potuti aiutare Colui che aveva dato quell’ordine. Il Signore non volle dirlo ad essi per mezzo di Giosuè - se pure è vero che aveva già comandato di farlo quando ancora viveva Giosuè e non era stato menzionato per anticipazione ciò che cominciò ad avvenire dopo la sua morte - poiché preferì rivolgere questo rimprovero assolutamente a tutti per mezzo dell’angelo; non ancora però avevano tutti commesso quella disobbedienza essendo ancor vivo Giosuè, anche se alcuni forse avevano già cominciato a farlo. È tuttavia più probabile che nulla di simile cominciò a succedere vivendo ancora Giosuè e che sotto il governo di Giosuè i figli d’Israele possedevano tanto territorio quanto bastava per stabilirvisi, sebbene nei territori da loro occupati crescendo e divenendo più forti avessero ancora la possibilità di sterminare gli avversari. Quindi, dopo la morte di Giosuè, dopo che erano diventati più forti da poter adempiere l’ordine di Dio preferirono averli come tributari seguendo la propria volontà invece di annientarli e disperderli secondo la volontà di Dio; ecco perché l’angelo fu inviato loro per biasimarli. Quanto al fatto che ciò è stato menzionato nel libro di Giosuè di Nun 15, io penso che sia stato ricordato piuttosto per anticipazione ciò che egli stesso per spirito profetico già sapeva che sarebbe avvenuto dopo la sua morte, ciò nell’ipotesi che sia stato composto da lui il libro detto di Giosuè figlio di Nun, oppure se è stato scritto da un altro, già sapeva che era successo dopo la morte di Giosuè ciò che in quel libro è menzionato per anticipazione.

Se alcuni peccati provengono anche dall’ira di Dio.

13. (2, 3) Che significa ciò che dice l’angelo del Signore tra le altre cose minacciate da Dio, e cioè: Non scaccerò più il popolo che dissi di scacciare; non li toglierò davanti a voi ed essi saranno per voi dei lacci e i loro dèi saranno per voi delle insidie 16, se non che dobbiamo credere che alcuni peccati provengono anche dall’ira di Dio? Dio infatti, sdegnato, li minacciò che gli dèi delle nazioni pagane in mezzo alle quali gli Israeliti, senza sterminarle, vollero abitare, sarebbero stati loro di scandalo, avrebbero cioè fatto sì che si sarebbero scandalizzati del Signore loro Dio e che sarebbero vissuti offendendolo; è senza dubbio evidente che questo è un grande peccato.

Un passo ripetuto per ricapitolazione.

14. (2, 6. 8) E Giosuè congedò il popolo, e i figli d’Israele se ne andarono ciascuno a casa sua e ciascuno alla sua eredità per prendere possesso della terra. Non c’è alcun dubbio che questo passo è ripetuto qui per ricapitolazione 17. Infatti anche in questo libro viene ricordata perfino la morte di Giosuè per indicare brevemente tutti i fatti dall’inizio, da quando cioè il Signore diede loro la regione e in qual modo sotto la guida dei Giudici vissero e quali sofferenze dovettero sopportare; e così si torna di nuovo alla serie dei Giudici cominciando da quello stabilito per primo.

In qual senso si dice che non conobbero il Signore.

15. (2, 10) E dopo di essi sorse un’altra generazione che non conobbe il Signore e le opere che aveva compiuto per Israele. L’agiografo spiega in qual senso dice non conobbero il Signore, cioè per le singolari e mirabili opere per mezzo delle quali prima di loro era accaduto che Israele conoscesse il Signore.

Come prender i nomi degli dèi.

16. (2, 13) E prestarono culto a Baal e alle Astarti. Si suol dire che il nome di Baal presso i popoli di quelle regioni corrisponde a quello di Giove e quello di Astarte a quello di Giunone, come si crede essere dimostrato anche dalla lingua punica. Sembra in effetti che i Punici chiamino " signore " Baal e perciò si pensa che chiamino Baalsamen come " il re del cielo ", poiché presso di essi i cieli sono detti " Samen ". Giunone invece è chiamata da loro senza incertezze Astarte. E poiché queste lingue non differiscono molto tra loro, si crede giustamente che, a proposito dei figli d’Israele, la Scrittura dice che resero culto a Baal e alle Astarti, poiché lo resero a Giove e ai Giunoni. E non deve sorprendere il fatto che l’agiografo non dice " ad Astarte ", cioè a Giunone, ma quasi che esistano molte Giunoni, usa questo nome al plurale: egli ha voluto far rivolgere il nostro pensiero alla moltitudine delle immagini, poiché ogni immagine di Giunone veniva chiamata Giunone e perciò ha voluto farci intendere che c’erano tante Giunoni quante erano le sue immagini. Io poi penso che l’agiografo ha voluto usare il singolare per Giove e il plurale per le Giunoni per ragione di varietà; poiché per la medesima causa delle molte immagini si potrebbe dire anche " Giovi " al plurale. Ora noi troviamo il nome di Giunone al plurale nel testo greco dei Settanta, ma nel testo latino stava al singolare. Nel testo che non riproduceva la traduzione dei Settanta, ma era tradotto dall’ebraico, leggiamo Astaroth e non Baal ma Baalim. E se per caso questi nomi nella lingua ebraica o siriaca significano un’altra cosa, è certo che sono dèi stranieri e falsi, ai quali Israele non avrebbe dovuto rendere culto.

Il significato delle parole venduto e riscatto nelle Scritture.

17. 1. (2, 14. 20-23; 3, 1-4) E li vendette nelle mani dei nemici che stavano loro intorno. Si suol porre il quesito per qual motivo è detto: vendette, come se si dovesse intendere che era stato sborsato qualche prezzo. Ma anche nel Salmo si legge: Hai venduto il tuo popolo per un nulla 18, e nel Profeta: Voi siete stati venduti gratuitamente e senza argento sarete riscattati 19. Perché dunque è detto venduti se lo furono gratuitamente e per un nulla, e non piuttosto " donati "? O questo è per caso un modo di esprimersi delle Scritture, sicché si può chiamare " venduto " anche uno che viene dato in regalo? Questo è il senso più appropriato della frase: siete stati venduti gratuitamente, e: hai venduto il tuo popolo per un nulla, poiché quegli individui, ai quali consegnasti il popolo, erano empi e non meritarono che fosse loro consegnato quel popolo per il fatto che adoravano il vero Dio, e così lo stesso culto idolatrico fu in un certo senso come il prezzo della vendita. Riguardo invece all’espressione: ma non sarete riscattati con l’argento, non è detto " senza prezzo ", ma senza argento, per farci intendere che il prezzo del riscatto è quello di cui parla l’apostolo Pietro: Poiché non siete stati riscattati con argento e oro ma con il sangue prezioso [di Cristo] quale agnello senza macchia 20. Con il termine argento infatti il Profeta indica qualunque somma di danaro, allorché dice: non sarete riscattati con l’argento, poiché dovevano essere riscattati - è vero - con il prezzo del sangue di Cristo, ma non con un prezzo in danaro.

17. 2. Con le seguenti parole che dice il Signore: E io non continuerò a scacciare dinanzi a loro alcuno dei popoli che lasciò Giosuè, figlio di Nun; e li lasciò allo scopo di mettere alla prova Israele per mezzo di quelli, [per vedere] se essi osservavano la via del Signore e vi camminavano, come l’avevano osservata i loro padri oppure no. E il Signore aveva lasciato questi popoli senza scacciarli subito e non li aveva consegnati nelle mani di Giosuè, si mostra bene il motivo per il quale Giosuè non distrusse con la guerra tutte quelle popolazioni; poiché, se lo avesse fatto, non ci sarebbero state popolazioni per mezzo delle quali gli Israeliti sarebbero stati sottoposti alla prova. Potevano invece servire alla loro utilità qualora, sottoposti alla prova per mezzo di quelli, non fossero risultati reprobi; e se fossero stati trovati tali quali il Signore aveva comandato che fossero, allora quelle popolazioni sarebbero state scacciate dinanzi ad essi, se così fossero vissuti, e non sarebbe stato necessario che gli Israeliti fossero afflitti dalle guerre. Bisogna tenere come parole del Signore quelle che comprendono anche la seguente espressione: Per il fatto che questo popolo ha abbandonato la mia alleanza, che avevo prescritto ai loro padri e hanno rifiutato di dare ascolto alla mia voce, neppure io continuerò a scacciare dinanzi ad essi alcuno - cioè alcun loro nemico -; tutte le altre parole sono, al contrario, dell’agiografo, che spiega perché il Signore disse che non avrebbe scacciato dinanzi a loro alcuno dei popoli che Giosuè, figlio di Nun, aveva lasciato liberi. Di poi, soggiungendo per qual motivo li aveva lasciati: e li ha lasciati - dice - al fine di mettere alla prova Israele per mezzo di quelli [per vedere se gli Israeliti] osservano la via del Signore per camminare in essa come l’avevano seguita i loro padri oppure no; con ciò l’agiografo vuol fare intendere che avevano osservato le vie del Signore quei padri che furono con Giosuè, cioè al tempo in cui egli viveva. Poiché l’agiografo riferisce poco prima 21 che, dopo coloro che erano vissuti con Giosuè, era sorta un’altra generazione di persone dalle quali ebbero inizio le trasgressioni che offesero il Signore: al fine di tentarli, cioè di metterli alla prova, erano state lasciate libere le popolazioni e non erano state sterminate da Giosuè.

17. 3. Di poi, perché non si pensasse che Giosuè aveva agito in modo che rimanessero quelle popolazioni per sua propria decisione - diciamo così - umana, la Scrittura soggiunge: E il Signore lasciò queste popolazioni per non scacciarle subito e non le consegnò nelle mani di Giosuè, e poi continua: Queste sono le popolazioni che Giosuè lasciò allo scopo di mettere, per mezzo di esse, alla prova Israele, tutti coloro cioè che non avevano conosciuto tutte le guerre combattute contro Canaan; ma ciò avvenne [solo] allo scopo di addestrare alla guerra quelle generazioni dei figli di Israele. Era dunque questo il motivo di metterle alla prova: quello d’imparare a fare la guerra, cioè di fare la guerra con tanto spirito di religione e di ubbidienza alla legge di Dio quanto ne ebbero i loro padri, i quali anche nel combattere piacquero al Signore Dio, non perché la guerra sia qualcosa d’importante e desiderabile ma perché lo spirito di religione e la bontà è lodevole anche in guerra. L’espressione che segue: ma coloro che prima di essi non le avevano conosciute, che cosa vuol far capire se non quelle popolazioni, che non avevano conosciuto, nel far la guerra, coloro che vissero prima di costoro e che furono lasciate per la tentazione, cioè per la prova di costoro? Di poi, ricordando quali erano [quelle popolazioni] l’agiografo dice: le cinque satrapie degli stranieri che sono indicate più chiaramente nei Libri dei Re 22. Si chiamano satrapie una specie di piccoli regni a capo dei quali erano i satrapi, nome, questo, che in quelle regioni denota o denotava una carica precisa. Il narratore poi continua dicendo: Tutti i Cananei, i Sidonî, gli Evei, che abitavano il Libano dal monte Hermon fino a Laboemat. E avvenne che per mezzo di queste popolazioni fu messo alla prova Israele. È come se dicesse: Ciò avvenne, che Israele fu messo alla prova per mezzo dei popoli, per sapere se daranno ascolto ai comandamenti del Signore; non perché lo conoscesse Dio, il quale conosce ogni evento, anche i futuri 23, ma perché lo conoscessero essi e la loro coscienza e si vantassero o convincessero se dessero ascolto ai comandamenti ingiunti ai loro padri per mezzo di Mosè. Poiché dunque videro assai chiaramente di non aver ubbidito a Dio in mezzo a quelle popolazioni che erano state lasciate libere perché fossero tentati, cioè tribolati e messi alla prova, per questo motivo Dio disse non solo le cose che dall’angelo, che era stato loro inviato, furono riferite più chiaramente, ma anche quelle riferite poco prima dall’agiografo quando dice: Per il fatto che questo popolo ha abbandonato la mia alleanza che avevo prescritto ai loro padri e hanno rifiutato di ascoltare la mia voce, neppure io continuerò a scacciare alcuno [dei popoli] dinanzi a loro.

17. 4. Ma nel Deuteronomio si trova la seguente espressione proferita da Dio che parla di tali popoli nemici: Non li scaccerò in un solo anno, perché la regione non resti deserta e le bestie selvagge non si moltiplichino contro di te; io li scaccerò a poco a poco finché voi non diventerete assai numerosi e cresciate e conquisterete la regione 24. Il Signore avrebbe potuto mantenere questa sua promessa riguardo a coloro che fossero stati ubbidienti di modo che lo sterminio di quei popoli si sarebbe compiuto progressivamente con il crescere dei territori abitati dagli Israeliti. Quando cioè essi si fossero moltiplicati per non lasciare deserte le regioni dalle quali fossero stati sterminati i nemici. Sarebbe poi strano che l’espressione perché non si moltiplichino contro di te le bestie selvagge, non volesse significare in certo qual modo i desideri sfrenati e le passioni bestiali che di solito sono la conseguenza di una prosperità terrestre ottenuta troppo in fretta. Non è infatti vero che Dio avrebbe potuto sterminare gli uomini e non avrebbe potuto distruggere le bestie o piuttosto non permettere che nascessero.

La Scrittura chiama salvatore anche un uomo, mediante il quale Dio salva.

18. (3, 9) E il Signore suscitò un salvatore d’Israele e li liberò. Poi, come se gli fosse stato chiesto chi era il salvatore, l’agiografo dice: Gotoniele, figlio di Cenez. Qui dobbiamo prendere Gotoniele come caso accusativo, come se l’agiografo avesse detto " Gothonielem ". Si deve inoltre notare che chiama salvatore anche un uomo, mediante il quale Dio li salva. In effetti i figli di Israele innalzarono le loro grida al Signore e il Signore suscitò un salvatore per Israele, e li liberò, cioè Gotoniele, figlio di Cenez, fratello minore di Caleb, e li esaudì. Tra le diverse specie di quella usata qui è rara, poiché contiene anche quella che i Greci chiamano . La frase sarebbe più chiara se si ponesse prima l’espressione posta dopo, alla fine: e li esaudì, poiché l’ordine è il seguente: " E i figli d’Israele alzarono grida al Signore e li esaudì e il Signore suscitò un salvatore per Israele ". Viene dopo l’espressione qui interposta: e li salvò, e di poi si dice: Gotoniele - come se fosse un accusativo " Gothonielem " - figlio di Cenez. La frase sarebbe più chiara se fosse espressa così: " e il Signore suscitò come salvatore per Israele Gotoniele, figlio di Cenez, e li salvò ".

La pace sotto il giudice Gotoniele.

19. (3, 11) La Scrittura dichiara che sotto il giudice Gotoniele la terra promessa rimase in pace senza guerre per quarant’anni, lo stesso spazio di tempo di pace che all’inizio dell’Impero romano si poté avere soltanto sotto il re Numa Pompilio.

Se il giudice Aod mentì quando uccise Eglon.

20. (3, 19-20) A buon diritto possiamo chiederci se il giudice Aod mentì quando uccise Eglon re di Moab. Infatti nell’atto di tendergli un agguato da solo a solo per ucciderlo, gli disse: Ho un segreto per te, o re, affinché il re allontanasse da sé tutti coloro che stavano con lui. Dopo che ebbe fatto così, Aod gli disse di nuovo: Ho una parola di Dio per te, o re, ma ciò può non essere una menzogna dal momento che la Scrittura è solita chiamare con il termine " parola " anche un fatto; e così era realmente. Quanto all’espressione: parola di Dio, si deve prendere nel senso che a ordinargli di compiere quell’atto era stato Dio, il quale lo aveva suscitato quale salvatore del suo popolo, come in quei tempi era conveniente si compissero tali azioni per disposizione divina.

Il significato delle parole: il re Eglon era molto magro.

21. (3, 17. 22) Giustamente si pone il quesito per qual motivo [la Scrittura dice che] il re Eglon era molto magro, e che il grasso richiuse la ferita quando fu colpito. Ma si deve pensare che [la prima frase] è espressa con una locuzione da intendersi in senso contrario, come si dice lucus [bosco sacro] per il fatto che non vi traspare la luce [non luceat] e si risponde che c’è abbondanza di qualcosa che non c’è; come si dice che uno " benedisse " il re invece di " maledisse ", come sta scritto nel Libro dei Re a proposito di Nabot 25. E appunto nella traduzione [latina] non condotta sul testo dei Settanta, ma dall’ebraico, troviamo scritto così: Ora Eglon era molto grasso.

Ricapitolazione di quanto era stato omesso.

22. (3, 23) E Aod uscì fuori e passò in mezzo ai guardiani e chiuse le porte della stanza superiore dietro di sé e mise il chiavistello. È detto ora per ricapitolazione ciò che era stato omesso. Poiché si deve pensare che Aod fece questo prima e così discese dal piano superiore e passò tra le guardie.

I servi del re Eglon schiavarono una porta schiavata.

23. (3, 25) Può creare imbarazzo in qual modo i servi del re Eglon aprirono con una chiave la porta che Aod non aveva chiuso con la chiave oppure, se l’aveva chiusa a chiave, come mai non l’avesse portata via con sé in modo che quelli non avrebbero potuto aprirla neppure con la chiave. Perciò o fu portata un’altra chiave oppure la serratura era di tale genere che le porte si sarebbero potute chiudere senza chiave, ma non si sarebbero potute aprire senza di essa. Ci sono effettivamente serrature di tal genere, come quelle chiamate veruclatae, cioè munite di un semplice chiavistello.

La pace sotto il giudice Aod.

24. (3, 30) Sotto il giudice Aod nella terra promessa Israele ebbe ottanta anni di pace, cioè uno spazio di tempo doppio di quanto fu quello memorabile goduto dai Romani sotto il re Numa Pompilio.

Il giudice Sangar.

25. (3, 31) Dopo di lui ci fu Sangar, figlio di Anat. Egli sconfisse seicento stranieri senza contare i vitelli delle vacche; anch’egli salvò Israele. Possiamo porci il quesito come mai dopo Aod combatté per Israele costui e salvò Israele, dal momento che gli Israeliti non erano stati ridotti di nuovo in cattività, o sottomessi al giogo della schiavitù. Dobbiamo quindi intendere che è detto salvò non perché il nemico avesse fatto loro qualche torto, ma che non gli fu permesso di farne, poiché si deve credere che il nemico cominciasse a combattere gli Israeliti ma fu respinto con la vittoria di questo giudice. Non si capisce tuttavia che cosa significhi la frase: senza contare i vitelli delle vacche. Fece forse anche una strage di vacche nella battaglia e perciò l’agiografo dice che uccise seicento uomini oltre a quanto fece con le vacche da lui uccise? Ma perché vitelli? È forse un modo di dire abituale della lingua greca chiamare vitelli anche quelli che sono diventati più grandi? Si dice infatti che in Egitto si usa parlare così dalla maggior parte della gente, come tra noi vengono detti pulli [polli] i piccoli della gallina qualunque sia la loro età. La traduzione latina fatta sul testo ebraico non ha però l’espressione senza contare i vitelli delle vacche, come la traduzione da me citata redatta conforme al testo dei Settanta. La traduzione fatta dal testo ebraico reca: seicento uomini uccisi con il vomero dell’aratro, espressione assente dai Settanta.

Ciò che Barac risponde a Debora.

26. (4, 8) Che cosa vuol dire ciò che Barac risponde a Debora dicendo: Se verrai, ci andrò, ma se non verrai con me non ci andrò, poiché non so il giorno in cui il Signore renderà propizio con me il suo angelo, come se non avesse potuto udire il giorno da parte della profetessa? Nemmeno essa però gli indicò il giorno ma si avviò con lui. E che vuol dire: Il Signore mi rende propizio l’angelo? Viene forse dimostrato qui che anche le azioni degli angeli sono rese propizie, cioè sono aiutate dal Signore affinché riescano felici? Oppure mi rende propizio l’angelo è un modo di dire che significa " fa con me cose favorevoli per mezzo dell’angelo "?

Il Signore agisce nel cuore di Sisara.

27. (4, 15) Il Signore gettò il terrore in Sisara e in tutti i suoi carri. Ecco in qual modo la Scrittura ricorda che il Signore agisce nel cuore per far riuscire le cose allo scopo da lui stabilito. Poiché in realtà atterrì o stordì Sisara per consegnarlo nelle mani [d’Israele].

In che senso un uomo entra da una donna.

28. (4, 22) Quando Giaele, la donna che aveva ucciso Sisara, ebbe parlato con Barac che lo cercava, dello stesso Barac sta scritto che entrò da lei, bisogna badare che quando la Scrittura dice che un uomo entrò da una donna non ne segue che si debba pensare che si fosse anche messo a giacere con lei. Effettivamente la Scrittura dice assai spesso: entrò da essa volendo far intendere solo che si congiunse carnalmente con lei. Qui dunque l’espressione entrò da lei è usata in senso proprio, cioè " entrò in casa sua ", non perché con questa frase s’intenda il congiungimento carnale.

L’ordine delle parole per capire una frase.

29. (5, 7-8) Nel cantico di Debora si dice: Mancavano abitanti in Israele, mancavano finché sorse Debora, finché sorse la madre in Israele, scelsero come pani d’orzo nuovi dèi; allora conquistarono le città dei principi. Questa serie confusa di parole rende oscuro il testo e solleva una questione. In qual senso si potrebbe intendere: scelsero come pani d’orzo nuovi dèi; allora conquistarono le città dei principi? Come se Dio fosse stato loro favorevole per conquistare le città dei principi allorquando scelsero come il pane d’orzo nuovi dèi. Ma da altri passi delle Scritture sappiamo già come spesso ricorrono degli iperbati e come, correggendo la disposizione delle parole, queste tornano al loro posto e allora se ne spiega facilmente il senso. L’ordine delle parole è dunque il seguente: mancavano gli abitanti in Israele, scelsero come pane d’orzo nuove divinità, finché non sorse Debora, finché non sorse la madre in Israele; allora conquistarono le città dei principi.

Servizio del pane d’orzo.

30. (5, 8) Si può porre il quesito in qual senso è detto: scelsero nuovi dèi come il pane d’orzo, poiché il pane d’orzo pur essendo d’infima qualità a paragone del pane di grano, tuttavia serve anch’esso a nutrire ed è un alimento vitale, mentre i nuovi dèi che - al dire dell’agiografo - si erano scelti gli Israeliti che avevano abbandonato il Dio vivente, non possono considerarsi come alimento ma piuttosto veleno dell’anima. Forse questo paragone dev’essere inteso nel senso che è adatto ad esprimere il seguente pensiero: come il più delle volte succede che per il disgusto si rigetta ciò che si dovrebbe scegliere e si prova piacere con ciò che si dovrebbe rigettare, così per il vizio della loro volontà depravata, malata di languore e disgustata dal vero Dio, che pur era il loro Dio, gli Israeliti cercarono nei falsi dèi la sola novità disprezzando la verità. E così preferirono un alimento mortifero come se fosse un pane d’orzo senza pensare che, a causa di quel pane, sarebbero andati in perdizione, persuasi anzi che avrebbero perfino ricevuto la vita come se fosse un alimento sano, sebbene più grossolano. L’agiografo dunque si servì di quel paragone basandosi sulla loro opinione e sulla malattia del loro spirito anziché sulla verità. Gli dèi nuovi infatti non possono essere paragonati ad alcuno degli alimenti che conservano la vita.

La Scrittura è solita dare agli angeli nomi di uomini.

31. (6, 7-8. 11) E avvenne che quando i figli d’Israele alzarono il loro grido al Signore a motivo di Madian e il Signore mandò un profeta ai figli d’Israele, e disse loro. Perché non è detto il nome di questo profeta - cosa molto inusitata nelle Scritture - c’è un motivo occulto, ma non credo tuttavia che non ci sia alcun motivo. Poiché, però, dopo le parole con cui rimproverò la disubbidienza del popolo, la Scrittura prosegue dicendo: E venne l’angelo del Signore e si mise a sedere sotto la quercia che era in Efra 26, non è illogico ritenere che questo angelo è indicato sotto il nome di " uomo " di modo che, dopo aver pronunciato quelle parole, andò sotto la suddetta quercia e vi si pose a sedere. È risaputo infatti che la Scrittura è solita dare agli angeli il nome di uomini 27 sebbene non appaia né facilmente né chiaramente che un angelo sarebbe chiamato " profeta ", mentre leggiamo che è chiamato " angelo " 28 chi era un profeta. Tuttavia se sono conosciute le enunciazioni profetiche degli angeli, cioè i detti con cui essi predissero gli eventi futuri, perché un angelo non potrebbe denotarsi con il nome di " profeta "? Ciononostante, però, come ho detto, non si presenta alla mente una prova sicura, precisa ed evidente a proposito di questo fatto.

Parole dell’angelo a Gedeone.

32. (6, 12) Quando l’angelo dice a Gedeone: Il Signore sta con te, potente in forza, è un caso nominativo, non un vocativo e perciò vuol dire: Il Signore, potente in forza è con te, e non: tu, o potente.

L’angelo parla con l’autorità del Signore.

33. (6, 14) Bisogna notare che quando l’angelo parlò a Gedeone, disse come se parlasse con l’autorità del Signore: Ecco, non sono forse io che ti ho inviato? Chi era stato infatti a inviarlo se non chi gli aveva mandato l’angelo? Debora, al contrario, non dice a Barac: " Non te l’ho forse ordinato io? ", ma dice: Non te lo ha forse ordinato il Signore? 29 Qui invece non è detto: " Ecco, non ti ha inviato il Signore? ", ma: Ecco, non sono stato forse io a mandarti?

Risposta di Gedeone all’angelo.

34. (6, 15) Quando Gedeone risponde all’angelo: In me, o Signore, - cioè: " volgiti verso di me " - come potrò salvare Israele? Ecco qui, i miei mille uomini : sono i più insignificanti in Manasse, e si capisce che egli era a capo di mille uomini, che in greco la Scrittura chiama (" comandanti di mille uomini "). Oppure si tratta di qualche altra cosa?

La funzione di ministro sacro nel sacrificio.

35. (6, 18-22) Bisogna notare che Gedeone non dice all’angelo: "Ti offrirò un sacrificio ", ma gli dice: Offrirò il mio sacrificio e lo porrò alla tua presenza. Si deve quindi pensare che egli volesse offrire il sacrificio non all’angelo, ma per mezzo dell’angelo. Ciò lo dimostra assai chiaramente lo stesso angelo, che non accettò da lui il sacrificio come se fosse offerto a lui, ma gli disse: Prendi la carne e i pani azzimi e ponili su quella pietra e versaci sopra il brodo. Dopo che Gedeone ebbe fatto così, l’angelo del Signore stese la punta del bastone che teneva in mano e toccò la carne e i pani azzimi e un fuoco sprigionatosi dalla pietra si accese e divorò le carni e i pani azzimi. In tal modo lo stesso angelo eseguì la sua funzione di ministro sacro nel sacrificio offerto da Gedeone; poiché un ministro uomo, in quanto uomo, non avrebbe potuto mettere sotto l’offerta il fuoco acceso senza un miracolo, quel fuoco che accese, come angelo, in modo miracoloso. In conseguenza Gedeone conobbe allora che quello era l’angelo del Signore, poiché la Scrittura subito dopo dice: E Gedeone vide che era l’angelo del Signore 30. Prima dunque Gedeone aveva parlato con lui credendo di parlare con un uomo, che tuttavia credeva fosse un uomo di Dio, desiderando offrire il sacrificio davanti a lui, certo che sarebbe stato aiutato dalla presenza della sua santità.

Perché Gedeone osò offrire a Dio il sacrificio fuori del luogo che Dio aveva stabilito.

36. (6, 20) Uno si può chiedere perché Gedeone osò offrire a Dio il sacrificio fuori del luogo che Dio aveva stabilito, poiché Dio aveva proibito di offrirgli sacrifici fuori della tenda-santuario 31, al posto della quale fu poi costruito il tempio. Ma al tempo in cui viveva Gedeone, la tenda-santuario di Dio si trovava a Silo e perciò soltanto lì si sarebbe potuto offrire un sacrificio a norma della legge. Si deve tuttavia pensare che da principio Gedeone aveva creduto che l’angelo fosse un profeta e lo aveva consultato come Dio circa il sacrificio che voleva offrire; se glielo avesse proibito, non l’avrebbe certamente offerto; ma, siccome approvò e acconsentì che si facesse, Gedeone nel farlo seguì l’autorità di Dio. Poiché Dio stabilì quelle norme di legge in modo da non dare leggi a se stesso ma agli uomini. Di conseguenza si deve pensare che tutto ciò che Dio comandò contro quelle norme fu compiuto non da trasgressori ma piuttosto da persone pie e ubbidienti, come fece Abramo nell’immolare suo figlio 32. Allo stesso modo anche Elia offrì un sacrificio fuori della tenda-santuario del Signore per confutare vittoriosamente i sacerdoti degli idoli 33; si deve credere che fece quel sacrificio per ordine del Signore il quale glielo comandò, come a un profeta qual era, con una rivelazione e un’ispirazione. Senonché l’abitudine di offrire sacrifici fuori della tenda-santuario era divenuta tanto frequente che troviamo scritto che anche Salomone offriva sacrifici sulle alture e i suoi sacrifici non furono disapprovati 34. Tuttavia vengono biasimati i re che, pur avendo compiuto opere degne di lode, non distrussero le alture, ove il popolo aveva preso l’abitudine di offrire sacrifici contro la legge di Dio, mentre riceve una lode maggiore chi le aveva distrutte. In quelle circostanze Dio, piuttosto che vietarla, tollerava l’abitudine del suo popolo di offrire sacrifici fuori della tenda-santuario senza tuttavia offrirli agli dèi stranieri ma al Signore suo Dio. Il Signore esaudiva le preghiere di coloro che gli offrivano quei sacrifici. D’altra parte, quanto a ciò che fece Gedeone, chi non vede un disegno profetico nell’azione dell’angelo, disegno profetico in cui sarebbe stata glorificata quella pietra? Quel sacrificio non fu certamente offerto alla pietra, ma la Scrittura ricorda che da essa si sprigionò il fuoco, con il quale si consumasse il sacrificio. Così non solo con l’acqua, sgorgata nel deserto dalla roccia percossa con il bastone 35 ma anche con il fuoco è simboleggiato il dono dello Spirito Santo che Cristo nostro Signore versò con grande abbondanza sopra di noi. Così anche nel Vangelo questo è simboleggiato dall’acqua, nel passo dove lo stesso nostro Signore dice: Se uno ha sete, venga da me e berrà. Chi crede in me, come dice la Scrittura, da lui sgorgheranno fiumi di acqua viva; e l’Evangelista soggiunge: [Gesù] diceva questo a proposito dello Spirito che avrebbero ricevuto coloro che avrebbero creduto in lui 36. Quel dono fu simboleggiato anche nel fuoco, nel passo in cui venendo lui sopra i discepoli adunati [nel cenacolo] si legge: Furono viste da essi come delle lingue di fuoco che si separavano e si posavano su ciascuno di loro 37, e lo stesso Signore dice: Io sono venuto a portare il fuoco sulla terra 38.

Il significato delle parole: con la loro mano e con la loro lingua.

37. (7, 6) E così il numero di coloro che lambirono [l’acqua] con la loro mano, con la loro lingua, fu di trecento uomini. La maggior parte dei manoscritti latini non hanno con la loro mano, ma solo con la loro lingua, poiché in questo senso interpretarono la frase precedente come i cani, ma il testo greco porta tutte e due le espressioni: con la loro mano e con la loro lingua per far capire che prendevano di corsa l’acqua con la mano e se la versavano in bocca. E questo modo assomigliava a quello dei cani quando bevono l’acqua, i quali non facevano come i buoi che bevono posando la bocca sull’acqua che bevono, ma la portano rapidamente alla bocca con la lingua, come si crede facessero anche quegli uomini, ma con la mano versando in bocca l’acqua che raccoglievano con la lingua. Anche la traduzione fatta dall’ebraico esprime ciò più chiaramente con le seguenti parole: Il numero di coloro che lambivano l’acqua portandola con la mano alla bocca fu pertanto di trecento guerrieri. In realtà gli uomini non sono soliti bere assorbendo l’acqua con la lingua come fanno i cani senza servirsi della mano e senza che fosse stato ordinato loro di fare così. Ma, essendo scesi verso l’acqua, molti bevvero inginocchiandosi, cosa che risultava più facile ed esigeva una fatica minore; pochi, al contrario, poiché si erano abbassati senza piegare il ginocchio, bevvero come i cani, versandosi però con la mano l’acqua in bocca. Il loro numero, poiché erano trecento, ci fa comprendere il segno della croce a motivo della lettera greca T, con cui è indicato questo numero. E poiché il T è una lettera greca, da essa fu prefigurato che anche i gentili avrebbero di preferenza creduto nel Crocifisso. L’Apostolo perciò, sotto il nome di Greci denota tutti i gentili, quando dice: Prima ai Giudei e poi ai greci 39, e: Giudei e Greci 40, spesso menzionando così i circoncisi e gli incirconcisi, poiché tra le lingue dei gentili la lingua greca è talmente superiore alle altre che per mezzo di essa vengono denotati convenientemente tutti i gentili. Si deve notare che questo numero corrisponde anche a quello dei servi di Abram, che l’aiutarono a liberare il fratello dai nemici quando ebbe da Melchisedec la benedizione che prefigurava un grande mistero. Quel numero sorpassa di diciotto unità il numero dei soldati di Gedeone - poiché erano trecentodiciotto 41 - e mi sembra che sia un simbolo anche dell’epoca in cui si sarebbe compiuto quel mistero, cioè della terza epoca che doveva essere quella sotto il regno della grazia. Poiché la prima epoca è quella anteriore alla Legge, la seconda sotto il regno della Legge, la terza sotto il regno della grazia. Ciascuna di queste epoche è simboleggiata dal numero sei a causa della perfezione [di questo numero], poiché tre per sei fa diciotto. Ecco perché anche quella donna era stata malata diciotto anni e il Salvatore, vistala incurvata, la fece tornare dritta e la liberò dal legame con cui la teneva legata il diavolo, come indica il Vangelo 42. Poiché il fatto che furono messi alla prova quegli uomini per mezzo dei quali Gedeone riportasse la vittoria e perciò l’agiografo dice che rassomigliavano ai cani nell’atto di bere, indica che il Signore ha scelto le cose che [per il mondo] non hanno nobiltà né valore 43, poiché il cane è ritenuto un animale spregevole; e perciò nel Vangelo si dice: Non sta bene togliere il pane dei figli e darlo ai cani 44; e Davide, per mostrarsi un uomo da poco e spregevole, chiamò se stesso un cane parlando con Saul 45.

L’espressione oscura ha fatto nascere molte differenti traduzioni.

38. (7, 11) Che significa ciò che è detto di Gedeone: Discese lui e il suo servo Fara verso la parte dei cinquanta che erano nell’accampamento? Alcuni manoscritti latini hanno: Nel punto dell’accampamento in cui stavano cinquanta sentinelle; altri invece: Nella cinquantesima divisione dell’accampamento. Ciò si spiega per il fatto che l’espressione oscura ha fatto nascere molte differenti traduzioni. Si trattava però o della parte dell’accampamento sorvegliata da cinquanta sentinelle oppure, se si deve supporre che dei picchetti di cinquanta sentinelle erano di guardia intorno a tutto l’accampamento, quegli uomini scesero nel lato dove stavano quei cinquanta soldati.

Significato di una tavola di pane d’orzo.

39. (7, 13) Il fatto di quel soldato che raccontò al suo vicino il sogno - ascoltato da Gedeone - perché fosse rassicurato riguardo alla futura vittoria. Disse di aver visto una tavola di pane d’orzo nell’accampamento cozzare contro la tenda di Madian e travolgerla. Io penso che questo fatto si debba intendere come quello dei cani 46, poiché mediante le cose spregevoli del mondo - simboleggiate dalla tavola di pani d’orzo - il Salvatore avrebbe fatto arrossire di vergogna i superbi 47.

Il grido ordinato da Gedeone e il significato.

40. (7, 20) Il grido che Gedeone ordinò fosse innalzato dai suoi trecento soldati: La spada per il Signore e per Gedeone - Gedeone nel testo è dativo - significa che la spada avrebbe compiuto ciò che sarebbe stato gradito a Dio e a Gedeone.

Che cosa è l’Efod.

41. 1. (8, 26-27) Si è soliti chiedersi che cosa sia l’efud o l’efod. Se esso è un indumento sacerdotale, come dicono molti, o meglio un soprabito, detto in greco oppure - che in latino può tradursi piuttosto come " pallio " - allora a ragione si resta imbarazzati di fronte al problema di sapere in che modo Gedeone lo fece con una così grande quantità d’oro. Poiché il testo della Scrittura dice così: E avvenne che il peso degli anelli d’oro che Gedeone aveva richiesto fu di millesettecento sicli d’oro, oltre ai braccialetti, alle collane e alle vesti di porpora indossate dai re madianiti, oltre ai collari che ornavano il collo dei loro cammelli. E Gedeone ne fece un efud e lo eresse a Ofra e tutto Israele fornicò lì dietro a quello e divenne uno scandalo per Gedeone e per la sua casa. In qual modo poté essere confezionato un vestito con tanto oro? Ora, anche la madre di Samuele confezionò per suo figlio, come leggiamo [nella Scrittura] un " efud bar ", che alcuni hanno tradotto con " efud di lino ", quando lo offrì al Signore per farlo allevare nel tempio 48; in questo caso appare con maggiore evidenza che quello era una specie di indumento. Oppure è detto: lo eresse nella propria città, affinché da questo particolare comprendessimo che era stato fatto d’oro? Poiché la Scrittura non dice " lo collocò ", ma lo eresse perché era tanto solido e resistente da poter essere eretto, cioè stare diritto su una base.

41. 2. Poiché dunque Gedeone aveva compiuto questa azione proibita, tutto Israele fornicò dietro a quello, cioè seguendolo contro la legge di Dio. A questo punto non senza ragione possiamo chiederci in che senso la Scrittura chiama " fornicazione " ciò che faceva il popolo nel seguire e nel venerare quell’oggetto, dal momento che non era un idolo, cioè la statua di alcun dio falso e straniero, ma l’efod, cioè una delle cose sacre della tenda-santuario, che faceva parte dei paramenti sacerdotali. La spiegazione di ciò sta naturalmente nel fatto che fuori della tenda-santuario di Dio, ove erano le cose che Dio aveva ordinato che fossero fatte lì, non era lecito fare alcunché di simile fuori di lì. Ecco perché il testo della Scrittura continua dicendo: [l’efod] divenne così uno scandalo per Gedeone e per la sua casa, cioè avvenne che si allontanò da Dio ch’era stato offeso da lui, e in un certo senso era una specie di idolo poiché, come un qualunque oggetto fatto dalle mani dell’uomo, veniva venerato invece di Dio fuori della tenda-santuario di Dio, mentre le stesse cose che era stato comandato di fare nella tenda-santuario dovevano riferirsi al culto di Dio anziché considerarne qualcuna come Dio e venerarla come un’immagine di Dio.

41. 3. Senonché, per efod o " efud ", a causa della figura retorica che indica la parte per il tutto, si potrebbero intendere tutti gli oggetti che Gedeone stabilì nella sua città simili a quelli esistenti nella tenda-santuario di Dio per il culto di Dio; e proprio per questo, poiché l’efod è il distintivo della dignità sacerdotale spesso ricordato dalla Scrittura 49, si deduce che il peccato di Gedeone sarebbe consistito nell’aver costruito, al di fuori della tenda-santuario di Dio, un edificio somigliante ove fosse adorato Dio, non nell’aver costruito un efod d’oro massiccio perché venisse adorato, ma nell’aver formato, con l’oro stesso proveniente dal bottino di guerra, gli oggetti destinati all’ornamento e gli arredi del santuario, cose tutte che sarebbero denotate dall’efod in quanto - come ho detto - esso era l’indumento per eccellenza del paramento sacerdotale. In effetti era stato anche comandato che lo stesso efod, se si tratta dell’omerale del paramento sacerdotale, fosse confezionato non già di solo oro, ma anche con qualche lamina d’oro; poiché era stato ordinato da Dio che fosse confezionato con oro, lana viola, rossa e scarlatta e con bisso 50. Ma poiché i Settanta traduttori, dopo aver ricordato tutto ciò che Gedeone aveva preso dal bottino, esposero ciò così da concludere: e Gedeone lo ridusse in un efod, sembra che si siano espressi in modo da far pensare che l’efod fu confezionato con tutto ciò che era stato ricordato, potendosi intendere che anche in quel caso si tratta della figura retorica con cui si indica la parte per il tutto : in tal modo l’espressione: lo ridussero in un efod si potrebbe prendere nel senso " ne fece un efod ", oppure: " formò con esso un efod " senza usarlo completamente per l’efod, ma impiegando solo quanto ne era sufficiente. Orbene, nella traduzione fatta dall’ebraico così leggiamo: e Gedeone ne fece un efod. La parola efud che sta scritta nei Settanta si dice che nel testo ebraico si chiama efod. Non tutti i sacerdoti però usavano una siffatta mantellina, fatta d’oro, di lana violacea, di porpora, di scarlatto e di bisso, ma solo il sommo pontefice. Di conseguenza non era assolutamente come questo quello che abbiamo ricordato, confezionato dalla madre per Samuele, poiché quando fu offerto per essere allevato [nel santuario] non era il sommo sacerdote ma era appunto un ragazzo. Pertanto, come abbiamo detto, si chiama efud bar o meglio - come affermano coloro che sanno l’ebraico - efud bat, e significa " efod di lino ". Io però credo che Gedeone fece confezionare quella che era la veste e l’ornamento principale del sommo sacerdote, con il quale s’indicavano anche tutti gli altri lavori per il santuario che aveva fatto erigere nella sua città fuori del santuario di Dio. A causa di questo peccato l’efod divenne per lui e per la sua famiglia uno scandalo e in tal modo - come in seguito narra la Scrittura - andò in rovina una sì grande moltitudine di figli 51.

Perché la regione ebbe pace per quarant’anni al tempo di Gedeone.

42. (8, 27-28) Sorge ora un quesito non trascurabile, di sapere cioè in qual modo la regione ebbe pace per quarant’anni al tempo di Gedeone, quando dopo la vittoria con la quale liberò gli Ebrei, con l’oro del bottino fece l’idolo e tutta Israele si prostituì dietro ad esso e divenne per lui e per la sua famiglia motivo di scandalo. In qual modo dunque, dopo un sì grave peccato, commesso da Gedeone e dal popolo, la regione ebbe pace quarant’anni dal momento che la Scrittura è solita mostrare che, quando il popolo si prostituiva allontanandosi dal Signore Dio, esso non conquistava la pace ma anzi la perdeva, veniva assoggettato ai nemici anziché venire difeso dagli attacchi violenti dei nemici? Ma si deve pensare che la Scrittura, come è sua abitudine, dice con la prolessi, cioè con l’anticipazione, che Gedeone, trasgredendo la legge di Dio, con l’oro sottratto ai nemici sconfitti e umiliati, fece l’efod, poiché volle dire in un unico passo donde proveniva quell’oro e che cosa si fece con esso. Ma in seguito, alla fine dei giorni di Gedeone fu commesso questo peccato, allorché vennero come conseguenza anche i mali di cui parla la Scrittura, dopo aver ricordato per quanti anni al tempo di Gedeone ebbe pace il paese, anni che essa ricorda per ricapitolazione, cioè riprendendo l’ordine logico del racconto che prima aveva invertito parlando dello scandalo nato più tardi.

La fornicazione chiarissima del popolo dietro gli idoli.

43. (8, 33) E avvenne che, dopo la morte di Gedeone, i figli di Israele si allontanarono [da Dio] e si prostituirono seguendo i baalim e stabilirono per loro come alleanza Baalberit perché fosse il loro Dio. Si deve credere che non solo i Baal ma anche Baalberit sono degli idoli. Pertanto dopo la morte di Gedeone il popolo commise una trasgressione e una fornicazione più grave di quella commessa quando egli era in vita a causa dell’efod, poiché anche se quell’oggetto era stato formato illecitamente, ciononostante faceva parte degli oggetti sacri della tenda-santuario mentre questa fornicazione di seguire gli idoli non può essere giustificata neppure con la falsa religione paterna. Perciò anche se quell’efod non fu formato alla fine del tempo di Gedeone ma prima, Dio lo tollerò con tanta pazienza, che la pace continuò a regnare nel paese poiché sebbene fosse stato fatto ciò che Dio aveva proibito, tuttavia [il popolo con lui] non si era molto allontanato da lui che aveva ordinato di fare un simile oggetto nel suo santuario e in suo onore. Ora invece Dio non volle lasciare senza castigo peccati più gravi e la fornicazione chiarissima del popolo dietro gli idoli.

L’apologo in cui il ramno è pregato di regnare sugli alberi.

44. (9, 14-15) Non è affatto chiaro il senso del passo in cui il ramno, cioè una specie di rovo, nell’apologo è fatto comparire a dire a tutti gli alberi che vanno a pregare di regnare su di loro: Se davvero avete l’intenzione che io regni su di voi, venite, confidate nella mia protezione; ma se non [volete], esca fuori dal ramno un fuoco e divori i cedri del Libano, ma è reso chiaro introducendo una virgola. Poiché non deve leggersi così: e se non uscisse il fuoco dal ramno, ma dopo queste parole si deve porre una virgola, così: E se non, e poi far seguire: esca il fuoco dal ramno, cioè: " Ma se non confidate nella sua protezione ", oppure: " E se davvero non mi ungete per regnare su di voi, esca il fuoco dal ramno e divori i cedri del Libano ". Sono infatti parole di chi minaccia che cosa potrebbe fare, se rifiutassero che regnasse sopra di essi. Ma siccome non dice: " il fuoco del ramno divorerà i cedri del Libano ", ma dice: esca il fuoco e divori, il senso è più oscuro che nel caso fosse sottintesa la sola punteggiatura. Risulta infatti una minaccia più forte e, in un certo qual modo, più energica ed efficace, se uno dicesse: " se non vuoi fare ciò che voglio io, la mia collera infierisca contro di te ", cioè " si scateni all’istante, perché la trattengo? ", che se dicesse " si scatenerà " minacciando una vendetta avvenire con il modo futuro.

In che senso Dio invia un angelo maligno.

45. (9, 23) Dio poi inviò uno spirito maligno tra Abimelek e i signori di Sichem. Non è facile precisare se la parola inviò indichi un comando o un permesso di Dio. La parola usata qui è " lasciò andare " [emisit], il testo greco ha [mandò fuori, inviò] che si trova anche nei Salmi ove si legge: Invia la tua luce 52. Sennonché in alcuni passi i nostri traduttori, anche ove nel testo greco c’è , hanno tradotto: misit " inviò " e non emisit " lasciò andare ". Può anche intendersi nel senso che Dio inviò uno spirito maligno come se avesse inviato lo spirito che desiderava andare tra quelle persone, cioè come se avesse dato allo spirito maligno la facoltà di turbare la loro pace. Non si è considerato infatti illogico che sia anche inviato dal Signore lo spirito maligno per il giusto dovere di dare un castigo, tanto che alcuni hanno tradotto il verbo perfino con immisit [fece entrare].

Contenuto del messaggio inviato da Zabul, ad Abimelek.

46. (9, 32-33) Il messaggio inviato da Zabul, comandante della città di Sichem, ai messaggeri di Abimelek contiene anche le seguenti parole: " E ora lèvati di nottetempo tu e il popolo che sta con te e tendi un’imboscata in campagna. E avverrà che la mattina, al sorgere del sole ti affretterai e farai irruzione nella città ". Alcuni manoscritti hanno la parola latina maturabis [ti affretterai], altri invece manicabis [ti alzerai di buon mattino], il greco usa un termine che non si potrebbe esprimere con una sola parola, e cioè diluculo surge [àlzati sul far del giorno]. E forse, a questo proposito, potrebbe essere stato usato il verbo maturabis [ti affretterai] per esprimere il tempo del mattino, sebbene si sia soliti usare questo termine anche per qualunque altro tempo, quando occorre affrettare l’esecuzione di qualche faccenda. Quanto però a manicabis non mi risulta che sia un verbo latino. Mi stupisce il fatto che, avendo l’agiografo detto: appena sorge il sole, aggiunga: ti leverai sul far del giorno [diluculo], poiché l’alba, che in greco si dice , indica il tempo antecedente al sorgere del sole, come ormai si dice assai comunemente, quando comincia ad albeggiare. Pertanto il termine mane [di mattina] usato dal narratore dev’essere inteso nello stesso senso di diluculum [l’alba]. L’agiografo poi aggiunge: appena si leva il sole, per dire che l’ordine doveva essere compiuto non dopo la levata del sole ma quando fosse apparso il chiarore del sole al suo levarsi. Poiché l’alba non comincia ad apparire nel suo chiarore se non da quando la luce del sole tornando verso di essa abbia raggiunto la zona del cielo che vediamo ad Oriente. Di qui deriva il fatto che anche nel Vangelo, raccontando il medesimo fatto, un Evangelista lo dice avvenuto sul far del giorno, quando era ancora buio 53, un altro Evangelista dice invece che avvenne al levar del sole 54, poiché la stessa luce dell’alba, per quanto fioca fosse,derivava naturalmente dal sole al suo sorgere, cioè si avvicinava al suo levarsi e diffondeva il suo splendore con l’approssimarsi della sua presenza. Questa luce che alcuni ignoranti della dottrina cristiana non credono che sia quella del sole, ma quella creata al principio prima che Dio il quarto giorno creasse il sole.

Sulle parole: figlio del padre di suo fratello.

47. (10, 1) E dopo Abimelek sorse, per salvare Israele, Tola, figlio di Fua, figlio del padre di suo fratello, uomo [della tribù] di Issacar. Il redattore chiama figlio del padre di suo fratello il figlio di suo zio paterno, quando si sarebbe detto in modo più ordinato, più ordinario e più chiaro: " figlio del fratello di suo padre ", poiché era figlio di suo zio paterno, come si trova più chiaramente espresso nella traduzione fatta dall’ebraico. Di conseguenza l’espressione patris fratris non è declinazione di quella che al nominativo suona pater fratris [padre del fratello], ma di quella che suona patris frater [fratello del padre] che vuol dire " zio paterno ". Poiché, sia che si dica " il padre del fratello ", con " padre " al nominativo, sia che si dica " fratello del padre " con " padre " al genitivo, l’espressione fa sempre patris fratris [figlio del fratello del padre]. Ora però si presenta un altro interrogativo: in che modo era un uomo di Issacar, cioè della tribù di Issacar, dal momento che Abimelek aveva avuto per padre Gedeone, che era della tribù di Manasse? In che modo dunque Fua e Gedeone erano fratelli, di guisa che Fua poté essere zio paterno di Abimelek e il figlio di questi Tola, secondo questo racconto, successe allo stesso Abimelek? Gedeone e Fua poterono quindi avere una stessa madre sebbene fossero nati da padri diversi e sarebbero stati fratelli in quanto figli della stessa madre ma non dello stesso padre. Infatti le donne d’una tribù erano solite maritarsi con uomini di un’altra tribù. Ecco perché Saul, pur essendo della tribù di Beniamino, diede sua figlia a Davide, della tribù di Giuda 55; così anche il sacerdote Ioiade, naturalmente uomo della tribù di Levi, sposò la figlia del re Iora, uomo della tribù di Giuda 56. Ecco perché nel Vangelo leggiamo che Elisabetta e Maria erano parenti 57, sebbene Elisabetta fosse discendente da Aronne. Da qui si comprende che una donna della tribù di Levi e discendente da Aronne si maritò con un uomo della tribù di Giuda, di modo che tra tutte e due risultò la parentela e così la carne del Signore trasse origine non solo dalla stirpe regale ma anche da quella sacerdotale.

Le parole che Iefte manda a dire al re dei figli di Ammon.

48. (11, 24) Tra le altre cose, che Iefte per mezzo di messaggeri manda a dire al re dei figli di Ammon, dice anche questo: Non erediterai forse tutto ciò che il tuo dio Camos ti ha fatto ereditare e noi non erediteremo forse tutto ciò che ci ha fatto ereditare il Signore Dio nostro da parte vostra? Alcuni traduttori latini hanno pensato di dover tradurre questo passo dicendo: Non possederai forse tutto ciò che ti ha dato in eredità il tuo dio Camos? Da queste parole può sembrare che Iefte confermi che questo dio, chiamato Camos, avesse potuto dare qualcosa in eredità ai suoi adoratori. Alcuni altri, invece, hanno tradotto così: Non possederai forse tutto ciò che possedette il tuo dio Camos? E ciò viene a dire come se avesse potuto possedere qualcosa. Oppure l’espressione vuol dire che i popoli sono posti sotto il potere degli angeli, come è detto nel cantico di Mosè, servo di Dio 58? si chiamava forse Camos l’angelo sotto il potere del quale stavano i figli di Ammon? Chi oserebbe affermarlo, dal momento che si potrebbe pensare che la frase esprime l’opinione di quel re, poiché credeva che il proprio dio possedeva ciò o lo aveva dato a lui in possesso? Questo senso appare più evidente nelle seguenti parole del testo greco: Non erediterai forse tutto ciò che ereditò per te il tuo dio Camos? In tal modo con la parola per te [tibi] usata qui s’intende come se fosse detto: " come sembra a te ". Ereditò infatti per te che pensi così, non che il tuo dio avesse potuto ereditare qualcosa. Infine nella frase che segue: e tutto ciò che ereditò il Signore, nostro Dio, l’agiografo non dice: " ereditò per noi ", come se dicesse: " come sembra a noi ", ma ereditò davvero da parte vostra, poiché lo sottrasse loro e lo diede a questi: Ciò - dice - noi erediteremo.

La figlia di Iefte offerta in olocausto a Dio dal padre.

49. 1. (11, 29-35) A proposito della figlia di Iefte offerta in olocausto a Dio dal padre, alcuni sono soliti porsi un problema importante e assai difficile. Nella guerra il padre aveva fatto il voto che, se avesse vinto, avrebbe offerto in olocausto la persona che uscendo dalla propria casa gli si fosse presentata. Fatto il voto riportò la vittoria e presentataglisi la propria figlia mantenne la promessa fatta nel voto. Questo problema se lo pongono alcuni desiderosi di sapere che significato ha questo fatto e cercano di risolverlo con spirito di fede, mentre se lo pongono alcuni altri che però sono contrari alle Sacre Scritture per blasfema empietà e le accusano soprattutto perché il Dio della Legge e dei Profeti si sarebbe compiaciuto anche dei sacrifici umani. Alle loro copiose obiezioni rispondiamo in primo luogo che il Dio della Legge e dei Profeti e, per dirlo più chiaramente, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe 59 non si compiacque nemmeno dei sacrifici in cui venivano offerti in olocausto animali ma, poiché erano riti di significato simbolico e come ombre delle realtà future, Dio volle indicarci le realtà simboleggiate da quei sacrifici; Dio volle inoltre indicarci che anche questo fu un buon motivo perché quei sacrifici fossero cambiati e adesso non fosse comandato, anzi fosse proibito di offrirli, affinché non credessimo che Dio si compiacesse davvero di quei sacrifici secondo un sentimento carnale.

49. 2. Ma a ragione si pone il quesito se era conveniente indicare simbolicamente i beni futuri anche mediante i sacrifici umani. Non è che l’immolazione, per questo motivo, di vittime umane, presto o tardi destinate a morire, dovrebbe ispirarci orrore e terrore, se queste vittime votatesi volontariamente con gioia a subire un simile sacrificio acquistassero con ciò presso Dio il premio eterno. Ma se questo fosse vero, non dispiacerebbe a Dio questo genere di sacrifici; ora invece la medesima Scrittura ci attesta che siffatti sacrifici non gli sono affatto graditi. Infatti, sebbene avesse voluto e comandato che tutti i primogeniti fossero consacrati a lui e che fossero suoi, volle tuttavia che i primogeniti degli uomini fossero riscattati 60, perché non credessero di dover immolare a Dio i propri figli che avessero avuti per primi. Dio inoltre espone ciò più chiaramente per il fatto che riprova i sacrifici umani in modo da detestarli e proibirli negli altri popoli e da comandare al suo popolo di non osare imitarli. Quando però - è detto - il Signore tuo Dio avrà sterminato dalla tua presenza le nazioni verso le quali tu entri per ereditare la loro terra lontano dalla tua faccia e li avrai ricevuti in eredità ed abiterai sulla loro terra, guàrdati di cercare di seguirli dopo che saranno stati sterminati lontano dalla tua faccia; non cercherai i loro dèi dicendo: Come queste nazioni agiscono riguardo ai loro dèi, così agirò anch’io. Tu non agirai così riguardo al Signore tuo Dio; poiché le pratiche abominevoli che il Signore detesta esse le hanno compiute per i loro dèi, poiché bruciano con il fuoco i loro figli e le loro figlie per i loro dèi 61.

49. 3. Con i suddetti testi della Sacra Scrittura, per non citarne altri di tal genere, che cosa può dimostrarsi con maggiore evidenza che Dio, dal quale questa Scrittura è stata data al genere umano, non solo non si compiace di siffatti sacrifici, per cui vengono immolati degli uomini, ma li odia? Si compiace invece senza dubbio e premia quei sacrifici quando un giusto, soffrendo con pazienza l’ingiustizia fino alla morte, combatte recisamente per la verità o viene ucciso dai nemici offesi da lui nel difendere la giustizia, rendendo loro bene per male, cioè amore per odio. È questo il sangue che il Signore chiama " giusto " a cominciare da quello di Abele fino a quello di Zaccaria 62, ma soprattutto perché versò lui stesso il suo sangue per noi e offrì se stesso come sacrificio a Dio e certamente lo offrì in modo che dai suoi nemici fu ucciso perché difendeva la verità. Seguendo il suo esempio migliaia di martiri lottarono in difesa della verità fino alla morte e furono immolati dai nemici inferociti. Di essi la Scrittura dice: Li ha saggiati come oro nel crogiuolo e li ha graditi come olocausto 63, e perciò l’Apostolo dice: poiché io sto ormai per essere immolato 64.

49. 4. Iefte però di sua figlia non fece un olocausto al Signore in questo modo, ma nel modo in cui era stato comandato di offrire gli animali ed era stato proibito di offrire in sacrificio gli uomini. Questa azione [di Iefte] sembra piuttosto simile a quella compiuta da Abramo, come gli era stato ordinato da Dio con un comando particolare 65 non in forza di una legge generale con cui aveva ordinato che gli si offrissero talora sacrifici simili, anzi aveva anche proibito assolutamente che gli fossero offerti. C’è quindi una differenza tra l’azione compiuta da Iefte e quella compiuta da Abramo, poiché questi offrì il figlio in sacrificio in forza d’un comando, mentre Iefte fece ciò che non solo era proibito dalla legge ma non era stato imposto con alcun ordine particolare. Dio inoltre non solo in seguito con la sua legge ma anche allora con lo stesso figlio di Abramo dimostrò come non si compiacesse di siffatti sacrifici, quando trattenne il padre - del quale aveva messo alla prova la fede dandogli quell’ordine - dall’uccidere il figlio e gli presentò un ariete con cui compiere lecitamente il sacrificio secondo la consuetudine degli antichi rispondente a quei tempi.

49. 5. Se però ciò crea a qualcuno il problema di sapere come mai Abramo poté credere con spirito religioso che Dio si compiacesse di siffatti sacrifici se vengono offerti a Dio in modo illecito e perciò pensa che anche Iefte credette che un simile sacrificio potesse essere gradito a Dio, consideri anzitutto che una cosa è fare un voto spontaneamente, un’altra è ubbidire a uno che comanda. Poiché se a un servo si comanda qualcosa di contrario al costume stabilito in una casa dal padrone e lo fa con lodevole ubbidienza, non per questo non dev’essere castigato se oserà farlo spontaneamente. D’altra parte Abramo aveva motivo di credere che non doveva risparmiare il figlio a cagione del supremo comando di Dio, pur non credendo che Dio accettasse con piacere siffatte vittime, ma credendo che gli aveva dato quel comando per risuscitare il figlio ucciso e con ciò dimostrare qualcosa d’importante in quanto Dio sapiente. A proposito di lui si legge ciò anche nella Lettera intitolata agli Ebrei e se ne loda la fede poiché aveva creduto che Dio avrebbe potuto risuscitare suo figlio 66. Iefte invece, senza che Dio né lo comandasse né lo chiedesse, anzi contro il precetto della legge di Dio promise in voto un sacrificio umano. Poiché così sta scritto: Iefte fece voto al Signore e disse: " Se metterai nelle mie mani i figli di Ammon e chiunque uscirà dalle porte di casa mia [per venire] incontro a me quando tornerò in pace dai figli di Ammon, sarà per il Signore e glielo offrirò in olocausto ".

49. 6. Con queste parole non fece di certo il voto di offrire in olocausto un animale che potesse offrire in olocausto secondo la legge; poiché non è né era abituale che ai capitani tornanti vittoriosi dalla guerra andassero incontro degli animali. Quanto agli animali muti i cani sono soliti correre incontro ai loro padroni ruzzando con lusinghevoli gesti di ossequiosità, ma Iefte non avrebbe potuto pensare ai cani nel fare il suo voto, per non dare l’impressione di aver promesso in voto qualcosa non solo di illecito ma anche di spregevole e di impuro secondo la legge, offendendo così Dio. E non disse: " qualunque cosa uscirà dalle porte della mia casa incontro a me lo offrirò in olocausto ", ma disse: chiunque uscirà lo offrirò. Dicendo così non pensò di certo ad altro che a un essere umano, forse tuttavia non alla sua unica figlia. Sennonché in un momento di tanta gloria per suo padre chi l’avrebbe potuta precedere nel corrergli incontro se non forse la moglie? Poiché quanto al fatto che non disse: quaecumque [chiunque, al femminile], bensì quicumque [chiunque, al maschile] uscirà dalle porte della mia casa, la Scrittura suole usare il genere maschile per qualsiasi genere, come a proposito di Abramo che dice: si allontanò dal suo morto 67, sebbene la morta fosse sua moglie.

49. 7. Ora, sembra che la Scrittura non abbia pronunciato alcun giudizio su questo voto e su questo fatto, come invece lo pronunciò assai chiaramente a proposito di Abramo quando offrì in sacrificio il figlio per ordine di Dio, ma l’azione di Iefte l’ha solo lasciata scritta perché fosse giudicata dai lettori; così pure a proposito dell’azione di Giuda, figlio di Giacobbe, quando si unì carnalmente alla sua nuora, senza saperlo - è vero - ma per quanto dipendeva da lui fornicò con lei che egli aveva creduto fosse una meretrice 68, la Scrittura né l’approvò né la riprovò, ma lasciò che venisse giudicata ed esaminata in base alla giustizia e alla legge di Dio. Poiché dunque di quell’azione di Iefte la Scrittura di Dio non pronunciò un giudizio né in senso favorevole né in senso contrario, affinché la nostra intelligenza si sottoponesse continuamente a uno sforzo di riflessione nel giudicare, potremmo dire adesso che quel voto dispiacque a Dio e che perciò fu indotto a castigare Iefte facendogli andare incontro proprio l’unica sua figlia, poiché se quello lo avesse sperato e voluto, non si sarebbe stracciato le vesti appena lo vide e avrebbe detto: Ahimé, figlia mia, mi hai messo in un impaccio, un inciampo sei divenuta agli occhi miei. Inoltre, pur avendo il padre dato alla figlia una proroga tanto lunga di sessanta giorni, il Signore non gli impedì di uccidere l’unica figlia carissima, come aveva impedito Abramo, fino a quando compiendo il sacrificio promesso in voto diede da se stesso un colpo al suo cuore con la perdita assai grave della figlia 69, senza tuttavia riuscire a placare affatto Dio con l’immolazione d’una persona umana. Potremmo perciò dire che il padre fu punito [per il suo peccato] in questo modo, perché non fosse lasciato senza castigo l’esempio di un voto di tal crudeltà con la conseguenza che gli uomini avrebbero potuto pensare che promettevano in voto a Dio qualcosa d’importante quando gli facessero voto di offrirgli vittime umane e - cosa più orribile - i propri figli, o che i medesimi voti non fossero veri ma piuttosto delle finzioni, come se coloro che avevano fatto il voto, rifacendosi all’esempio di Abramo, sperassero che Dio avrebbe impedito il compimento di siffatti voti.

49. 8. Potremmo - dico - affermare ciò, se non fossimo impediti di pensare così da due testi soprattutto della Sacra Scrittura che ci spingono ad esaminare con maggiore attenzione e a considerare con maggior cautela, per quanto ci aiuterà il Signore, questo avvenimento tramandato alla posterità nei libri di sì grande autorità, per non pronunciare un giudizio temerario né favorevole né contrario. Uno dei testi [della Scrittura] è quello della Lettera agli Ebrei, in cui Iefte è menzionato tra personaggi talmente qualificati che non oso biasimarlo come colpevole; in quel testo sta scritto: E che cosa potrei dire ancora? Poiché mi manca il tempo per parlare di Gedeone, di Barac, di Sansone, di Iefte, di Davide, di Samuele e dei Profeti, i quali con la fede conquistarono regni, praticando la giustizia, ottennero quanto Dio aveva loro promesso 70. L’altro testo è quello in cui si narrano queste azioni a proposito di lui, che cioè fece un siffatto voto e lo adempì; la Scrittura prima di narrare questo fatto dice: Lo Spirito del Signore scese su Iefte, [il quale] percorse Galaad e Manasse, attraverso la vedetta di Galaad [giunse] alle spalle degli Ammoniti e Iefte fece un voto al Signore 71, e tutto il resto relativo al voto, in modo che tutto ciò che avvenne in seguito pare debba interpretarsi come azioni dello Spirito del Signore che era sceso su di lui. Questi testi ci costringono a ricercare per qual motivo avvenne ciò che avvenne anziché a riprovare il fatto.

49. 9. Anzitutto il testo della Lettera agli Ebrei ricordato da me, tra i personaggi degni di lode lì menzionati, ricorda non solo Iefte ma anche Gedeone, del quale la Scrittura dice ugualmente: Allora lo Spirito del Signore rafforzò Gedeone 72. Con tutto ciò non solo non possiamo lodare, ma anche, poiché la Scrittura pronuncia un giudizio contrario su di essa, non esitiamo a riprovare la sua azione di aver confezionato con l’oro del bottino l’efud e tutto Israele si prostituì nel seguirlo e divenne motivo di rovina per la casa di Gedeone 73 ma ciononostante da ciò non deriva alcuna offesa allo Spirito del Signore che lo aveva reso tanto forte che vinse con sì gran facilità i nemici del suo popolo. Perché allora Gedeone è menzionato tra coloro che in virtù della fede conquistarono regni praticando la giustizia, se non perché la Sacra Scrittura, che ne loda per davvero la fede e la giustizia, non per questo si trattiene dal biasimare davvero anche i peccati se ne conosce alcuni o giudica doveroso riprovarli? Infatti, anche per il fatto che lo stesso Gedeone tentò Dio con il vello chiedendogli un segno, come disse lui stesso 74, non so se non trasgredì il precetto, enunciato dalla Scrittura con la seguente espressione: Non tenterai il Signore Dio tuo 75. Tuttavia, pur essendo stato tentato, Dio mostrò ciò che voleva predire, cioè con il vello bagnato di rugiada e con l’aia asciutta, tutto all’intorno voleva prefigurare prima il popolo d’Israele, dove si trovavano i santi con la grazia celeste come se fosse una pioggia spirituale, e poi con l’aia bagnata e il vello asciutto prefigurare la Chiesa diffusa in tutto il mondo, la quale possiede la grazia celeste non già nel vello come in un velo, ma in modo manifesto, una volta che il precedente popolo si era allontanato, per così dire, dalla rugiada della medesima grazia e si era essiccato. Tuttavia non senza ragione egli meritò una testimonianza così esimia nella Lettera agli Ebrei fra i fedeli cooperatori di giustizia a causa della sua vita onesta e fedele, in cui si deve credere che morisse.

49. 10. Siccome però, dopo che la Scrittura dice: E su Iefte scese lo Spirito del Signore, racconta immediatamente che fece quel voto, vinse i nemici e mantenne la promessa fatta in voto, non saprei se tutto ciò debba attribuirsi allo Spirito del Signore in modo che anche questo sacrificio debba considerarsi come se il Signore avesse comandato di offrirlo allo stesso modo che era stato ordinato da Abramo. Poiché a proposito di Gedeone potrebbe essere addotta questa differenza che, dopo il peccato commesso da lui, allorché costruì l’efud al quale si prostituì tutto quanto il popolo, la Scrittura non menziona alcun suo successo, mentre dopo che Iefte fece il voto ne seguì come effetto quella straordinaria vittoria per conseguire la quale aveva fatto il voto e per averla conseguita adempì quanto aveva promesso. Bisogna dunque osservare di nuovo che Gedeone ottenne la salvezza per il popolo vincendo e sbaragliando i nemici con una grande strage, quantunque non dopo aver fatto l’efod, tuttavia dopo aver tentato il Signore, che di certo è un peccato; la Scrittura infatti dice così: E Gedeone disse al Signore: " Non si adiri contro di me il tuo sdegno e parlerò ancora una sola volta e ancora una sola volta ti tenterò con la prova del vello " 76. Aveva infatti paura della collera di Dio poiché sapeva di commettere un peccato con il tentare Dio, come è proibito da Dio in modo assolutamente chiaro nella sua legge 77. Tuttavia a questo suo peccato fece seguito un miracolo assai chiaramente manifesto e la felicità d’una vittoria senza uguale che assicurò la salvezza del popolo. Poiché Dio aveva stabilito già di venire in aiuto al popolo oppresso duramente e si serviva dell’animo non solo fedele e devoto ma anche alquanto difettoso e peccatore di questo capo che aveva scelto per questa impresa e per predire ciò che voleva e per compiere quel che aveva detto.

49. 11. Dio infatti concesse al suo popolo molti benefici, non solo per mezzo di questi personaggi i quali, anche se peccarono, sono menzionati tra i giusti, ma perfino per mezzo dello stesso Saul che, pur riprovato in ogni modo, era stato investito dallo Spirito del Signore e aveva profetizzato, e non quando agiva rettamente, ma quando sfogava il suo furore contro Davide 78. Poiché lo Spirito del Signore ciò che decide di fare lo effettua non solo per mezzo dei buoni ma anche per mezzo dei cattivi, per mezzo sia di coloro che lo sanno, sia di coloro che non lo sanno. Perfino mediante Caifa, il più accanito persecutore del Signore, il quale, senza sapere che cosa stesse dicendo, proferì la famosa profezia che Cristo dovesse morire per la nazione 79. Chi infatti se non lo Spirito del Signore, pensando di predire realtà future, al Giudice Gedeone che voleva tentare il Signore e non credeva a ciò che per suo mezzo gli era stato già detto riguardo alla salvezza del popolo, fece venire in mente [di chiedere] proprio la prova del vello prima bagnato e poi asciutto, la prova dell’aia prima asciutta e poi bagnata? La scarsezza di fede deve essere attribuita alla sua debolezza e dev’essere considerata un suo peccato; al contrario il fatto che Dio si servisse di una siffatta disposizione del suo animo per la realtà che si doveva prefigurare simbolicamente per il genere umano si deve intendere che si riferisce alla misericordia e alla mirabile provvidenza di Dio.

49. 12. Se però uno dirà che Gedeone fece e disse tutto consapevolmente per una rivelazione profetica, perché per mezzo di lui fossero mostrati quei tali segni e non mancò di fede e credette ciò che Dio gli aveva già promesso, ma volle tentare Dio mediante un’azione profetica e pertanto il suo atto di tentare Dio non fu colpevole come l’inganno di Giacobbe 80 e la frase con cui si rivolge al Signore: Non divampi la tua ira contro di me 81 non è l’espressione della paura che egli aveva della collera del Signore ma della fiducia che Dio non si sarebbe adirato dal momento che compiva un’azione che, come profeta, pensava doversi compiere avendogliela ispirata lo Spirito Santo; se uno la pensa così, dica pure ciò che gli pare, purché non osi giustificare - quale che sia il suo significato - il fatto dell’efud dicendo che non è un peccato, mentre è biasimato dalla stessa Scrittura. Poiché si ha l’impressione che fosse stata - per così dire - un’iniziativa presa di proprio arbitrio da Gedeone il fatto che trecento guerrieri, aventi, a causa dello stesso numero, relazione con il segno della croce, presero delle brocche di terracotta e vi nascosero dentro delle fiaccole accese e dopo essere state infrante le brocche le numerose torce accese atterrirono una sì grande moltitudine di nemici: la Scrittura infatti non dice che fosse Dio a spingerlo a fare quell’azione. Ciononostante chi, se non il Signore, ispirò la sua mente e gli fece prendere quella decisione per compiere un sì gran prodigio? Il Signore fece comprendere in anticipo con quel simbolo che i suoi santi avrebbero portato il tesoro della luce del Vangelo in vasi di creta, come dice l’Apostolo: Noi però portiamo in noi questo tesoro in vasi di terracotta 82; nell’atto in cui i santi subivano il martirio, come i vasi spezzati, risplendette più sfolgorante la loro gloria, che vinse gli empi nemici della predicazione del Vangelo con lo splendore di Cristo da essi inaspettato.

49. 13. Lo Spirito di Dio quindi effettuò, attraverso fatti simbolici, la predizione e la divulgazione delle realtà future mediante persone sia consapevoli che inconsapevoli al tempo dei Profeti 83, ma non perciò si deve dire che i loro peccati non erano peccati, perché anche Dio, il quale sa servirsi anche dei nostri mali, si servì altresì degli stessi loro peccati per indicare attraverso simboli ciò che ha voluto. Di conseguenza se non era peccato fare o compiere il voto di sacrificare sia una persona qualsiasi sia addirittura un membro della propria famiglia, poiché era simbolo di qualcosa d’importante e spirituale, senza ragione Dio proibì e dichiarò di odiare siffatti sacrifici in quanto anche quelli che ordinò di fare sono registrati naturalmente per indicare simbolicamente una particolare realtà spirituale e importante. E allora perché avrebbe dovuto proibirli, dal momento che a causa del medesimo significato prefigurativo per il quale anch’essi si compivano lecitamente nondimeno potevano essere fatti lecitamente? L’unica ragione è che i sacrifici umani, che prefigurano qualcosa d’importante, conviene credere che il Signore non li gradisce quando uno non viene ucciso dai nemici a causa della giustizia, poiché ha voluto vivere con rettitudine e non ha voluto commettere il peccato, ma quando una persona viene immolata alla maniera di un animale da un’altra persona come una vittima eccellente.

49. 14. Qualcuno potrebbe avanzare un’ipotesi come la seguente: Poiché le vittime di animali, per il fatto stesso che erano diventate abituali, sebbene dalle persone che ne comprendevano bene lo scopo fossero considerate anche esse dirette alla prefigurazioni di realtà spirituali, tuttavia rendevano gli uomini meno attenti a indagare il mistero di Cristo e della Chiesa, e per questo motivo Dio volle destare lo spirito, per così dire addormentato, delle persone, tanto più per il fatto che aveva proibito che gli venissero offerti sacrifici di quella specie; a questo scopo si fece offrire qualcosa di così importante che lo stupore generasse un gran problema, il quale gran problema destasse il desiderio dello spirito timorato di Dio a scrutare in modo approfondito il grande mistero, mentre lo spirito dell’uomo, scrutando alla luce della fede la profondità della prefigurazione profetica, prende, come servendosi dell’amo, il pesce, Cristo Signore dalla profondità della Scrittura. Noi non ci opponiamo a questa opinione o considerazione. Ma uno è il problema dell’intenzione di chi fa un voto e un altro problema è quello della provvidenza di Dio che nel modo migliore si serve dell’intenzione, qualunque essa sia, di chi fa un voto. Ecco perché lo Spirito del Signore che scese su Iefte gli ordinò senz’altro di promettere in voto ciò che la Scrittura in verità non ci manifesta. Tuttavia se lo ordinò Colui, del quale non è lecito disprezzare i comandi, non solo non si deve accusare l’insipienza, ma si deve lodare anche l’obbedienza. Poiché ciò che certamente è illecito fare per volontà e decisione umana, anche se una persona si uccide dobbiamo pensare senza dubbio che si fa per obbedienza anziché con scellerataggine qualora sia comandata da Dio. Questo problema lo abbiamo discusso sufficientemente nel primo libro de La città di Dio 84. Se invece Iefte, seguendo un errore umano, pensò di dovere offrire un sacrificio umano, il suo peccato relativo a sua figlia fu, sì, punito giustamente - come sembra bene mostrare anche lui con le sue parole, quando dice: Ahimé, figlia mia, mi hai messo in un impaccio, un inciampo sei divenuta agli occhi miei!, e stracciandosi anche le vesti - tuttavia anche questo suo errore merita una certa lode per la fede con la quale ebbe il timore di Dio mantenendo la promessa fatta con il voto, e non cercò di allontanare da sé la sentenza del giudizio di Dio contro di lui, sia sperando che Dio lo avrebbe trattenuto, come aveva fatto con Abramo, sia decidendo di compiere la volontà di Dio pensando anche che non lo avrebbe trattenuto, anziché disprezzarla.

49. 15. Sennonché anche qui ci si può domandare con ragione se è più conforme alla verità pensare che Dio non vuole si faccia un tale sacrificio e così l’obbedienza a Dio consisterebbe piuttosto nel non offrirlo, poiché Dio aveva mostrato di non volere quella sorta di sacrifici sia riguardo al figlio di Abramo 85, sia con la proibizione promulgata nella legge. Tuttavia, se Iefte si fosse astenuto dall’offrire il sacrificio per questo motivo, avrebbe dato l’impressione di aver avuto riguardo per la propria persona risparmiando la propria figlia anziché di aver osservato la volontà di Dio. Per il fatto che gli andò incontro la figlia comprese sempre meglio che Dio lo puniva e, con spirito di fede, si sottomise al giusto castigo temendo una punizione ancora più rigorosa a causa della sua - diciamo così - esitazione. Iefte infatti credeva anche che l’immolazione della figlia, virtuosa e vergine, sarebbe stata gradita a Dio, poiché non era stata lei stessa a far voto di essere sacrificata, ma non si era opposta al voto e alla volontà del padre e si era sottomessa al decreto di Dio. Come infatti nessuno deve darsi di propria volontà la morte, né dev’essere procurata a nessuno per volontà altrui, così non si deve rifiutare, se lo comanda Dio, per decreto del quale può capitarci in qualunque momento; nessuno che rifiuta di sopportarla fatica per evitarla assolutamente ma cerca solo di ritardarla.

49. 16. Cerchiamo ora di esaminare ed esporre brevemente, con l’aiuto di Dio, che cosa lo Spirito del Signore, con questa azione, volle prefigurare per mezzo di Iefte (che fosse o non fosse consapevole), per mezzo della sua imprudenza o della sua ubbidienza, per mezzo della sua offesa o della sua fede. Poiché questo passo delle Sacre Scritture ci richiama alla mente e ci spinge in certo qual modo a ben considerare un personaggio forte e valoroso. Tale infatti è detto dalla Scrittura Iefte, il cui nome significa " colui che apre "; orbene Cristo,nostro Signore, come ci mostra il Vangelo 86, ai suoi discepoli aprì la mente perché capissero le Scritture 87. I suoi fratelli rifiutarono questo Iefte e lo cacciarono dalla casa paterna, rinfacciandogli di essere figlio di una prostituta 88, come se essi fossero nati da una moglie legittima. Così fecero contro il Signore anche i capi dei sacerdoti, gli scribi e i farisei che davano l’impressione di vantarsi di osservare la legge come se egli, invece, distruggesse la legge 89 e perciò come se non fosse un figlio legittimo. Inoltre, sebbene egli avesse preso il corpo dalla Vergine certamente santa, come sanno bene i fedeli, tuttavia sua madre, per quanto riguarda il popolo, può chiamarsi anche la sinagoga giudaica. Chi lo vorrà legga i Libri profetici e veda quante volte e con quali espressioni severe e con quanto sdegno del Signore quel popolo sia accusato delle sue fornicazioni. A questo riguardo in questo libro c’è anche quanto abbiamo letto poco prima, non solo, cioè, che tutta Israele si prostituì al seguito dell’efud confezionato da Gedeone 90, ma anche che seguirono gli dèi dei popoli dei quali erano circondati 91. Da questi peccati fu eccitata la collera di Dio di modo che per diciotto anni furono oppressi dai figli di Ammon 92. Ma non erano forse nati dal medesimo popolo d’Israele anche i sacerdoti, scribi e farisei, nei quali erano prefigurati coloro che perseguitarono e scacciarono Iefte come se fosse un bastardo, allo stesso modo che trattarono Cristo Signore? Ma il significato simbolico relativo a Iefte è adombrato nel fatto che a questi tali - come ho detto - credendosi i veri osservanti della legge, sembrò di aver fatto un’azione giusta a scacciare come bastardo Colui che a loro, che si ritenevano legittimi, sembrava che agisse contro i precetti della legge. In realtà quella nazione è accusata di fornicare poiché, non osservando i precetti della legge non dimostravano - per così dire - la fedeltà [a Dio] suo sposo.

49. 17. Di Iefte la Scrittura dice anche: I figli nati dalla moglie legittima crebbero e cacciarono via Iefte 93. Il verbo qui usato crebbero preso in senso simbolico significa " ebbero il sopravvento ", cosa che si avverò per quanto riguarda i Giudei, i quali prevalsero sulla debolezza di Cristo, poiché questi volle sopportare ciò che doveva soffrire da parte loro nella passione; il medesimo significato simbolico ebbe il fatto che Giacobbe riuscì a superare l’angelo con il quale lottava allo scopo di preannunciare lo stesso mistero 94. I fratelli dissero dunque a Iefte: Tu non avrai parte nell’eredità di nostro padre, poiché sei figlio di una prostituta 95, come se dicessero ciò che dice il Vangelo: Quest’uomo non viene da Dio, poiché non osserva il Sabato 96; essi invece, vantandosi come se fossero figli legittimi, dissero al Signore: Noi non siamo nati da una prostituta; abbiamo un solo padre, Dio 97. Iefte allora fuggì lontano dai suoi fratelli e si stabilì nel paese di Tab 98. Fuggì in quanto nascose la propria grandezza, fuggì in quanto si nascose a coloro che vedevano la debolezza di lui che moriva, ma non videro la potenza di lui che resuscitava; poiché, se lo avessero conosciuto, giammai avrebbero crocifisso il Signore della gloria 99. Si stabilì però in una terra buona, anzi, per dirlo con maggior precisione, " ricca e ferace ", poiché ciò, che in greco si dice [buono], in latino significa " ricca e felice ", e questo è il significato di Tob [" buono "]. Mi sembra che queste parole si debbano intendere della risurrezione di Cristo. Perché quale terra è più felice del corpo terreno rivestito della eminente condizione d’immortalità e d’incorruzione 100?

49. 18. Quanto poi a ciò che la Scrittura dice di Iefte, che cioè dopo essere fuggito lontano dai suoi fratelli ed essersi stabilito nella terra di Tob, si raccolsero presso di lui dei predoni e andavano con lui 101 [si ricordi che] sebbene anche prima della passione fosse stato rinfacciato al Signore il fatto di mangiare con i publicani e i peccatori, quando rispose che non hanno bisogno del medico i sani ma gli ammalati 102, e fu annoverato tra gli iniqui 103, quando fu crocifisso tra i briganti e uno di loro lo trasferì dalla croce al paradiso 104, tuttavia dopo che risuscitò e cominciò a stare nella terra di Tob secondo la spiegazione da noi data sopra, si unirono presso di lui gli scellerati che cercavano la remissione dei peccati e andarono con lui poiché vivevano in conformità con i suoi precetti. Ma ciò non smette di accadere finora e continuerà ad accadere fino a quando si rifugiano da lui i malvagi affinché egli giustifichi gli empi che tornano a lui, e i malvagi imparino le sue vie 105.

49. 19. Orbene il fatto che coloro i quali avevano scacciato Iefte - era anche un Gaaladita - si rivolsero a lui e cercarono di essere liberati dai loro nemici per suo mezzo, con quanta evidente prefigurazione simboleggia che coloro i quali rigettarono il Cristo, tornando a lui trovano la salvezza. Si può pensare che questi siano coloro che l’apostolo Pietro avendoli accusati del medesimo peccato, come si legge negli Atti degli Apostoli 106, ed esortati di convertirsi a Colui che avevano perseguitato, si sentirono come trafitti nel cuore e desiderarono di aver la salvezza da Colui che essi avevano respinto - che cosa infatti vuol dire essere liberati dai nemici se non essere liberati dai peccati? Poiché Pietro così disse loro: Pentitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome del Signore Gesù Cristo; e vi saranno perdonati i vostri peccati 107 -, o piuttosto si può pensare sia simboleggiata la chiamata del popolo d’Israele che si spera alla fine del mondo 108. Sembra infatti che si tratti piuttosto di quella " chiamata " per il fatto che l’agiografo dice: e avvenne dopo i giorni 109, che per certo significa dopo un certo tempo, e perciò ci fa vedere che non si deve intendere il tempo successivo immediatamente dopo la passione del Signore, ma quello che verrà in seguito. A ciò sembra riferirsi anche il fatto che gli anziani di Galaad andarono da Iefte 110 perché per età senile si debbano intendere i tempi successivi e ultimi. Galaad infatti significa " colui che rigetta " o " rivelazione ". Tutt’e due questi fatti si confanno a pennello all’oggetto figurato, poiché prima rigettarono il Cristo, il quale però in seguito sarà loro rivelato.

49. 20. Quanto invece al fatto che Iefte era richiesto come comandante contro i figli di Ammon 111, una volta sconfitti i quali sarebbero stati liberati coloro che desideravano combattere contro di loro sotto il comando di Iefte, poiché Ammon significa " figlio del popolo mio " o " il popolo del dolore ", senza dubbio sono simboleggiati o quei nemici dei quali era stato predetto che si sarebbero ostinati nell’infedeltà, o tutti quanti senza eccezione i predestinati alla geenna dove per loro sarà il pianto e lo stridore dei denti 112, come se appartenessero al popolo della tristezza. Sennonché può intendersi come " popolo del dolore " anche il diavolo e i suoi angeli sia perché procurano l’eterna infelicità per le persone ingannate da loro sia perché essi stessi sono destinati all’eterna infelicità.

49. 21. In modo sicuramente appropriato per indicare assai più chiaramente la profezia così Iefte rispose agli anziani di Galaad: Non siete forse voi che mi avete odiato e m’avete cacciato dalla casa di mio padre e mi avete mandato via lontano da voi? E perché siete venuti ora che siete angosciati? 113 Qualcosa di simile fu simboleggiato a proposito di Giuseppe, che i fratelli vendettero allontanandolo da loro 114 e quando erano afflitti dalla fame si rivolsero al suo aiuto e alla sua misericordia 115. Nel caso di Iefte però si manifesta molto più chiaramente il significato allegorico delle realtà future poiché si recarono da Iefte non proprio gli stessi fratelli che lo avevano scacciato ma gli anziani di Galaad, supplicandolo a nome di tutto il popolo. Allo stesso modo si chiama Israele l’insieme della medesima stirpe, sia che si tratti di coloro che vivevano al tempo di Cristo e lo rigettarono, sia che si tratti di coloro che in seguito si rivolsero a lui per implorare il suo aiuto. Poiché a un popolo nemico che conserva e si trascina dietro il lungo odio [contro Cristo] ereditato sia dagli antenati sia dalla generazioni posteriori, a questo popolo, che alla fine si sarà convertito nella persona di quelli che allora dovranno convertirsi, è detto: Non siete stati forse voi a odiarmi e a cacciarmi dalla casa di mio padre? In effetti a coloro che lo perseguitarono sembrò giusto scacciare Cristo dalla casa di Davide, in cui il suo regno non avrà fine 116.

49. 22. Gli anziani di Galaad risposero a Iefte: Non è così, ora siamo venuti da te 117. E come se i Giudei convertiti a Cristo gli dicessero: Allora venimmo per perseguitarti, ora invece per seguirti. Dichiararono apertamente anche che sarà lui il loro capitano contro i nemici. Egli risponde che sarà il loro capo se vincerà i loro nemici 118, cosa che Gedeone non volle, quando lo avevano voluto gli Israeliti, poiché rispose loro: Vostro capo sarà il Signore 119, poiché sotto il termine capo s’intende il re, dignità che quel popolo ancora non aveva al tempo dei Giudici, ma cominciarono ad averla con Saul 120 e in seguito con i suoi successori che si leggono nel Libro dei Re. Infatti nel Deuteronomio, quando si ordina al popolo quale specie di re debba avere, qualora ad essi piacerà averlo, non viene chiamato re ma capo 121. Ma siccome questo Iefte era una figura di Colui che è il vero re - come stava scritto nell’iscrizione affissa sulla croce, che Pilato non osò cancellare o correggere 122 -, perciò si deve pensare che fu detto: Io sarò vostro re 123. Quelli invece avevano detto: Sarai nostro capo 124 poiché capo dell’uomo è Cristo 125, ed egli è il Capo del corpo della Chiesa 126. Finalmente, dopo averli liberati da tutti i nemici Iefte non fu fatto re perché comprendessimo che l’espressione usata dalla Scrittura riguardo a Iefte era una predizione riguardante piuttosto Cristo che propriamente Iefte in persona, l’esposizione delle cui gesta la Scrittura la conclude così: Iefte fu giudice in Israele per sei anni. Iefte il Galaadito morì poi e fu sepolto nella sua città di Galaad 127. Egli dunque giudicò Israele come tutti gli altri Giudici; lì non regnò come un sovrano, come quelli contenuti nei Libri dei Re.

49. 23. Ora poi nel fatto che il medesimo Iefte, dopo essere stato costituito capo, inviò prima ai nemici messaggeri recanti dichiarazioni di pace 128 si mostra quanto dice l’Apostolo, per mezzo del quale parlava Cristo: Per quanto è possibile e dipende da voi vivete in pace con tutti gli uomini 129. Ma siccome ho fretta sarebbe troppo lungo esporre a fondo tutte le parole stesse che Iefte ordinò ai messaggeri di riferire: tuttavia, per quanto riguarda il loro senso profetico delle realtà future mi sembra siano da intendere in modo da riconoscere in esse l’insegnamento di Cristo che ci ammonisce come dobbiamo comportarci, vale a dire vivere tra coloro i quali non sono stati chiamati [alla salvezza] secondo il progetto di Dio 130, poiché il Signore conosce quelli che sono suoi 131.

49. 24. Oltre a ciò il fatto che su Iefte venne lo Spirito del Signore quando si accingeva a sbaragliare i nemici 132 è simbolo dello Spirito Santo partecipato ai membri di Cristo.

49. 25. Il fatto poi che Iefte percorse Galaad e Manasse e passò per la vedetta di Galaad e dalla vedetta di Galaad raggiunse alle spalle gli Ammoniti 133, è simbolo del progresso che fanno le membra [del corpo] di Cristo per conseguire la vittoria sui nemici. Galaad infatti significa " dispregiatore " e Manasse " necessità ". Da coloro che progrediscono devono quindi essere superati i dispregiatori cioè coloro che disprezzano e dev’essere superata anche la necessità perché non avvenga che passando chi sopravanza gli spregiatori si arrenda a coloro che incutono paura; si deve superare anche la vedetta di Galaad, poiché Galaad significa anche " rivelazione ". Una vedetta è un luogo eminente da cui si possa vedere in lontananza o guardare dall’alto verso il basso, cioè guardare dal di sopra. Per questo mi sembra che la vedetta di Galaad simboleggi la superbia della rivelazione e perciò l’Apostolo dice: E io non monti in superbia per le grandi rivelazioni che ho ricevuto 134. Anche essa dunque si deve sorpassare, cioè non si deve perdurare in essa per il pericolo di cadere. Superati questi ostacoli facilmente si superano i nemici come indica la frase che segue: e dalla vedetta di Galaad arrivò alle spalle dei figli di Ammon, i nemici di cui abbiamo parlato sopra.

49. 26. Iefte fece allora un voto [a Dio] dicendo: Se consegnerai nelle mie mani i figli di Ammon, chiunque uscirà dalle porte della mia casa incontro a me quando tornerò in pace dai figli di Ammon, apparterrà al Signore e glielo offrirò in olocausto 135. Qualunque fosse la persona a cui Iefte pensava in questo passo secondo il pensiero umano non sembra che pensasse all’unica sua figlia, altrimenti nel vedersela venire incontro non avrebbe detto: Ahimé, figlia mia, mi hai messo in un impaccio, un inciampo sei divenuta agli occhi miei 136. Poiché Iefte dice: mi hai messo in un impaccio come ad indicare di essere impedito dal mantenere ciò che aveva pensato di offrire. Iefte però, che non aveva altri figli, chi avrebbe potuto pensare che gli sarebbe uscito incontro per primo? Aveva forse pensato a sua moglie? Ma Dio non volle forse che non solo non avvenisse ciò, ma anche che non restasse senza castigo affinché in seguito non osasse farlo nessuno e mediante la sua grande provvidenza anche con ciò stesso che accadde prefigurasse il mistero della Chiesa? Il significato profetico risulta quindi formato da due fatti: sia da ciò che Iefte pensò nel fare il voto sia da ciò che gli capitò contro la sua volontà. Se infatti pensò alla sposa, la sposa di Cristo è la Chiesa; perciò l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà alla sua donna e saranno due in una carne sola. Questo è un grande mistero - dice l’Apostolo - e lo dico riguardo a Cristo e alla Chiesa 137. Ma siccome la moglie di questo Iefte non poteva essere vergine, nel fatto che invece della moglie gli andò incontro la figlia e non restò invendicata, è prefigurata l’audacia di chi fa voto d’un sacrificio proibito e la verginità della Chiesa. Inoltre non è in contrasto con la verità che anche nel nome di "figlia" è simboleggiata la medesima Chiesa; poiché di chi altri era figura quella donna che era stata guarita dopo aver toccato l’orlo del vestito del Signore che le disse: Figlia, la tua fede ti ha salvata; va’ in pace 138? Di certo poi, in una espressione di cui nessuno può dubitare, il Signore in persona chiamò figli dello sposo i suoi discepoli indicando assai chiaramente di essere lui lo sposo: I figli dello sposo -disse - non possono digiunare finché è con loro lo sposo. Verranno però i giorni in cui lo sposo sarà tolto loro e allora digiuneranno 139. Sarà dunque un olocausto la Chiesa che il beato Apostolo chiama vergine casta 140 quando nella risurrezione universale dei morti avverrà quanto sta scritto: La morte è stata ingoiata per la vittoria 141; allora consegnerà il regno a Dio e al Padre 142; questo regno è la stessa Chiesa, il re era raffigurato da colui che aveva fatto il voto. Ora, poiché ciò succederà quando sarà compiuta la sesta età del mondo, per ciò fu chiesta una dilazione di sessanta giorni per piangere la sua verginità 143. In effetti la Chiesa è formata da persone di tutte queste sei età del mondo. La prima va da Adamo al diluvio, la seconda dal diluvio, cioè da Noè, fino ad Abramo, la terza da Abramo fino a Davide, la quarta da Davide alla deportazione di Babilonia, la quinta da questa deportazione fino al parto della Vergine, la sesta dalla nascita di Cristo alla fine di questo mondo. Durante queste età, come se si trattasse di sessanta giorni, la Chiesa, questa vergine santa, pianse la sua verginità; poiché, nonostante la sua verginità, aveva dei peccati da piangere, a causa dei quali questa vergine dice [al Signore]: e rimetti a noi i nostri debiti 144. Secondo me l’agiografo preferì chiamare due mesi quei sessanta giorni a causa di due uomini: l’uno per mezzo del quale è venuta la morte, l’altro per mezzo del quale è venuta la risurrezione dei morti 145; a causa dei quali due uomini si parla anche dei due Testamenti.

49. 27. Quanto invece al fatto che nacque in Israele l’usanza che [le ragazze] si radunavano di tempo in tempo quattro giorni all’anno per celebrare il lamento della figlia di Iefte 146, io non penso che quanto avvenne dopo l’offerta dell’olocausto sia simbolo di qualcosa relativo alla vita eterna, ma lo sia ai tempi passati della Chiesa, nei quali erano felici coloro che piangono 147. Con l’espressione spazio di quattro giorni è raffigurata invece la universalità della Chiesa a causa delle quattro parti del mondo, nelle quali si è diffusa per lungo e per largo. Per quanto però attiene al significato proprio della storia, non credo che furono gli Israeliti a stabilire una tale usanza salvo che comprendessero che in quel caso si era manifestato il giudizio di Dio reso manifesto a tutti piuttosto per punire il padre affinché in seguito nessuno osasse fare il voto di offrire un siffatto sacrificio. Poiché per qual motivo si sarebbe istituito un lutto e un lamento, se questo voto fosse stato un voto di allegrezza?.

49. 28. Se però deve riferirsi al giudizio finale di Dio anche il fatto che il popolo di Efraim fu in seguito vinto da Iefte 148, come dice lo stesso Signore: [quanto poi ai miei nemici] quelli che non volevano che io regnassi su di loro conduceteli qua e uccideteli alla mia presenza 149, quei quarantaduemila che caddero [in quella battaglia] non sono menzionati senza un motivo 150. Poiché allo stesso modo che i due mesi a causa dei sessanta giorni sono simbolo del numero sei delle sei età del mondo, così anche qui il numero sette moltiplicato per sei è simbolo della medesima realtà per quanto riguarda le sei età del mondo, poiché sei per sette fa quarantadue. Inoltre lo stesso Iefte non senza una ragione fu giudice del popolo per sei anni 151.

Perché vietato il vino alla madre di Sansone incinta.

50. (13, 4) Possiamo domandarci come mai alla madre di Sansone, che era sterile, nell’annunciarle che avrebbe avuto un figlio, l’angelo disse: Ma ora sta’ attenta e non bere vino e siero, non mangiare sostanze impure. Che cosa infatti si deve intendere per ciò che è impuro? Non si deve forse intendere il rilassamento della disciplina che era cominciata ad introdursi in Israele e li aveva indotti a mangiare anche quelli che Dio aveva proibito tra le diverse specie di animali 152?. Perché infatti non si potrebbe pensare che gli Israeliti potessero essere molto più propensi a fare anche ciò, dato che trasgredivano la legge di Dio fino ad adorare anche gli idoli?

La madre di Sansone non rivela al marito tutto l’annuncio dell’angelo.

51. (13, 6) Quanto al fatto che la madre di Sansone, indicando a suo marito come l’angelo le annunciò la nascita del figlio, gli disse: Gli ho chiesto d’onde venisse e non mi ha detto il suo nome, si può domandare se disse la verità, poiché ciò non si legge nel passo in cui si dice che l’angelo le parlò. Si deve però pensare che la Scrittura lì passò sotto silenzio questo particolare ma qui ricorda ciò di cui lì non aveva parlato. Anche il fatto che la madre di Sansone non dice: "gli ho chiesto come si chiamava, ma non mi ha detto il suo nome", ma dice: gli ho chiesto d’onde venisse, non sembra accordarsi con quel che segue: ma non mi disse il suo nome. Essa infatti, domandandogli di dove era, non gli aveva chiesto quale fosse il suo nome, ma qual era la sua patria o città, pensando che fosse un uomo. In realtà essa lo aveva chiamato anche uomo di Dio, tuttavia simile a un angelo per il suo aspetto e per il suo contegno. Cioè, poiché aveva visto in lui una persona splendida, come poi essa raccontò. Se però la frase si separasse così: e gli chiesi di che paese fosse e come si chiamasse, sottintendendo "gli chiesi" facendo poi seguire non me lo disse, non c’è problema, poiché l’espressione non me lo disse si può riferire a tutte e due le cose, cioè ["non mi disse"] né di che paese fosse né come si chiamasse.

Sansone e il nazireato.

52. (13, 7. 5) Parimenti non si legge [nella Scrittura] quanto la medesima donna dice esserle stato detto dall’angelo, e cioè: Poiché il bambino sarà nazareno da quando sarà nel [mio] ventre fino alla sua morte, mentre non è ricordata dalla donna la frase che vi leggiamo detta dall’angelo: Egli prenderà a salvare Israele dall’oppressione dei Filistei. Essa pertanto da una parte non omise di dire qualcosa che aveva udito e dall’altra parte tuttavia si deve pensare che non riferì nulla che non aveva udito, ma che piuttosto la Scrittura non riferisce tutte le parole dell’angelo quando nel racconto lo fa intervenire a parlare con la donna. L’angelo perciò poi dice: Da quando sarà nel ventre fino alla morte, poiché nella Legge venivano chiamati nazirei coloro che avevano fatto un voto per uno spazio di tempo conforme le prescrizioni che la Scrittura riferisce date per mezzo di Mosè 153. Di qui deriva l’ordine ingiunto a Sansone che il rasoio non si accostasse ai suoi capelli e non bevesse né vino né liquori. Sansone osservò per tutta la sua vita le prescrizioni che osservavano in determinati giorni coloro che erano chiamati nazirei che avevano fatto il voto [di nazireato] e lo adempivano.

Sacrificio ed olocausto.

53. (13, 15-16) Per il fatto che la Scrittura dice: Poiché Manoe non aveva compreso che era un angelo di Dio, è evidente che anche sua moglie aveva creduto che fosse un uomo. Dicendogli dunque: Adesso permettici di trattenerti e di prepararti un capretto alla tua presenza, lo invitò come se fosse un uomo, però per mangiare con lui il sacrificio che avrebbe fatto. Poiché " preparare un capretto " non si usa dire se non quando si fa un sacrificio. L’angelo infine gli rispose: [Anche] se mi tratterrai presso di te con la forza, non mangerò i tuoi cibi. Con ciò mostra che era stato invitato a mangiare. Di poi aggiunge: E se farai un olocausto offrilo al Signore. Disse: se farai un olocausto precisamente perché Manoe aveva detto: permetti che prepariamo in tua presenza un capretto. Ma non ogni sacrificio era un olocausto; dell’olocausto infatti non si mangiava nulla, perché si bruciava interamente, e perciò si chiamava olocausto. Ma l’angelo, anche se avrebbe rifiutato di mangiare, esortò piuttosto a fare un olocausto, non per lui tuttavia, ma al Signore, soprattutto perché in quel tempo il popolo d’Israele s’era abituato a offrire sacrifici a qualunque falsa divinità e per questo avevano offeso Dio anche allora e di conseguenza fu consegnato nelle mani dei nemici per quarant’anni 154.

Il quesito se gli uomini pensavano che nell’angelo fosse Dio o chiamavano Dio lo stesso angelo.

54. (13, 16-23) Che significa ciò che dice Manoe a sua moglie: Morremo di sicuro poiché abbiamo visto Dio dopo che l’angelo, che parlava con loro, s’era manifestato ad essi? Naturalmente a causa della massima scritta nella Legge, che dice: Nessuno può vedere il mio volto e vivere 155. Come uomini credevano dunque di avere visto Dio per effetto di un miracolo davvero tanto grande poiché colui, che prima parlava con loro somigliante ad un uomo, ascese [al cielo] con la fiamma del sacrificio. Ma era forse Dio colui che essi riconoscevano nell’angelo oppure chiamavano "angelo" Dio stesso? Poiché sta scritto così: Allora Manoe prese il capretto e l’offerta [di farina] e li offrì sopra una pietra al Signore che compie prodigi; Manoe e sua moglie stavano a guardare. Ora avvenne che, mentre la fiamma saliva al di sopra dell’altare verso il cielo, l’angelo del Signore salì con la fiamma. Manoe e la moglie stavano guardando e caddero con la faccia a terra. E l’angelo del Signore scomparve alla vista di Manoe e di sua moglie. Manoe comprese allora che quello era l’angelo del Signore, e Manoe disse a sua moglie: " morremo senz’altro, poiché abbiamo visto Dio ". Siccome in queste ultime parole Manoe non disse: " moriremo senz’altro poiché abbiamo visto l’angelo del Signore ", ma: abbiamo visto Dio, sorge il quesito se pensavano che nell’angelo fosse Dio o chiamavano Dio lo stesso angelo. Non si può infatti supporre come terza probabilità che avessero creduto essere Dio colui che era un angelo in quanto la Scrittura dice molto chiaramente: Manoe comprese allora che era un angelo del Signore. Per qual motivo dunque avevano paura di morire? La Scrittura infatti nell’Esodo non aveva detto: " nessuno vede il volto di un angelo e vivrà ", ma il mio volto riferendo le parole di Dio. Oppure, per il fatto stesso che Manoe nella presenza dell’angelo aveva riconosciuto Dio, era rimasto talmente turbato da aver paura di morire? Poiché però la moglie gli rispose: Se il Signore avesse voluto farci morire, non avrebbe accettato dalle nostre mani né l’olocausto e il sacrificio, né ci avrebbe fatto assistere a questo spettacolo, e con ci avrebbe fatto udire tutte queste cose, pensarono forse che era stato l’angelo a ricevere il sacrificio per il fatto che lo avevano visto ascendere con la fiamma dell’altare oppure pensarono che accettò il sacrificio il Signore per il fatto che l’angelo fece in quel modo allo scopo di mostrarsi angelo? Ma qualunque di queste ipotesi sia quella giusta, l’angelo aveva tuttavia già detto: se però farai un olocausto, lo offrirai al Signore, cioè: non a me, ma al Signore. Quanto dunque al fatto che l’angelo salì al cielo con la fiamma dell’altare sembra che sia piuttosto da intendere nel senso che fosse simbolo dell’angelo del gran consiglio 156 nella natura di servo 157, cioè nell’uomo che egli avrebbe assunto e che non avrebbe accettato il sacrificio, ma sarebbe stato lui stesso il sacrificio.

Sulla frase: Sansone percosse gli stranieri la tibia sul femore.

55. (15, 8. 15) Che significa l’espressione della Scrittura secondo la quale Sansone percosse gli stranieri la tibia sul femore ? Chi infatti ha la tibia sopra il femore dal momento che la tibia va dal ginocchio in giù fino al calcagno? Inoltre se indicasse la parte del corpo in cui Sansone li colpì, forse che coloro, che egli percosse, erano stati colpiti tutti in una sola parte del corpo? Se ciò fosse probabile, potremmo forse immaginare che egli combattesse servendosi dello stinco di qualche animale a guisa di clava e con esso li colpisse sul femore, allo stesso modo che la Scrittura narra di lui che uccise mille uomini con una mascella d’asino. Ma, come ho detto, non è neppure probabile che nel combattimento stesse a badare a una sola parte del corpo per colpire quegli uomini; d’altra parte la Scrittura non dice: " li colpì con la tibia sul femore ", ma: colpì la tibia sopra il femore. Naturalmente questo modo di esprimersi rende oscuro il senso della frase. In questo modo è come se dicesse: Li percosse in modo assai straordinario, cioè in modo che, colpiti da stupore per la meraviglia, misero la tibia d’un piede sul femore dell’altro, come sono soliti stare seduti coloro che sono sbalorditi per la meraviglia. È come se dicesse: " Li colpì la mano alla guancia ", cioè li colpì con una strage sì grande che si misero la mano alla guancia per il doloroso stupore. Anche la traduzione fatta dall’ebraico mostra assai chiaramente che si tratta di questo senso, poiché dice così: E li percosse con una così grande strage che per lo stupore misero la gamba sopra il femore. È come se dicesse: " misero la tibia sul femore ", poiché il polpaccio è senz’altro la parte posteriore della gamba con la tibia.

Che significa ciò che Sansone dice agli uomini di Giuda.

56. (15, 12) Che significa ciò che Sansone dice agli uomini di Giuda: Giuratemi che non mi ucciderete voi stessi, consegnatemi loro, perché non siate voi stessi a venirmi incontro? Alcuni hanno tradotto questa frase così: perché non veniate contro di me voi stessi. Ma che egli disse così per non essere ucciso da loro lo indica ciò che sta scritto nel Libro dei Re, quando Salomone ordinò che fosse ucciso un uomo dicendo: Va’, va’ incontro a lui 158. Questa frase non si comprende per il fatto che tra noi non si usa esprimerci così. Poiché quando le autorità militari dicono: " Va’, toglilo di mezzo ", espressione che significa " uccidilo ", chi potrebbe capirne il significato, se non chi conosce l’uso di tale modo di dire? Anche tra noi il volgo suol dire: " gli abbreviò la vita " che significa " lo uccise "; ma non comprende l’espressione nessuno, se non chi è abituato a sentirla. Poiché la caratteristica generale di tutte le espressioni idiomatiche, come quella di tutte le lingue, è che non sono comprese se non s’imparano a forza di sentirle dire o di leggerle.