LETTERA 103

Scritta all'inizio del 409.

Nettario scrive ad Agostino cercando di indurlo all'indulgenza usando blandizie ed esaltando un generico pacifismo (n. 1), ricordando che si deve amare non solo la patria celeste ma pure quella terrena (n. 2); la privazione dei beni è peggiore della morte; tutte le colpe sono uguali ed ugualmente degne di perdono (n. 3) perciò non deve essere applicata nessuna pena fisica o pecuniaria (n. 4).

AD AGOSTINO, SIGNORE GIUSTAMENTE ASSAI COMMENDEVOLE E FRATELLO SOTTO OGNI ASPETTO ONORANDO, NETTARIO AUGURA SALUTE NEL SIGNORE

Agostino è parso a Nettario come un focoso Cicerone.

1. Ricevuta la lettera dell'Eccellenza tua, con cui hai demolito il culto agli idoli e le cerimonie dei loro templi, ho avuto l'impressione di sentire la voce d'un filosofo, non però di quel tale che, si dice, era solito starsene appartato in un angolo oscuro del ginnasio dell'Accademia, immerso in profonda meditazione, col capo tra le ginocchia rialzate fino alla fronte, il quale, povero di scienza, nell'impossibilità di difendere le proprie idee, attaccava con calunnie le illustri scoperte e accusava le brillanti idee degli altri; ma vivamente colpito dalle tue parole, m'è parso vedere dritto davanti al mio sguardo l'antico console M. Tullio, il quale, dopo aver salvato la vita a innumerevoli suoi concittadini, coronato di alloro, portasse le insegne vittoriose dell'arengo forense nelle scuole stupefatte della Grecia: m'è parso che, ancora anelante, deponesse la tromba della sua voce e della sua lingua melodiosa che, ispirato da giusto sdegno, aveva fatto risuonare contro gli imputati e i parricidi dello Stato, respingendo dietro le spalle la stessa toga, sciogliendone le pieghe ben composte, facendole assumere l'aspetto d'un mantello greco.

Amare le due patrie: celeste e terrestre.

2. In conclusione, ho ascoltato volentieri le tue esortazioni all'adorazione e alla pietà verso l'altissimo Iddio: ho pure accolto con grato animo il tuo invito a contemplare la patria celeste. Mi sembrava infatti che tu parlassi non di una città racchiusa entro una cerchia di mura, né del mondo, che i filosofi nei loro trattati chiamano la patria comune di tutti, ma della città ove ha dimora e sede il sommo Dio e le anime che hanno ben meritato di Lui: alla quale tendono per vie e sentieri diversi tutte le leggi, la quale non si può descrivere a parole, ma può essere trovata solo col pensiero. Sebbene sia questa la città che dobbiamo certamente cercare ed amare soprattutto, tuttavia penso non si debba trascurare l'altra, in cui siamo nati e per cui siamo membri della stessa nazione: quella in cui i nostri occhi hanno visto per la prima volta la luce, che ci ha nutriti ed educati. Per esprimere poi un particolare relativo alla nostra questione dirò quanto affermano gli uomini più dotti, che cioè dopo la morte del corpo è preparata in cielo una dimora per i benemeriti di essa e che i servizi resi alle città che ci diedero i natali, sono come gradini per elevarci alla città superna ove dimorano, in più intima unione con Dio, coloro i quali risultano aver procurato la salvezza della patria col consiglio e con l'opera. Quando poi, facendo dello spirito, dici che la nostra città non arderebbe tanto per la guerra quanto piuttosto per le fiamme e per gli incendi, ciò non costituisce un rimprovero molto grave: è risaputo infatti che i fiori nascono per lo più dalle spine. Nessuno infatti dubita che le rose nascono dalle spine e le stesse spighe di grano siano protette da una palizzata di reste, cosicché molto spesso le cose soavi si trovano mescolate con le aspre.

Una vita di miserie è peggiore della morte.

3. Nell'ultima parte della lettera l'Eccellenza tua afferma che non si esige né la vita né il sangue d'alcuno per vendicare la Chiesa, ma che i colpevoli devono essere spogliati dei beni, cosa che temono di più. Io però - se non m'inganno - credo sia più insopportabile rimanere privi dei beni che essere uccisi. Poiché la morte - come spesso affermano gli scrittori nelle opere letterarie che tu ben conosci - toglie la sensazione di tutti i malanni, ed è più insopportabile trascinare una vita piena di malanni che porvi fine con la morte. Quanto affermo è dimostrato pure dalla natura stessa delle vostre occupazioni, con cui assistete i poveri, vi prendete cura degli afflitti, somministrate le medicine ai corpi malati; insomma fate del tutto perché i sofferenti non sentano a lungo i loro malanni. Riguardo poi alla misura dei peccati, non importa sapere a quale specie sembra appartenere il peccato, di cui si chiede il perdono. Anzitutto, se il pentimento dà diritto al perdono e cancella la colpa, esprime sicuramente tale pentimento con gli atti chi si raccomanda, chi abbraccia i piedi dell'offeso. Devi in secondo luogo sapere che tutti i peccati sono uguali, come pensano certi filosofi, e perciò anche il perdono dev'essere uguale per tutti. Se uno parla un po' troppo sfacciatamente, commette un peccato; se uno lancia delle insolenze o delle calunnie, commette un uguale peccato; se uno ruba la roba altrui, anche questo è da annoverarsi tra i peccati; se uno viola luoghi profani o sacri, neppure lui è da escludersi dal perdono. Insomma, non ci sarebbe alcuna occasione di perdonare, se prima non ci fossero dei peccati.

Le iatture dei cittadini muovano Agostino all'indulgenza.

4. Ho risposto dicendo forse troppo o troppo poco, come si suol dire, non quanto avrei dovuto ma solo quanto ho potuto. Orbene, ti prego e ti scongiuro (e magari potessi farlo di persona, perché tu vedessi pure le mie lacrime!) di riflettere chi tu sia, quale dottrina tu insegni, quale sia la tua attività. Considera lo spettacolo di una città, dalla quale siano fatti uscire quelli che dovrebbero essere condotti al supplizio; pensa ai lamenti delle madri, delle spose, dei figli, dei genitori, alla vergogna con cui tornerebbero in patria salvi ma torturati; pensa quali dolori e gemiti rinnoverebbe in essi la vista delle ferite e delle cicatrici! Dopo aver considerato attentamente tutte queste iatture, rivolgi innanzitutto la tua mente a Dio, pensa a quel che diranno gli uomini, rivolgi nel cuore sentimenti di bontà, d'amicizia e di fratellanza umana e cerca di conquistarti la lode piuttosto con il perdonare che col punire. E ciò ch'io dico valga per tutti quelli che si sono macchiati di colpe da essi confessate. A questi, in considerazione della religione cristiana, voi avete già perdonato e di ciò non cesserò mai di felicitarmi con voi. Difficilmente però si potrebbe spiegare quale crudeltà sia perseguitare degli innocenti e trascinare ad un processo capitale quelli che risultassero esenti da colpa. Se poi riuscissero a farsi assolvere, pensa, ti prego, all'odiosità che ricadrebbe sugli accusatori obbligati a lasciare andare in pace degli innocenti dopo aver rilasciato spontaneamente dei colpevoli. Il sommo Dio ti custodisca e ti conservi, come il difensore della sua religione e come l'ornamento della nostra città.