LIBRO PRIMO

MUSICA MOVIMENTO NUMERI

Concetto di musica come arte e scienza (1, 1 - 6, 12)

Grammatica e musica e suono.

1. 1. MAESTRO - Che piede è modus?
DISCEPOLO - Un pirrichio.
M. - Di quanti tempi?
D. - Di due.
M. - E bonus che piede è?
D. - Il medesimo di modus.
M. - Dunque modus e bonus sono identici.
D. - No.
M. - Perché hai detto medesimo dunque?
D. - Sono identici nel suono, non nel significato.
M. - Affermi dunque che si ha il medesimo suono nel dire modus e bonus.
D. - Noto che si differenziano nel suono delle lettere, il resto è eguale.
M. - E, secondo te, nel pronunciare il verbo pone e l'avverbio pone, a parte il diverso significato, il suono è differente?
D. - Completamente differente.
M. - E perché differente se è costituito dai medesimi tempi e dalle medesime lettere?
D. - Differisce perché si ha l'accento in sillabe diverse.
M. - E a quale disciplina appartengono tali nozioni?
D. - Io di solito le odo dai grammatici e da loro le ho apprese, ma non so se è ufficio proprio di tale disciplina o è preso in prestito da altra.
M. - Lo vedremo in seguito. Per il momento ti propongo una domanda. Se io battessi due volte un timpano o una corda d'arpa così di seguito e tanto velocemente come nel pronunciare modus e bonus, ti accorgeresti o no che anche in tal caso si hanno due tempi.
D. - Me ne accorgerei.
M. - Diresti dunque che è un pirrichio.
D. - Sì.
M. - E certamente dal grammatico hai appreso il nome del piede?
D. - D'accordo.
M. - Quindi il grammatico giudicherà di tutti i suoni di tal genere, ovvero hai avvertito da te le percussioni ritmiche ma hai appreso dal grammatico la terminologia da usare?
D. - Certo.
M. - Ed hai osato trasferire un termine, che la grammatica ti ha insegnato, ad un contenuto che, per tua ammissione, non è di competenza della grammatica?
D. - Ma, a mio avviso, è stato dato un nome al piede soltanto per indicare una misura di tempo. E perché non dovrei, ogni volta che avverto tale misura, usare le parole in quel senso? Ed anche se si dovesse usare una diversa terminologia, i suoni mantengono la medesima misura e quindi non sono di competenza dei grammatici. E allora perché preoccuparsi della terminologia se il significato è chiaro?
M. - Neanche io lo voglio. Tuttavia tu comprendi che si danno innumerevoli tipi di suoni, nei quali si possono osservare determinate misure. Ed esse, come riconosciamo, non si devono attribuire alla disciplina grammaticale. Non ritieni dunque che esiste un'altra disciplina, la quale ha come oggetto tutto ciò che nelle parole è un determinato ritmo dovuto all'arte?
D. - Mi sembra probabile.
M. - E quale pensi sia il suo nome? Non ti è nuovo, come credo, che alle Muse si suole attribuire un certo universale potere del canto. È questa che, salvo errore, si denomina musica.
D. - Anche io penso che lo sia.

Definizione della musica.

2. 2. M. - Ma siamo d'accordo di non preoccuparci affatto della
terminologia. Ed ora, se lo credi opportuno, indaghiamo, con la maggiore diligenza possibile, la competenza e il metodo di questa disciplina, qualunque essa sia.
D. - Indaghiamo pure. Desidero assai conoscere tutto quanto la riguarda.
M. - Definisci allora la musica.
D. - Non ne son capace.
M. - Riesci almeno ad accettare la mia definizione?
D. - Ci proverò, se la dài.
M. - La musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte 1. Sei d'opinione contraria?.
D. - No forse, se mi fosse evidente che cos'è misura ritmica.
M. - Non hai mai sentito usare il termine misurare ritmicamente, ovvero l'hai sentito usare con significato non attinente al canto e alla danza?
D. - Giusto. Ma io osservo che misurare ritmicamente deriva da misura, poiché la misura si deve usare in tutte le opere d'arte, ed invece molti pezzi di canto e di danza sono assolutamente illiberali. Vorrei quindi comprendere con esattezza che cosa significa misurare ritmicamente, questo termine, col quale da solo, si esprime la definizione di una disciplina tanto importante. Infatti per possederla non basta apprendere quanto sanno i vari cantori e mimi.
M. - Non ti turbi il tema sopra enunciato che anche al di fuori della musica si deve osservare la misura in tutte le produzioni e che essa tuttavia nella musica si dice ritmica. Non dovresti ignorare infatti che il dire si attribuisce propriamente all'oratore.
D. - Non lo ignoro. Ma a che scopo questa affermazione?
M. - Perché anche il tuo schiavo, per quanto illetterato e popolano, quando risponde, sia pure con una parola, a una tua domanda, dice qualche cosa. Lo ammetti?
D. - Sì.
M. - Allora è un oratore anche lui?
D. - No.
M. - Dunque, anche se ha detto qualche cosa, non si è valso del dire oratorio. Eppure dobbiamo ammettere che il dire oratorio si dice dal dire.
D. - D'accordo, ma anche questo concetto, chiedo, a che serve?
M. - A farti comprendere che la misura ritmica è di competenza della sola musica, sebbene la misura, da cui la parola deriva, può trovarsi anche in altre arti. Allo stesso modo la dizione propriamente si attribuisce agli oratori, sebbene quando si parla, si dice qualche cosa e la dizione deriva dal dire.
D. - Comincio a capire.

Misura ritmica...

2. 3. M. - Hai poi detto che nel canto e nella danza vi sono molte produzioni illiberali e che, se dovessimo includerle nella misura ritmica, questa nobilissima disciplina diverrebbe illiberale. È stata una osservazione molto sensata. Esaminiamo dunque dapprima che cosa significa misurare ritmicamente, poi che cosa significa misurare ritmicamente secondo arte perché non è stato aggiunto invano alla definizione. Infine non si deve trascurare il motivo per cui si è usata la nozione di scienza. Infatti, salvo errore, la definizione risulta di questi tre elementi.
D. - Va bene.
M. - Ammettiamo dunque che misura ritmica è detta da misura. E allora non ti appare la difficoltà che soltanto nelle azioni che si compiono mediante un determinato movimento si può oltrepassare o non raggiungere la misura, oppure si può incorrere nella difficoltà che si abbia qualche cosa fuor di misura, anche senza il movimento?.
D. - No, certamente.
M. - Quindi misura ritmica si dice non incongruamente una determinata capacità di muovere, o almeno una capacità, con cui si ottiene che qualche cosa si muova secondo arte. Non si può infatti dire che qualche cosa si muova secondo arte, se non mantiene la misura.
D. - Non si può certamente. Ma allora bisognerebbe applicare la misura ritmica così intesa a tutte le produzioni artistiche. Niente, per quanto ne capisco io, si esegue secondo arte se non col muovere secondo arte.
M. - E se tutto questo fosse dovuto alla musica? Comunque il termine di misura ritmica è più usato, ed a ragione, per gli strumenti musicali. Tu devi ammettere, così almeno penso, che un conto è un pezzo di legno o argento o altro materiale passato al tornio, ed altro è il movimento dell'artigiano nell'atto di tornirli.
D. - Son d'accordo che differiscono notevolmente.
M. - E il movimento non s'intende per sé, ma piuttosto per l'oggetto che si vuole tornito?
D. - Chiaro.
M. - Ma se quegli muovesse le membra al solo scopo di muoverle con armonia ed eleganza, non diremmo che sta eseguendo una pantomima?
D. - Sì.
M. - E allora, secondo te, un qualche cosa ha più valore e pregio se è intesa per sé o ad altro?
D. - Per sé, che dubbio?
M. - Ed ora torna al tema già esposto della misura ritmica. L'abbiamo considerata come determinata capacità di muovere. Esamina se il termine ha maggiore applicazione nel movimento, per così dire, libero, che cioè s'intende per sé e di per sé genera diletto estetico, ovvero in quello che è in qualche modo illibero. Sono in certo senso illibere tutte le cose che non sono fine a sé, ma si riferiscono ad altro.
D. - Nel movimento cioè che è inteso per sé.
M. - Quindi è già probabile che la scienza del misurare ritmicamente è scienza del muovere secondo arte, in maniera che il movimento sia inteso per sé e di per sé generi diletto.
D. - Sì, è probabile.

...secondo arte.

3. 4. M. - Perché dunque è stato aggiunto secondo arte? È impossibile che ci sia misura ritmica, se non c'è movimento secondo arte.
D. - Non lo so e non so neanche come mi sia sfuggito. Era proprio questo l'intento dell'indagine.
M. - Si sarebbe anche potuto non discutere su tale termine. Espunta la clausola " secondo arte ", potevamo definire la musica soltanto come scienza del misurare ritmicamente.
D. - Chi ti può seguire, se intendi svolgere così tutto l'argomento?
M. - La musica è scienza dei muovere secondo arte. Ora si può dire mosso secondo arte tutto ciò che è mosso ritmicamente con l'osservanza delle misure di tempi e lunghezze. Infatti genera già piacere estetico e pertanto già si può considerare convenientemente misura ritmica. Può avvenire tuttavia che la misura ritmica generi piacere estetico, quando non dovrebbe. Supponi che un tale canti con bella voce ed esegua la pantomima con armonia, ma finisca nello sguaiato, quando il soggetto richiede austerità. Egli non usa con arte la misura ritmica. Infatti esegue senza arte, cioè fuori convenienza, il movimento che al contrario si dovrebbe eseguire secondo arte per il fatto stesso che è ritmico. Quindi un conto è misurare ritmicamente ed un altro misurare ritmicamente secondo arte. La misura ritmica si può riconoscere in qualsiasi cantante purché non sbagli negli accordi di voci e suoni. La conveniente misura ritmica invece appartiene a questa disciplina liberale, cioè la musica. Potresti ritenere che un movimento, in quanto sconveniente al soggetto, non è secondo arte, sebbene devi ammettere che è ritmica secondo le regole dell'arte. Ma rispettiamo il nostro criterio, valido in ogni trattazione, di non lasciarci assillare da una polemica verbale, se il concetto è sufficientemente chiaro. E non preoccupiamoci se la musica si deve definire scienza del misurare ritmico, ovvero del misurare ritmico secondo arte.
D. - Amo disprezzare vivamente le polemiche verbali; tuttavia codesta tua distinzione non mi dispiace.

Musica e scienza.

4. 5. M. - Rimane da esaminare il motivo, per cui nella definizione s'implica scienza.
D. - D'accordo. Rammento che il procedimento lo richiede.
M. - Rispondi dunque se, secondo te, a primavera l'usignolo moduli con arte la voce. Il suo canto è difatti ritmico e molto armonioso e, salvo errore, è conveniente alla stagione.
D. - D'accordo.
M. - È dunque capace di disciplina liberale?
D. - No.
M. - Vedi dunque che il termine di scienza è indispensabile alla definizione.
D. - Lo vedo bene.
M. - Rispondimi dunque, se vuoi. Ritieni eguali all'usignolo coloro che, mossi da una certa sensibilità, cantano secondo arte, cioè ritmicamente e armoniosamente, sebbene interrogati sul ritmo e la successione dei suoni acuti e gravi non sanno rispondere?
D. - Li giudico del tutto eguali.
M. - E quelli che, senza avere questa scienza, ascoltano volentieri, si devono paragonare a certi animali? Si può infatti vedere che elefanti, orsi e altre specie di animali si muovono ritmicamente al canto e che gli uccelli stessi traggono diletto dalla propria voce. Non canterebbero infatti con tanta assiduità se, essendo escluso ogni interesse, non avessero soddisfazione.
D. - La penso così, ma è un'offesa contro quasi tutto il genere umano.
M. - Non è come la pensi. Infatti uomini eccellenti, sebbene profani della musica, vogliono talora adattarsi alla massa che non differisce molto dalle bestie e che comprende un numero straordinario d'individui. E lo fanno con molta liberalità e tatto. Ma qui non è il caso di parlarne. Anche dopo le grandi preoccupazioni, allo scopo di ristorare e rinfrancare lo spirito, si può con grande moderazione ricevere un po' di divertimento dai canti. E prenderlo qualche volta a questa condizione è segno di grande moderazione. Ma lasciarsene prendere anche qualche volta è vergognoso e indegno.

Imitazione e ragione dell'arte.

4. 6. Che te ne sembra? Coloro che suonano il flauto, la cetra e simili strumenti si possono paragonare all'usignolo?
D. - No.
M. - Quale n'è la differenza?
D. - In costoro scorgo una certa arte, in quello la natura soltanto.
M. - Esprimi un concetto probabile. Ma ti sembra che si deve considerare arte, anche se eseguono per imitazione?
D. - E perché no? A mio avviso, l'imitazione ha tanto valore nelle arti che con la sua eliminazione tutte potrebbero cessare. Anche gli insegnanti si offrono ad essere imitati e questo appunto essi denominano insegnare.
M.- Ritieni che l'arte è una determinata ragione e che si valgono della ragione coloro che si valgono dell'arte, ovvero no?
D. - Sì.
M.- Chi dunque non può usare la ragione, non può usare l'arte.
D. - Anche questo concedo.
M.- Ritieni che gli animali privi di parole e che quindi sono considerati irragionevoli possono usare la ragione?
D. - Assolutamente no.
M. - Allora o dovrai considerare animali ragionevoli le gazze, i pappagalli e i corvi, ovvero senza criterio hai congiunto l'imitazione al concetto di arte. Osserviamo infatti che questi uccelli cantano e fischiano molti motivi alla maniera degli uomini e che lo fanno per imitazione. Che te ne sembra?
D. - Non comprendo ancora del tutto come hai fatto a imbastire questa conclusione e fino a qual punto essa è valida contro la mia risposta.
M. - Ti avevo chiesto se, secondo te, i citaristi, i flautisti e altri suonatori del genere esercitano arte, anche se hanno raggiunto l'abilità nel suonare con l'imitazione. Hai risposto che è arte ed hai sostenuto che l'imitazione ha tanta importanza da sembrare che eliminandola tutte le arti potrebbero essere destituite. Ne può conseguire che chi ottiene un effetto mediante imitazione, fa arte, anche se eventualmente non ogni individuo che fa arte l'ha raggiunta con l'imitazione. Ma se l'imitazione è arte e l'arte è razionalità, l'imitazione è razionalità. Ma l'animale irragionevole non usa la ragione, quindi non è capace di arte, però è capace di imitazione, quindi l'arte non è imitazione.
D. - Io ho affermato che molte arti si fondano sulla imitazione, non ho considerato arte la stessa imitazione.
M. - Ma, a tuo parere, le arti che si fondano sulla imitazione, non si fondano sulla ragione?
D. - Anzi io penso che si fondano su entrambe.
M. - Non faccio obiezioni. Ma la scienza dove la fondi, sulla ragione o sull'imitazione?
D. - Anch'essa su entrambe.
M. - Dunque riconosci la scienza agli uccelli. Hai loro riconosciuto la capacità d'imitare.
D. - No, perché ho affermato che la scienza sussiste in entrambe sicché è impossibile che sia nella sola imitazione.
M. - E ritieni che possa essere nella sola ragione?
D. - Sì.
M. - Quindi pensi che arte e scienza si differenziano. Infatti la scienza può sussistere nella sola ragione, l'arte invece esige l'unione di imitazione e ragione.
D. - Non veggo la conseguenza. Io avevo affermato che molte e non tutte le arti sono costituite da ragione ed insieme da imitazione.
M. - E considererai scienza la nozione che risulta da entrambe, ovvero le concederai soltanto la dimensione della ragione?
D. - E che cosa m'impedisce di considerarla scienza, quando alla ragione si unisce l'imitazione?

Scienza ed esecuzione musicale.

4. 7. M. - Stiamo trattando ora del citarista, del flautista, e cioè delle esecuzioni musicali. Dimmi dunque se al corpo, cioè a una certa sua soggezione, si deve attribuire quanto questi individui producono per imitazione.
D. - Ma io penso che si deve attribuire allo spirito e insieme al corpo. Quando hai detto soggezione al corpo, hai usato un termine veramente appropriato. Il corpo infatti può essere soggetto soltanto allo spirito.
M. - Noto che con molto discernimento hai attribuito l'imitazione non soltanto al corpo. Ma potresti affermare che la scienza non appartiene esclusivamente allo spirito?
D. - E chi lo potrebbe?
M. - Dunque ti è assolutamente impossibile far dipendere da ragione e imitazione una scienza consistente nei suoni delle cetre e dei flauti. Infatti, come hai ammesso, non si dà imitazione senza l'intervento del corpo. Hai affermato anche al contrario che la scienza è soltanto dello spirito.
D. - Riconosco che è logica conclusione delle concessioni che ho fatte. Ma che me ne importa? Anche il flautista potrà avere scienza nello spirito. Quando infatti si associa l'imitazione che, come ho detto, non è possibile senza il corpo, essa non sottrarrà l'oggetto che egli tiene presente allo spirito.
M. - Non lo sottrarrà certamente. Ma io non intendo affermare che son privi di scienza tutti coloro che usano simili strumenti. Affermo che non tutti ne son capaci. Stiamo trattando questo problema per intendere, se è possibile, con quanto discernimento è stata posta la scienza nella definizione di musica. Che se di essa fossero capaci tutti i flautisti, citaristi e altri suonatori del genere, penso che nulla vi sarebbe di più banale e volgare di tale disciplina.

Scienza, memoria e senso.

4. 8. Ma segui con tutta l'attenzione perché rimanga evidente il risultato della nostra lunga indagine. Mi hai già concesso che scienza è soltanto nello spirito.
D. - E perché non concederlo?
M. - E il senso dell'udito lo attribuisci allo spirito, al corpo o a entrambi?
D. - Ad entrambi.
M. - E la memoria?
D. - Penso che sia da attribuire allo spirito. Anche se percepiamo qualche cosa sensibilmente e lo affidiamo alla memoria, non per questo si deve pensare che la memoria abbia sede nel corpo.
M. - Codesto è forse un problema importante, ma non attinente all'attuale argomento. Ma per quanto basta all'intento, non puoi negare, come penso, che le bestie hanno la memoria. Le rondini dopo un anno tornano ai nidi. Delle capre è stato detto con verità: Ricordano la strada per tornare all'ovile anche le stesse 2 [capre]. Ed è cantato nel poema che il cane riconobbe l'eroe suo padrone, ormai dimenticato dai familiari 3. E se volessimo, potremmo allegare innumerevoli casi, dai quali risulta quanto sto affermando.
D. - Non lo nego, ma sto aspettando con impazienza l'aiuto che ne aspetti.
M. - E quale, secondo te? Affermo semplicemente che se si attribuisce scienza unicamente all'essere spirituale e la si nega a tutti i bruti, viene accreditata soltanto al pensiero e non al senso e alla memoria. Infatti il senso non sussiste fuori del corpo ed esso e la memoria sono comuni anche alle bestie.
D. - Anche qui mi sto chiedendo a quale scopo.
M. - A questo. Vi sono individui che si arrestano alla esteriore esteticità e affidano alla memoria quanto soddisfa il loro gusto e muovendo il corpo secondo tale regola, vi associano una certa capacità d'imitazione. Ma essi non hanno scienza, anche se apparentemente eseguono secondo le norme dell'arte e della cultura, a meno che non afferrino con puro e ideale pensiero l'azione che eseguono o esibiscono. E se ragionevolmente si potesse dimostrare che tali sono gli attori drammatici, non avresti, a mio avviso, motivo per esitare a negar loro la scienza, e conseguentemente a non conceder loro la vera musica, che è appunto scienza del misurare ritmicamente.
D. - Spiega un po' il concetto, vediamone il significato.

Scienza e pratica.

4. 9. M. - Penso che non accrediti alla scienza ma alla pratica la maggiore o minore agilità delle dita.
D. - E perché lo penseresti?
M. - Perché poco fa soltanto allo spirito hai attribuito la scienza. Ora tu puoi constatare che tale abilità è soltanto del corpo, sebbene sotto il comando dello spirito.
D. - Ma appunto perché lo spirito dotato di scienza comanda al corpo tale abilità, questa, secondo me, si deve attribuire allo spirito, anziché alle membra che eseguono.
M. - Secondo te, si può dare il caso che un musicante valga per scienza più d'un altro, sebbene il meno informato muove con maggior facilità e agilità le dita?
D. - Sì.
M. - Ma se il movimento rapido e più agile delle dita dovesse assegnarsi alla scienza, tanto più si sarebbe abili, quanto più si è dotati di scienza.
D. - D'accordo.
M. - Considera anche questo caso. Penso che qualche volta hai osservato artigiani e altri operai. Essi con l'ascia o con la scure battono sempre allo stesso posto e menano il colpo soltanto dove la loro intelligenza indica. E talora siamo da loro scherniti, se nel tentativo di fare altrettanto, non vi riusciamo.
D. - È come tu dici.
M. - Ma quando non vi riusciamo, non sappiamo forse il punto da colpire o la lunghezza del pezzo da staccare?
D. - Qualche volta non lo sappiamo, qualche volta sì.
M. - Supponi dunque che un tale sappia tutto ciò che gli artigiani debbono fare e che lo sappia alla perfezione, sebbene sia meno capace nell'esecuzione, e che sia perfino in grado di suggerire agli abilissimi esecutori con maggiore competenza di quanto essi non sappiano giudicare. Puoi affermare che questa capacità non derivi dalla pratica?
D. - No.
M. - Quindi non solo si devono attribuire all'esercizio anziché alla scienza la celerità e l'agilità, ma anche la misura del movimento nelle membra. Altrimenti, più si è dotati di scienza e meglio si userebbero le mani. Lo diciamo in riferimento all'auletica e alla citaristica, in cui sono interessate le dita e le articolazioni. Per noi è un affare piuttosto difficile. Ma non per questo dobbiamo pensare che si tratti di scienza, anziché di pratica e di assidua imitazione ed esercizio.
D. - Non posso più obiettare. Spesso sento dire che medici assai colti sono superati dai meno colti nelle amputazioni e nelle incisioni di vario genere, per quell'aspetto che richiede l'uso delle mani e dei ferri. Definiscono chirurgia questo settore della medicina. Con tale termine si designa appunto una determinata pratica di medicare mediante l'operazione delle mani. Quindi passa ad altro e chiudi ormai l'argomento.

Scienza e doti naturali.

5. 10. M. - A mio parere, ci rimane da chiarire, se ne siamo capaci, un altro argomento. Queste arti, che ci dilettano mediante l'esecuzione delle mani, per conseguire l'efficacia della pratica, non hanno derivato dalla scienza, ma dal senso e dalla memoria. Altrimenti tu mi potresti obiettare che in alcuni è possibile la scienza senza la pratica, e talora tanto più eccellente che in coloro, i quali si distinguono per la pratica, ma che tuttavia anche costoro non hanno potuto raggiungere tanta pratica senza la scienza.
D. - Comincia; è chiaro che dovrebbe esser così.
M. - Hai mai ascoltato con interesse i mimi?
D. - Con maggior interesse di quanto vorrei.
M. - Come avviene, secondo te, che la massa profana acclama un flautista il quale butta fuori banali accordi e poi applaude un bravo cantante ed è tanto più profondamente emozionata, quanto più il canto è melodioso? Si deve pensare che la massa si comporta così per competenza nell'arte musicale?
D. - No.
M. - E allora?
D. - Penso che si deve alla natura che ha dato a tutti la facoltà di udire, competente del giudizio in materia.
M. - Pensi bene. Ma considera se anche il flautista è dotato di tale facoltà. Se è così, seguendo il giudizio della facoltà stessa, può muovere le dita, mentre soffia nel flauto, fissare e consegnare alla memoria ciò che suona più agevolmente secondo una propria inclinazione e abituare le dita a muoversi senza esitazione ed errore. E ciò tanto nel caso che esegua la composizione di un altro o che componga lui. E, come è stato detto, è la natura che agisce da guida e da criterio. Quindi nell'atto che la memoria segue il senso, e le articolazioni, gradualmente addestrate e rese idonee, seguono la memoria, il musicante, quando lo vuole, suona con tanto maggior perizia tecnica, quanto più eccelle in quelle doti che, dianzi, l'indagine ha mostrato comuni a noi e alle bestie, e cioè la tendenza ad imitare, il senso, la memoria. Hai qualche cosa da dire in contrario?
D. - No, non ho nulla. Ma ormai desidero udire le caratteristiche della disciplina, che vedo negata mediante argomenti stringenti alle capacità degli individui privi d'istruzione.

Il cantante e i suoi tifosi...

6. 11. M. - Non è ancora svolto sufficientemente l'argomento e non permetterò che si passi all'argomento successivo senza una chiarifica. È stato da noi accertato che i mimi possono senza la scienza musica soddisfare il gusto della massa. Allo stesso modo dovrà essere accertato che i mimi non possono in alcuna maniera apprendere e avere conoscenza della musica.
D. - Mi meraviglierei se ci riesci.
M. - È facile, ma devi essere più attento alle mie parole.
D. - Per quanto ne so io, non sono stato mai svagato nell'ascoltarti da quando ha avuto inizio il nostro discorso, ma confesso che ora mi costringi a concentrarmi maggiormente.
M. - Te ne son grato, quantunque tu lo faccia per il tuo interesse. E allora, per piacere, rispondimi, se, secondo te, sapeva che cosa fosse un soldo aureo, quel tizio, il quale volendo valutarlo al giusto scambio, pensò che valesse dieci sesterzi.
D. - Ma chi potrebbe pensarlo?
M. - E allora dimmi che cosa si deve stimar di più, i contenuti di cultura della nostra intelligenza o il riconoscimento che eventualmente ci viene accordato dagli illetterati?
D. - Non v'è dubbio che l'intelligenza è superiore a tutte le altre cose che neanche si dovrebbero considerar nostre.
M. - E puoi negare che ogni scienza è contenuto della intelligenza?
D. - E chi potrebbe?
M. - Anche la musica dunque è nell'intelligenza.
D. - Rilevo che consegue dalla sua definizione.
M. - E non ritieni che la popolarità e le ricompense tributate agli attori appartengono a quell'ordine di cose, che è posto nel potere della fortuna e nel giudizio degli ignoranti?
D. - A mio avviso, non si dà cosa tanto casuale, sottoposta agli accadimenti e soggetta al dominio e all'approvazione della massa, come quelle.
M. - E a tal prezzo i mimi venderebbero i propri canti, se avessero scienza della musica?
D. - Sono assai convinto della conclusione, ma avrei una leggera obiezione in contrario. Non mi pare che l'individuo, il quale scambiava il soldo, si debba paragonare al mimo. Egli infatti, col ricevere gli applausi e l'onorario elargitogli, non perde la scienza, seppur ne è in possesso, con cui ha soddisfatto il gusto della massa. Ma se ne torna a casa più colmo di ricchezza, più lieto per la popolarità e con la propria scienza incolume e integra. Sarebbe stolto se disprezzasse questi vantaggi, perché non ricevendoli sarebbe molto meno illustre e più povero, ricevendoli non è meno dotto.

...e i lauti guadagni.

6. 12. M. - Vedi allora se col seguente argomento otteniamo il nostro intento. Tu ritieni, penso, che ha molto più valore il fine, per cui agiamo, che l'azione stessa.
D. - È chiaro.
M. - Dunque chi canta o impara a cantare soltanto per ottenere l'esaltazione dal popolo o da qualche individuo, non giudica migliore quell'esaltazione che il canto?
D. - Mi è impossibile negarlo.
M. - E chi giudica male una cosa, secondo te, ne ha scienza?
D. - Per nulla affatto, a meno che eventualmente non sia diventato in qualche modo squilibrato.
M. - Quindi chi giudica migliore una cosa peggiore, senza dubbio è privo della conoscenza della cosa?
D. - Sì.
M. - Se dunque mi convincerai o dimostrerai che un mimo ha conseguito ed esibisce la propria abilità, seppur ce l'ha, non per piacere alla massa a scopo di lucro e di celebrità, allora ti concederò che è possibile avere scienza della musica ed essere un mimo. Ma se è assai probabile che si fa il mimo soltanto per proporsi esclusivamente come fine della professione il lucro e la celebrità, devi ammettere o che i mimi non hanno vera conoscenza della musica, oppure che fanno meglio essi a chiedere popolarità e altri vantaggi soggetti al caso, che noi l'intelligenza. [E poiché essi chiedono dagli altri fama e vantaggi, ma non chiedono da noi intelligenza, quando apprezzano sconsideratamente ciò che è illiberale appunto perché più piacevole, appare che non ne hanno scienza].
D. - Ho concesso le premesse. Veggo che devo concedere anche la conclusione. Mi pare impossibile trovare un uomo di teatro che ami la propria arte per se stessa e non per vantaggi estranei. A stento se ne potrebbe trovare qualcuno dal ginnasio. Ma se qualcuno ve n'è stato o ve ne sarà, non sembra che per questo si devono disprezzare i musici, ma piuttosto riabilitare una buona volta i mimi. Quindi esponi, per favore, le caratteristiche di questa grande disciplina, che ormai non m'è più possibile considerare illiberale.

Leggi musicali dei movimenti-numeri (7, 13 - 13, 28)

Lentezza e velocità.

7. 13. M. - Lo farò, anzi lo farai tu. Io mi limiterò a porti delle frequenti domande. Tu con le risposte esporrai tutto ciò che riguarda l'argomento e ciò che ti sembra di dover cercare perché attualmente lo ignori. E prima di tutto ti chiedo se si possa correre lungamente e velocemente.
D. - È possibile.
M. - E lentamente e velocemente?
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Altro è dunque " lungamente " e altro " lentamente ".
D. - Certo.
M. - Chiedo ugualmente qual è, secondo te, l'opposto di una lunga durata, come la velocità è l'opposto della lentezza.
D. - Non mi viene in mente un termine in uso. Ma noto che posso opporre a " lungamente durevole " soltanto " non lungamente durevole ". In definitiva al termine " lungamente " è opposto l'altro " non lungamente ", allo stesso modo che se non volessi usare " velocemente " e preferissi dire " non lentamente ", si avrebbe il medesimo significato.
M. - Giusto. Non si sottrae nulla alla verità, quando si parla così. Infatti anche io non ricordo se esiste questo nome che anche tu dici di non rammentare, o perché lo ignoro o al momento non mi viene in mente. Quindi stabiliamo di chiamare queste due coppie di contrari in questo modo: " lungamente " e " non lungamente ", " lentamente " e " velocemente ". E prima di tutto, se vuoi, discutiamo sul " lungamente durevole " e " non lungamente durevole ".
D. - Va bene.

Legge armonica nei rapporti numerici.

8. 14. M. - È evidente per te che si dice durare lungamente ciò che dura un lungo tempo e non lungamente ciò che dura un breve tempo?
D. - Sì.
M. - E dunque il movimento che dura, ad esempio, due ore, dura il doppio di quello di un'ora?
D. - Che dubbio?
M. - Dunque il concetto di " lungamente " o " non lungamente " si può ridurre a rapporti determinati e a numeri. Così un movimento è all'altro nel rapporto di due a uno, cioè uno ha due volte una durata in rapporto a un altro che l'ha una sola volta. Egualmente un movimento sta ad un altro nel rapporto di tre a due, cioè uno dura tre porzioni di tempo in rapporto ad un altro che ne dura due. Si può così percorrere la serie dei numeri, non in lunghezze illimitate e indeterminate, ma in maniera che due movimenti siano in rapporto mediante un numero, o il medesimo, come uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, o non il medesimo, come uno a due, due a tre, tre a quattro, oppure uno a tre, due a sei e tutti gli altri numeri che siano fra di sé commensurabili.
D. - Più chiaramente, prego.
M. - Ritorna dunque all'esempio delle ore ed applica ai singoli casi il mio discorso su un'ora e due ore che, come pensavo, doveva bastarti. Ammetti certamente che si può dare un movimento di un'ora e un altro di due.
D. - D'accordo.
M. - E non l'ammetti anche per un movimento di due ore e un altro di tre?
D. - Sì.
M. - E non è evidente anche per uno di tre e un altro di quattro, ovvero per uno di una e un altro di tre, per uno di due e un altro di sei?
D. - Sì.
M. - E allora perché l'esposto non sarebbe chiaro? Affermavo proprio questo, quando dicevo che il rapporto fra due movimenti può essere indicato da un numero, come uno a due, due a tre, tre a quattro, uno a tre, due a sei ed altri che si vogliano considerare. Conosciuti questi rapporti è anche possibile determinare gli altri, come di sette a dieci, di cinque a otto e all'infinito per ogni altro rapporto che si rinvenga fra due movimenti proporzionalmente commensurabili. Di essi si può dire appunto che sono proporzionali, tanto se i due numeri sono eguali, come se uno è maggiore e uno minore.
D. - Ora capisco e ammetto che è possibile.

Movimenti commisurati eguali e ineguali.

9. 15. M. - E comprendi anche, suppongo, che la misura e il limite sono giustamente da considerarsi più perfetti della mancanza di misura e di limite.
D. - Indiscutibile.
M. - Dunque due movimenti che sono in rapporto, come già detto, secondo una misura numerica, sono da considerarsi più perfetti di quelli che non l'hanno.
D. - Anche questa conseguenza è evidente poiché la misura ben definita esistente nei numeri li rapporta l'uno all'altro. Quelli che ne sono privi non sono uniti fra di sé da una determinata ragione di commensurabilità.
M. - Allora possiamo appunto denominare, se sei d'accordo, razionali quelli che sono commisurati e irrazionali quelli che sono privi di commisurazione.
D. - D'accordo.
M. - Ed ora rifletti se, secondo te, la proporzionalità esistente nei movimenti razionali fra di sé eguali è maggiore che in quelli ineguali.
D. - Chi potrebbe avere un'altra opinione?
M. - Inoltre fra gli ineguali ve ne sono alcuni, dei quali possiamo dire con quale parte proporzionale il maggiore equivale al minore o lo supera, come due a quattro e sei a otto, ed altri, di cui non è possibile dire lo stesso, come nei seguenti numeri: tre e dieci, quattro e undici. Vedi certamente che nella prima coppia la metà del maggiore equivale al minore, nella seconda che ho fatto seguire, il maggiore supera il minore di un quarto. Nelle due ultime coppie al contrario, appunto tre e dieci, quattro e undici, vediamo una certa proporzione perché le parti sono in un determinato rapporto di tanto a tanto, ma non come nelle prime due. Non si può assolutamente dire infatti qual è la parte proporzionale del maggiore che equivale al minore né quella con cui lo supera. Non si può affermare che il tre è parte proporzionale del dieci o il quattro dell'undici. Quando ti dico di considerare una parte proporzionale, intendo parlare di una parte semplice e senza altra aggiunta, come una metà, una terza, una quarta, una quinta, una sesta parte e così via. Non si deve cioè aggiungere una terza parte o una ventiquattresima parte d'una parte e altre suddivisioni del genere.
D. - Adesso capisco.

Movimenti ineguali connumerati e dinumerati.

9. 16. M. - Ho proposto due tipi di movimenti razionali ineguali chiarendoli con esempi di numeri. Tu dunque quali ritieni più perfetti, quelli, di cui è possibile esprimere la parte proporzionale o quelli, di cui non è possibile?
D. - La logica, mi pare, ci impone di considerare più perfetti quelli, di cui, come è stato dimostrato, si può dire, nel confronto con gli altri, in cui ciò non avviene, che il maggiore equivale o supera con una sua parte proporzionale il minore.
M. - Bene. Vuoi anche che imponiamo ad essi un nome? Così, quando in seguito sarà necessario richiamarli, discuteremo più speditamente.
D. - Ben volentieri.
M. - Denominiamo quindi connumerati quelli che abbiamo dichiarato più perfetti e dinumerati quelli meno perfetti. Ne è motivo che i primi sono numerati non solo presi singolarmente, ma sono numericamente proporzionali anche in quella parte, con cui il maggiore equivale o supera il minore; gli altri invece costituiscono un rapporto numerico soltanto presi singolarmente, mentre non sono numericamente proporzionali nella parte con cui il maggiore si equivale o supera il minore. Di essi è impossibile infatti esprimere quante volte il maggiore contiene il minore o quante volte il maggiore e il minore contengono quella parte, con cui il maggiore supera il minore.
D. - Accetto questi termini e, per quanto ne son capace, farò di ricordarmene.

Movimenti-numeri moltiplicati e sesquati.

10. 17. M. - Ora esaminiamo una possibile classificazione dei connumerati. Penso che sia chiara. Il primo tipo di connumerati è quello, in cui il numero minore misura il maggiore, cioè il maggiore contiene un determinato numero di volte il minore, secondo l'esempio già addotto di due e quattro. Osserviamo infatti che il due è contenuto nel quattro due volte. Di seguito si ha il tre, se, in rapporto col due, invece del quattro poniamo il sei, quattro, se l'otto, cinque, se il dieci. Il secondo tipo è quello, in cui la parte, con la quale il maggiore supera il minore, li misura entrambi, cioè il maggiore e il minore la contengono un determinato numero di volte. L'abbiamo osservato nei numeri sei e otto. Infatti la parte eccedente il minore è il due, che è contenuto quattro volte nell'otto e tre nel sei. Dunque anche ai movimenti in oggetto e ai numeri, per cui ci si chiarisce quanto vogliamo apprendere sui movimenti, diamo un nome distintivo, poiché ormai, salvo errore, la loro caratteristica è evidente. Pertanto, se a te è già chiara, quelli in cui il maggiore si ottiene moltiplicando il minore, siano chiamati moltiplicati, gli altri, col nome consueto, sesquati. Si dice infatti sesque un rapporto esistente fra due numeri, per cui il maggiore ha tante parti in più del minore, quanta è la parte proporzionale, con cui lo supera. Ad esempio, se è tre a due, il maggiore supera il minore di un terzo; se quattro a tre, di un quarto; se cinque a quattro, di un quinto, e così via. Il medesimo rapporto si ha anche nel sei a quattro, nell'otto a sei, nel dieci a otto. Si può apertamente avvertire tale rapporto anche nei numeri successivi e nei più alti. Non saprei dire l'etimologia del nome, a meno che sesque non significhi se absque, cioè senza di sé, perché nel cinque a quattro senza la sua quinta parte il maggiore equivale il minore. Ti chiedo che te ne sembra.
D. - A me sembra che la teoria sulle misure numeriche sia assolutamente vera. Mi sembra che i termini da te introdotti siano adatti a significare i concetti da noi espressi. In quanto all'etimologia del vocabolo, che hai esposto per ultimo, non mi pare irragionevole, sebbene non sia quella tenuta presente da chi per primo ha usato il termine.

Legge ritmica nell'illimite e...

11. 18. M. - Approvo e accetto il tuo parere. Ma tutti i movimenti razionali, cioè che sono in rapporto secondo una misura numerica, possono numericamente andare all'infinito, se una regola esatta non li limita e li riduce a una formula determinata. Lo vedi bene? Comincio dagli eguali. Se dico: uno a uno, due a due, tre a tre, quattro a quattro, e così via, non v'è una fine perché il numero stesso non ha fine. Questa è appunto la legge del numero, che determinato è finito, non determinato è infinito. E puoi notare che quanto avviene per gli eguali, avviene anche per gli ineguali, tanto moltiplicati che sesquati, connumerati o dinumerati. Se infatti cominci con l'uno a due e persisti nella serie, dicendo uno a tre, uno a quattro, uno a cinque, e così via, non si avrà un limite. Egualmente, se la differenza è due, come uno a due, due a quattro, quattro a otto, otto a sedici e di seguito, non si ottiene un limite. Si va egualmente all'infinito, se tenti col tre, col quattro e qualsiasi altro numero. Così si comportano anche i sesquati. Infatti quando si dice: due a tre, tre a quattro, quattro a cinque, ti accorgi di poter continuare senza incontrare limite, anche se preferisci, rimanendo nello stesso tipo, dire due a tre, quattro a sei, sei a nove, otto a dodici, dieci a quindici, e così via. Dunque anche in questo tipo, come negli altri, non s'incontra un limite. Non c'è bisogno di parlare dei dinumerati. Da quanto è stato detto, ciascuno può ben comprendere che anche nella loro serie non si ha un limite. Non sei d'accordo?.

...legge metrica nel limite.

11. 19. D. - Niente di più vero. Ma attendo con impazienza di conoscere la regola che riduce tale illimitatezza a una determinata misura e stabilisce una formula che non si può oltrepassare.
M. - Ti accorgerai di conoscere anche questa formula, come gli altri concetti, quando risponderai esattamente alle mie domande. Dunque giacché stiamo trattando dei movimenti numericamente misurabili, ti chiedo prima di tutto se dobbiamo rivolgerci ai numeri per giudicare che nei movimenti si devono avvertire e osservare le leggi indicateci come rigidamente esatte dai numeri stessi.
D. - Mi va, penso che sia il metodo migliore.
M. - Dunque, se vuoi, iniziamo l'indagine dal principio stesso dei numeri. Esaminiamo, per quanto siamo capaci di conoscere con le forze della nostra mente, quale sia la ragione per cui, quantunque il numero vada all'infinito, come abbiamo detto, gli uomini, nel numerare, abbiano stabilito delle partizioni, da cui tornare all'uno, che è il principio dei numeri. Nel numerare infatti progrediamo dall'uno al dieci e da lì torniamo all'uno. Se si vuole prendere la serie delle decine e si numera dieci, venti, trenta, quaranta, si progredisce fino a cento, se quella delle centinaia, si hanno cento, duecento, trecento, quattrocento e in mille è il traguardo, da cui tornare indietro. Che bisogno d'indagare ancora? Intendo parlare, lo vedi certamente, di quelle partizioni, la cui prima regola è imposta dal numero dieci. Infatti come dieci contiene dieci volte l'uno, così cento contiene dieci volte il dieci e mille dieci volte cento. Così di seguito, finché si vuol continuare, la serie delimitata dal numero dieci, si svolgerà in tali partizioni. Ti rimane incomprensibile qualche cosa?.
D. - Son tutti concetti chiarissimi e assolutamente veri.

Numero completo il tre...

12. 20. M. - Esaminiamo dunque, con quanta diligenza è possibile, la ragione per cui si ha l'estensione fino al dieci e indi il ritorno all'uno. Ti chiedo dunque se ciò che si denomina principio può esserlo senza esserlo di qualche cosa.
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Egualmente ciò che si dice fine può esserlo senza esserlo di qualche cosa?
D. - Anche questo è impossibile.
M. - E pensi che si possa giungere dal principio alla fine senza attraversare il medio?
D. - No.
M. - Dunque perché si abbia un tutto, esso deve risultare dal principio, dal medio e dalla fine.
D. - Sì.
M. - Dimmi dunque in quale numero, secondo te, sono contenuti principio, medio e fine.
D. - Intendi, come suppongo, che ti risponda tre, perché tre sono gli elementi, su cui mi domandi.
M. - Supposizione esatta. Vedi dunque che nel tre si ha una certa perfezione perché è completo. Ha infatti il principio, il medio e la fine.
D. - Certamente.
M. - E non abbiamo appreso fin dalla fanciullezza che il numero è di per sé pari o dispari?
D. - Vero.
M. - Richiama alla mente dunque e dimmi come si definisce abitualmente il pari e come il dispari.
D. - Si dice pari quello che si può dividere in due parti eguali, dispari quello che non si può.

...e il quattro, principi l'uno e il due.

12. 21. M. - Hai il concetto. Ora il tre è il primo dispari completo perché, come è stato detto, consta di principio, medio e fine. Non è necessario dunque che vi sia anche un pari completo e perfetto, in cui si abbiano principio, medio e fine?
D. - Certamente.
M. - Ma esso, qualunque sia, non può avere il medio indivisibile come il dispari. Se l'avesse, non potrebbe esser diviso in due parti eguali, perché, come abbiamo detto, questa è caratteristica del numero pari. Medio indivisibile è l'uno, divisibile il due. E medio nei numeri è quello, da cui le due parti sono fra di sé eguali. È stato esposto qualche concetto oscuro, che meno comprendi?
D. - Anzi anche questi concetti sono per me evidenti. Sto cercando appunto un numero pari completo e mi si presenta per primo il quattro. Nel due non è possibile infatti rinvenire i tre elementi, per cui il numero è completo, e cioè il principio, il medio e la fine.
M. - Hai risposto proprio come volevo e come la logica esige. Riprendi attentamente l'esame dell'uno. Vedrai che esso non ha né medio né fine, perché è soltanto principio, o meglio è principio perché è privo del medio e della fine.
D. - Chiaro.
M. - Che dire del due? In esso non possiamo concepire il principio e il medio, perché il medio si ha soltanto dove c'è la fine, né il principio e la fine, perché è impossibile raggiungere la fine senza attraversare il medio.
D. - La logica mi costringe ad accettare; rimango quindi molto perplesso che rispondere su questo numero.
M. - Esamina se anche esso possa essere principio di numeri. Intanto manca del medio e della fine e tu stesso hai detto che la logica ti costringe ad accettare tale conclusione. Resta che anche esso sia principio. Oppure rimani perplesso nello stabilire due principi?
D. - Sì, molto perplesso.
M. - Faresti bene, se i due principi fossero costituiti per opposizione. Invece nel caso nostro questo secondo principio deriva dal primo. Questo da nessuno, l'altro da esso. Infatti uno e uno fanno due, ed entrambi sono principi, pur restando che tutti i numeri derivano dall'uno. Ma poiché i numeri sono originati dalla moltiplicazione e dalla addizione, l'origine del prodotto e della somma giustamente si attribuisce al due. Ne deriva che l'uno è il principio, da cui tutti i numeri procedono e il due è il principio, per mezzo del quale tutti i numeri sono derivati. Hai qualche cosa in contrario da obiettare?.
D. - No, nulla e sebbene sono io a rispondere alle tue domande, non riesco a riflettere sull'argomento senza stupore.

Loro funzione nell'addizione.

12. 22. M. - L'argomento si studia più acutamente e profondamente in aritmologia. Adesso torniamo, quanto prima possibile, all'assunto. Ti chiedo dunque quanto fanno uno più due.
D. - Tre.
M. - Quindi i due principi dei numeri addizionati fanno il numero completo e perfetto.
D. - Sì.
M. - E nel numerare, dopo l'uno e il due quale numero poniamo?
D. - Il medesimo, tre.
M. - Dunque il medesimo numero, che si ottiene addizionando uno e due, è posto di seguito dopo entrambi, senza interposizione di altri.
D. - Sì, vedo.
M. - Ora è opportuno che tu veda anche questo. In tutti i rimanenti numeri non può avvenire che nell'addizionare due numeri successivi venga di seguito, senza interposto, quello che è la somma di entrambi.
D. - Anche questo vedo. Due e tre, che costituiscono la coppia successiva, addizionati danno la somma di cinque, ma immediatamente successivo non è il cinque, ma il quattro. Ancora, tre e quattro danno sette, ma fra quattro e sette ci sono il cinque e il sei. E quanto più vado avanti, tanti di più se ne interpongono.
M. - V'è dunque grande raccordo fra i primi tre numeri. Noi numeriamo: uno, due, tre, senza possibile interposizione, ed uno più due fanno tre.
D. - Grande davvero.
M. - E, secondo te, non è degno di considerazione che quanto più tale raccordo è reciprocamente serrato, tanto più tende a una certa unità e riduce i molti all'uno?
D. - Anzi di grandissima considerazione e, non so come, ammiro e amo l'unità che tu stai ponendo in rilievo.
M. - Molto bene. Ma qualsiasi accostamento e raggruppamento nell'ordine delle cose allora soprattutto produce l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi.
D. - Così appunto deve essere.

Massima proporzione è...

12. 23. M. - Presta attenzione dunque, affinché possiamo osservare il risultato nel seguente raggruppamento. Quando diciamo uno, due, tre, di tanto l'uno è superato dal due, di quanto il due dal tre, vero?
D. - Assolutamente vero.
M. - E dimmi quante volte in questo raggruppamento ho nominato l'uno.
D. - Una volta.
M. - Il tre?
D. - Una volta.
M. - E il due?
D. - Due volte.
M. - Dunque una volta, due volte, una volta quante volte fanno?
D. - Quattro.
M. - Logicamente quindi il quattro segue ai primi tre numeri, poiché l'essere aggiunto gli è stato dato dalla suddetta proporzione. E abituati a riconoscere il pregio della proporzione dal fatto che essa soltanto può produrre nelle cose disposte razionalmente l'unità che hai dichiarato di amare. Il termine greco è . I nostri l'hanno chiamata proporzione. Usiamo questo termine, se ti piace, perché non sarei disposto a usare, salvo necessità, parole greche nel discorso latino.
D. - A me piace, ma continua l'assunto.
M. - D'accordo. In seguito approfondiremo, nel settore più indicato di questa disciplina, il concetto di proporzione e il suo grande dominio nella realtà. E tu quanto più avanzerai nella formazione culturale, tanto meglio conoscerai la sua funzione e natura. Frattanto puoi vedere, e per il momento basta, che i primi tre numeri, di cui hai ammirato il raccordo, nel loro raggruppamento potevano risultare soltanto nel quattro. Esso ha ottenuto pertanto di diritto, come puoi comprendere, di succedere ad essi in maniera da essere legato da un più stretto raccordo con gli stessi. Così la serie dei numeri ha un intimo legame non solo in uno, due, tre, ma in uno, due, tre, quattro.
D. - Pienamente d'accordo.

...nel quattro...

12. 24. M. - Ma osserva le altre proprietà, affinché tu non debba supporre che il quattro sia privo di una caratteristica, mancante a tutti gli altri numeri e che invece è valida per il raggruppamento, di cui sto parlando. Si hanno appunto dall'uno al quattro una ben determinata numerazione e una razionale formula di successione numerica. Infatti è emerso dal nostro dialogo che allora soprattutto dai molti si ha l'uno, quando i medi si equivalgono agli estremi e gli estremi ai medi.
D. - Sì.
M. - Dimmi dunque quali sono gli estremi e quale il medio, quando numeriamo uno, due e tre.
D. - Uno e tre sono gli estremi, due il medio.
M. - E adesso rispondi quanto fa uno più tre.
D. - Quattro.
M. - E due, che è l'unico medio, si può addizionare soltanto a se stesso. Pertanto dimmi quanto dà due volte due.
D. - Quattro.
M. - Così dunque il medio è equivalente agli estremi e gli estremi al medio. Pertanto come nel tre è caratteristica determinante che è posto dopo l'uno e il due, poiché risulta da uno più due, così nel quattro è caratteristica determinante che è posto dopo uno, due e tre, poiché risulta da uno più tre e da due volte due. È questa l'equivalenza degli estremi col medio e del medio con gli estremi mediante la proporzione che in greco si dice . Dimmi se hai capito.
D. - Abbastanza.

...che non si ha nelle altre proporzioni.

12. 25. M. - Prova dunque se negli altri numeri si rinvenga la suddetta caratteristica del numero quattro.
D. - Sì. Se ci proponiamo due, tre, quattro, gli estremi addizionati fanno sei, altrettanto fa il medio raddoppiato, tuttavia di seguito non si ha il sei, ma il cinque. Mi propongo ugualmente tre, quattro, cinque; gli estremi addizionati fanno otto, altrettanto il medio raddoppiato, però fra il cinque e l'otto veggo interposti non soltanto uno ma due numeri, cioè il sei e il sette. E quanto più progredisco nell'operazione, tanto più numerose si rendono le interposizioni.
M. - Vedo che hai capito e addirittura che hai scienza di quanto è stato detto. Ma per non attardarci ancora, avverti che dall'uno al quattro avviene una successione assolutamente razionale. Essa si ha prima di tutto grazie al numero dispari e pari, poiché il primo dispari completo è il tre e il primo pari completo è il quattro. Ne abbiamo parlato poco fa. Inoltre l'uno e il due sono principi e quasi semi dei numeri e da essi risulta il tre. Sono così già tre numeri. E se essi vengono assommati secondo proporzione, appare ed è generato il quattro che ad essi giustamente si unisce. Si verifica così fino a questo numero quella ben definita successione che cerchiamo.
D. - Comprendo.

Il dieci numero limite.

12. 26. M. - Bene. Ma ti ricordi che cosa avevamo iniziato a cercare? Dato che nella illimitatezza dei numeri vi sono determinati partizioni per numerare, l'assunto era, come penso, poter trovare la ragione, per cui la prima partizione è nel numero dieci che ha un'importante funzione nel contesto degli altri numeri, perché, cioè, chi numera avanza fino al dieci e poi torna all'uno.
D. - Mi ricordo bene che a causa di questo problema abbiamo fatto parecchie digressioni, ma non trovo che abbiamo combinato qualche cosa per risolverlo. Tutta la lunga dimostrazione s'è fermata al punto che v'è razionale e ben definita successione non fino al dieci ma fino al quattro.
M. - Non vedi proprio dunque qual è il risultato della somma di uno, due, tre e quattro?
D. - Veggo finalmente, veggo, confesso che tutto ciò è ammirevole e che il problema proposto ha avuto soluzione. Uno più due, tre e quattro fanno proprio dieci.
M. - Dunque è ragionevole che questi primi quattro numeri, la loro successione e raggruppamento siano considerati di maggior pregio degli altri.

Rapporti di movimenti a numeri.

13. 27. È tempo di tornare all'esame e alla discussione dei rapporti di movimenti, che sono l'oggetto proprio di questa disciplina. Proprio per essi noi, nei limiti che ci son sembrati sufficienti allo scopo, abbiamo fatto delle considerazioni sui numeri, cioè su un'altra disciplina. Per ragioni d'intelligenza avevamo stabilito in durata di ore i movimenti che, come la logica richiedeva, sono rapportati secondo misura numerica. Poniamo dunque che un tale corra per la durata di un'ora e un altro di due. Ti chiedo dunque se ti è possibile, senza guardare orologio, clessidra o altro strumento di misura del tempo, percepire che dei due movimenti uno è scempio e l'altro è doppio, o che per lo meno, sebbene non puoi dir questo, avverti l'esteticità del rapporto e ne hai il sentimento.
D. - Assolutamente impossibile.
M. - Supponi che qualcuno batta le mani ritmicamente, in modo che un suono tenga una durata di tempo e l'altro due, quelli che appunto chiamano giambi, e che li ripeta legandoli in un contesto. Supponi anche che un altro balli a quel suono, muova cioè le membra rispettando quel tempo. Riconosceresti allora o esprimeresti anche la misura del tempo, cioè che quei due alternano nei movimenti un movimento scempio con uno doppio, tanto nella battuta che si ode, come nella danza che si vede? O per lo meno percepiresti l'esteticità del ritmo che ascolti, anche se non riesci a riconoscerne la misura ritmica?
D. - È proprio come tu dici. Infatti quelli che conoscono tali ritmi li avvertono nella battuta e nel ballo e ne riconoscono la struttura. Quelli che non li conoscono e non riescono ad esprimerli, non negano tuttavia di provare un diletto estetico.

La musica e i nostri sensi.

13. 28. M. - Poiché la musica è scienza del misurare ritmicamente secondo arte, non si può negare che appartengono alla sua stessa competenza di disciplina tutti i movimenti che sono misurati ritmicamente secondo arte e quelli soprattutto che non sono riferiti ad altro, ma hanno in sé come fine la bellezza estetica. Tuttavia se questi movimenti, come tu stesso hai detto, rispondendo con molta precisione alla mia domanda, durano troppo tempo e nella stessa misura, che è estetica, occupano un'ora o anche di più, non si adattano alla capacità dei nostri sensi. [È possibile tuttavia che il medesimo piede nel canto sia, mantenendo la struttura del rapporto, in un caso, di suoni più lunghi e in un altro, di suoni più brevi]. Pertanto la musica, uscendo in qualche modo dal suo inaccessibile recesso, ha lasciato certe impronte nei nostri sensi e negli oggetti sensibili. Non è dunque opportuno che noi dapprima seguiamo tali impronte per poter essere, se ne saremo capaci, più agevolmente condotti senza errore a quello che ho chiamato il suo recesso?
D. - È proprio opportuno e facciamolo subito, te ne prego.
M. - Lasciamo dunque gli intervalli di tempo che si estendono al di là della capacità dei nostri sensi. Discutiamo, nei limiti, in cui la ragione ci farà da guida, dei brevi spazi di tempo che ci dilettano nel canto e nella danza. Ma tu forse ritieni che è possibile scoprire in altro modo le orme che, come è stato già detto, questa disciplina ha impresso nei nostri sensi e negli oggetti che siamo capaci di percepire.
D. - Non ritengo affatto che sia possibile in altro modo.