LIBRO PRIMO

 

Aiuto divino necessario per trattare questioni scritturali.

1. 1. Ogni ricerca sulla Scrittura poggia su due tematiche: come trovare ciò che occorre comprendere e come esporre ciò che si è compreso. Tratteremo quindi prima di come trovare e poi di come esporre. Impresa grande e ardua! e, se difficile a continuarla, temo che sia temerario intraprenderla. E così sarebbe effettivamente se confidassimo solo in noi stessi. La speranza di comporre quest'opera è tuttavia riposta in colui dal quale abbiamo già ricevuto molte idee su questo argomento, idee che conserviamo nella memoria, sicché non temiamo che egli cessi di somministrarci anche il resto quando avremo cominciato ad erogare quello che ci è stato già dato. Ogni cosa, infatti, che non si esaurisce quando la si dona, se la si possiede senza distribuirla, non la si possiede come occorrerebbe possederla. Egli però diceva: A chi ha sarà dato 1. Darà quindi a chi ha, vale a dire: a chi usa con larghezza di cuore le cose che ha ricevute egli darà in pienezza e moltiplicherà quello che aveva dato. Prima che si cominciasse a distribuirli a quella gente affamata, i pani erano una volta cinque e un'altra sette, ma quando s'iniziò la distribuzione si riempirono cesti e sporte, saziate che furono tutte quelle migliaia di uomini 2. Come dunque quel pane crebbe mentre veniva spezzato, così, per ispirazione divina, il materiale che il Signore già ci ha somministrato perché l'opera venisse iniziata si moltiplicherà man mano che procederemo nel dispensarlo. In questo nostro attuale servizio, pertanto, non solo non patiremo scarsità ma ci rallegreremo, anzi, di un'abbondanza stupefacente.

Cosa in sé e cosa come segno.

2. 2. Ogni disciplina ha per oggetto o delle cose o dei segni, ma è attraverso i segni che si apprendono le cose. Strettamente parlando io ho dato il nome di cose a tutto ciò che non viene usato per significare qualcosa di diverso da sé, come quando si dice legno, pietra, animale o cose simili. Non si deve, in tal caso, pensare a quel legno che Mosè gettò nelle acque amare perché perdessero la loro amarezza 3, né a quella pietra che Giacobbe si pose sotto la testa 4, né a quell'animale che Abramo immolò invece del figlio 5. Queste sono, sì, cose in sé, ma costituiscono anche segni di altre cose. Quanto poi ai segni, ce ne sono alcuni che non servono ad altro che a significare: tali sono le parole. Nessuno infatti usa le parole se non per significare qualcosa. Da qui si comprende cosa io voglio indicare col termine " segno ": ogni cosa, cioè, che si usa per significare qualcos'altro. Pertanto, ogni segno è anche una qualche cosa, poiché ciò che non è una cosa è niente. Non ogni cosa però è anche segno. Posta questa distinzione fra cose e segni, quando parleremo di cose ne parleremo in modo tale che, anche se alcune di loro possono essere usate per significare qualcos'altro, non sia ostacolata la distinzione che consente di parlare prima delle cose e poi dei segni. Inoltre ricordiamo bene che al momento presente nelle cose ci proponiamo di considerare ciò che sono in se stesse, non il fatto che, al di là di se stesse, significano qualcosa d'altro.

Classificazione delle cose.

3. 3. Riguardo alle cose, alcune sono fatte per goderne, altre per usarne, altre invece sono capaci di godere e di usare. Le cose fatte per goderne sono quelle che ci rendono beati; dalle cose presenti invece, che bisogna solo usare, veniamo sorretti nel nostro tendere alla beatitudine. Di esse, per così dire, ci equipaggiamo per poter giungere a quelle che ci rendono beati e aderir loro. Quanto a noi, che poi siamo quelli che o godiamo o usiamo quelle altre cose, ci troviamo nel mezzo fra le une e le altre e, se vogliamo godere delle cose di cui dobbiamo solo servirci, la nostra corsa è ostacolata e qualche volta diviene anche tortuosa, con la conseguenza che, ostacolati appunto dall'amore per ciò che è inferiore, siamo o ritardati o anche distolti dal conseguire quelle cose di cui si deve godere.

Godimento ed uso delle diverse cose.

4. 4. Godere infatti di una cosa è aderire ad essa con amore, mossi dalla cosa stessa. Viceversa il servirsi di una cosa è riferire ciò che si usa al conseguimento di ciò che si ama, supposto che lo si debba amare. Per cui, un uso illecito è da chiamarsi abuso o uso abusivo. Facciamo ora l'ipotesi che siamo degli esuli, e quindi che non possiamo essere felici se non in patria. Miseri per tale esilio e desiderosi di uscire da tale miseria, vorremmo tornare in patria e per riuscire a tornare alla patria, che costituisce il nostro godimento, avremmo bisogno di servirci di mezzi di trasporto o marini o terrestri. Che se ci arrecassero piacere le bellezze del viaggio o magari l'essere portati in carrozza, ecco che, rivolti a trarre godimento da ciò che invece avremmo dovuto usare solamente, non vorremmo che il viaggio finisca presto e, invischiati in una dolcezza falsa, resteremmo lontani dalla patria la cui dolcezza ci renderebbe felici appieno. Ne segue che, se in questa vita mortale, dove siamo pellegrini lontano dal Signore 6, vogliamo tornare alla patria dove potremo essere beati, dobbiamo servirci del mondo presente, non volerne la fruizione. Attraverso le cose create comprese con l'intelletto cercheremo di scoprire gli attributi invisibili di Dio 7, o, in altre parole, per mezzo di cose corporee e temporali attingeremo le cose eterne e spirituali.

Oggetto del nostro godere è solo Dio-Trinità.

5. 5. Le cose di cui bisogna appieno godere sono dunque il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, cioè la Trinità, che è la più eccelsa di tutte le cose, una " cosa " comune a tutti coloro che ne godono, seppure è una cosa e non la causa di tutte le cose e se anche questo termine " causa " le è appropriato. Non è infatti facile trovare un nome adatto a un essere così sublime, ma, meglio che con altri, la si dice Trinità: un solo Dio dal quale, per il quale e nel quale sono tutte le creature 8. Così il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo ciascuno è Dio e tutti insieme sono un solo Dio; ciascuna di queste Persone è sostanza completa e tutte insieme un'unica sostanza. Il Padre non è né il Figlio né lo Spirito Santo, il Figlio non è il Padre né lo Spirito Santo, lo Spirito Santo non è né il Padre né il Figlio; ma il Padre è solamente Padre, il Figlio solamente Figlio, lo Spirito Santo solo Spirito Santo. Eppure ai Tre compete la stessa eternità, la stessa incomunicabilità, la stessa maestà, la stessa onnipotenza. Nel Padre c'è l'unità, nel Figlio l'uguaglianza, nello Spirito Santo l'armonia dell'unità con l'uguaglianza. E queste tre cose sono tutte uno a causa del Padre, sono tutte uguali per il Figlio, comunicanti fra loro a causa dello Spirito Santo.

Dio ineffabile gradisce la nostra lode.

6. 6. Abbiamo detto qualcosa o abbiamo espresso qualcosa degno di Dio? Certamente! Sento di non avere avuto altra intenzione che dire questo. Ma se ciò ho detto, non ho raggiunto l'oggetto di cui volevo parlare. E questo come mi risulta? Dal fatto che Dio è ineffabile, mentre quello che è stato detto da me, se fosse stato ineffabile non avrei potuto dirlo. Ne segue che Dio non è da dirsi ineffabile poiché quando di Lui si dice questa prerogativa si dice qualcosa: per cui vien fuori un contrasto di parole, in quanto, se per ineffabile intendiamo ciò di cui non si può dire nulla, non è ineffabile un essere di cui si può affermare almeno che è ineffabile. Questo contrasto di parole è piuttosto da evitarsi col tacerne che conciliarlo col parlarne. In effetti, Dio, di cui non si può affermare nulla che gli si adatti, ha permesso che la voce umana lo elogiasse e ha voluto farci godere della sua lode espressa dalle nostre voci. È per questo che si è lasciato chiamare Dio. Non che lo si conosca nella sua realtà quando risuonano queste due sillabe, ma, per quanti conoscono il latino, quando il suono di queste sillabe giunge al loro orecchio li sospinge a pensare alla natura di un essere supremo e immortale.

Varie concezioni della Divinità.

7. 7. Ci sono alcuni che immaginano, nominano e venerano altri dèi o in cielo o in terra. Orbene, anche da costoro quando, fra tutti gli dèi, si pensa all'unico Dio, lo si pensa come una realtà di cui nessun'altra è migliore e della quale il pensiero non può raggiungerne un'altra superiore. È un fatto che costoro sono attratti da beni diversi, che dicono riferimento, alcuni ai sensi del corpo, mentre altri all'intelletto, che è dote dell'anima. Orbene, quelli che sono asserviti ai sensi del corpo ritengono come Dio degli dèi o il cielo o ciò che nel cielo scorgono maggiormente splendente o lo stesso universo; ovvero, se tentano di valicare i confini del mondo, immaginano qualche essere luminoso e con fantasticherie infondate lo suppongono o infinito o di quella forma che loro sembra la migliore; oppure, se lo riscontrano preferibile a tutto il resto, lo immaginano configurato al corpo dell'uomo. Che se non credono che ci sia un Dio solo, superiore agli altri dèi, e ritengono che molti, anzi innumerevoli, siano gli dèi e tutti dello stesso grado, nel cuore se li tengono raffigurati secondo quella realtà corporea che a ciascuno sembra la più elevata. Al contrario, coloro che mediante l'intelletto si spingono fino a vedere ciò che è [l'unico] Dio, lo suppongono superiore a tutti gli esseri visibili e corporei e anche intelligenti e spirituali: superiore insomma a tutti gli esseri mutevoli. Sono tutti schierati a gara nell'asserire la [suprema] eccellenza di Dio, né troveresti alcuno che ritenga esserci qualcosa superiore a Dio. Pertanto, tutti convengono nel dire che Dio è quell'essere che essi collocano più in alto di tutte le altre cose.

Il vero Dio dev'essere vivo e sapiente.

8. 8. Tutti coloro che si pongono il problema di Dio lo pensano come una realtà vivente; e nei suoi riguardi possono avere un'idea non assurda e non indegna di Dio solo coloro che hanno raggiunto il concetto di " vita ". Qualunque sia la forma corporea che vogliano supporre, prima appurano se essa vive o non vive e a quella che non vive antepongono quella che vive. Ed ora eccoci ad una forma corporea vivente. Può splendere della più viva luce, può giganteggiare per la più grande mole, può essere adorna della più suggestiva bellezza; ma una cosa è la forma corporea in se stessa, un'altra cosa è la vita che la fa vegetare. Lo capiscono tutti, e tutti preferiscono, per la sua dignità incomparabilmente superiore, la vita al corpo che essa fa vegetare e anima. Successivamente proseguono esaminando la vita in se stessa. Se la trovano solo a livello vegetativo e priva di sensitività, com'è quella delle piante, le preferiscono la vita capace di sentire, com'è quella degli animali. A questa poi preferiscono la vita intellettiva, com'è quella dell'uomo. Ma avanti! Quando s'accorgono che la vita dell'uomo è mutevole, sono costretti a preferire a questa vita un'altra che sia immutabile: non una vita cioè che ora non sappia ora sappia ma che sia la stessa Sapienza. In effetti una mente sapiente, in possesso cioè della sapienza, prima che la possedesse non era sapiente; la stessa Sapienza, viceversa, non fu mai priva di sapienza né l'avrebbe potuto mai essere. Se tale Sapienza gli uomini non l'avessero veduta, non avrebbero mai potuto preferire con assoluta sicurezza la vita immutabilmente sapiente alla vita soggetta a mutazioni. Vedono infatti che è immutabile la stessa norma della verità in forza della quale asseriscono a gran voce che quel primo genere di vita è migliore; e questo genere di vita non lo riscontrano se non al di sopra della propria natura poiché, guardando a se stessi, si sentono mutevoli.

Dio è vita e sapienza immutabile.

9. 9. Non c'è infatti alcuno tanto sfrontato quanto cretino che dica: Ma come si può sapere che una vita incommutabilmente sapiente deve preferirsi a una vita mutevole? Difatti la cosa di cui mi domanda come io la sappia è alla portata di tutti per essere osservata in comune da tutti e in modo stabile. Chi non vede cose come questa è un cieco in faccia al sole, un cieco al quale non dice niente lo splendore di una luce così intensa e immediata che si riversa sulle pupille dei suoi occhi. Chi poi vede queste cose e se ne allontana ha reso inerte l'attività della sua mente assuefacendosi all'ombra delle cose carnali. In effetti, coloro che fanno così provano una ripulsa nei riguardi della patria eterna come per delle emanazioni di senso contrario derivanti dai loro cattivi costumi. Si pongono quindi al seguito delle cose più vili e più basse, piuttosto che delle altre che pur asseriscono essere migliori e più eccellenti.

I puri di cuore vedranno Dio.

10. 10. Bisogna dunque essere in grado di godere in pienezza di quella verità che vive non soggetta a mutamenti e sapere che in tale verità Dio Trino, autore e creatore dell'universo, provvede alle cose che ha creato. A tal fine occorre purificare l'anima perché possa fissare quella luce e restare attaccate a quello che ha veduto. Questa purificazione consideriamola come una specie di cammino o di navigazione verso la patria. In realtà, per avvicinarci a colui che è presente dovunque, non ci si muove con moto locale ma con buoni desideri e buoni costumi 9.

L'uomo salvato dalla debolezza di Dio.

11. 11. Una cosa di questo genere ci sarebbe impossibile se la stessa Sapienza non si fosse degnata abbassarsi fino alla nostra debolezza, veramente grande, e non ci avesse dato l'esempio di come vivere non scegliendo altra via che facendosi uomo, poiché noi siamo uomini. Ora, se è pacifico che noi andando a lui operiamo saggiamente, quanto a lui e alla sua venuta fra noi, l'uomo superbo ritenne che avesse agito quasi con stoltezza. Inoltre, siccome noi quando andiamo da lui acquistiamo vigore, si credette di lui che, venuto fra noi, si fosse come indebolito. Viceversa, quello che in Dio è stolto è più sapiente degli uomini e quello che in Dio è debole è più forte degli uomini 10. Essendo dunque Lui la patria, si è voluto fare per noi via per cui giungere alla patria.

12. 11. Essendo [Cristo-sapienza] presente dovunque all'occhio interiore puro e sano, si è degnato apparire agli occhi carnali di coloro che hanno quell'occhio interiore malato e impuro. Difatti, siccome il mondo con la sua sapienza era incapace di conoscere Dio, nel sapiente piano di Dio, egli si compiacque di salvare con la stoltezza della predicazione quelli che avrebbero creduto 11.

Il sapiente piano di Dio rivelato a chi crede.

12. 12. Di Lui si dice che è venuto a noi non nel senso che abbia attraversato degli spazi ma nel senso che si è fatto vedere ai mortali in una carne mortale. Venne dunque in un luogo dove già era, poiché egli era in questo mondo, anzi il mondo fu creato per opera sua 12. Gli uomini però si erano lasciati prendere dalla insana voglia di godere della creatura invece che del Creatore e, configurati con questo mondo, giustissimamente erano stati chiamati mondo 13. Non lo avevano quindi conosciuto, sicché l'Evangelista dice: E il mondo non lo conobbe 14. Nel piano sapiente di Dio pertanto il mondo non fu in grado di conoscere Dio mediante la Sapienza, poiché, in effetti, essa già stava quaggiù. Ma allora perché venirvi se non perché Dio si compiacque di salvare quelli che credono mediante la stoltezza della predicazione?

Il Verbo s'incarna rimanendo immutabile.

13. 12. E come venne a noi se non in quanto il Verbo si fece carne ed abitò fra noi 15? Un esempio: quando noi parliamo, affinché quel che noi abbiamo nell'animo si comunichi, attraverso gli orecchi, all'animo di chi ci ascolta, la parola chiusa nel nostro cuore diventa suono e si chiama linguaggio. Tuttavia il nostro pensiero non si tramuta in quel suono, anzi, restando intero in se stesso, assume la forma di voce con cui penetra negli orecchi, e ciò senza subire alcuna menomazione a causa del suo mutamento. Così è stato del Verbo di Dio: non subì alcun mutamento, ma si fece carne per abitare in mezzo a noi.

Cristo, sapienza incarnata, medico dell'umanità.

14. 13. Come poi qualsiasi cura è la via per recuperare la salute, così fu della cura adottata da Dio: si rivolse a dei peccatori per guarirli e rimetterli in salute. E come quando i medici fasciano le ferite lo fanno non alla buona ma con arte, per cui dalla fasciatura deriva non solo un'utilità ma anche una specie di bellezza, così è stato della medicina della Sapienza quando, assumendo l'umanità, si è adeguata alle nostre ferite. Certuni li ha curati con rimedi contrari, altri con rimedi congeneri. Si è comportata come colui che cura le ferite del corpo. Usa, a volte, rimedi contrari, come quando applica cose fredde a ciò che è caldo, cose bagnate a ciò che è asciutto o altri simili rimedi. Usa anche dei rimedi congeneri, come una benda rotonda a una ferita rotonda, una benda allungata per una ferita di forma allungata e, quando esegue la fasciatura, non la fa identica per tutte le membra ma fatta su misura per ogni singolo membro. Così fece la Sapienza di Dio quando volle curare l'uomo: per guarirlo gli offrì se stessa e divenne medico e medicina. Pertanto, siccome l'uomo era caduto a causa della superbia, per guarirlo usò l'umiltà. Fummo ingannati dalla astuta sapienza del serpente; veniamo liberati dalla stoltezza di Dio. Ma come Egli, che si chiamava Sapienza - era però stoltezza per quanti disprezzano Dio -, così, di nuovo, Egli, chiamato stoltezza, è Sapienza per quanti vincono il diavolo. Noi usammo male dell'immortalità e ci procurammo la morte; Cristo, usando bene della sua condizione mortale, ha fatto sì che riavessimo la vita. Corrotto che fu l'animo di una donna, entrò nel mondo la malattia; la salute è a noi derivata dal corpo di una donna rimasto integro. Allo stesso sistema dei contrari è da ascriversi anche il fatto che con l'esempio delle sue virtù vengono curati i nostri vizi. In una parola, una sorta di fasciature similari applicate alle nostre membra ferite potrebbero considerarsi l'essere Egli nato da una donna per liberare i sedotti da una donna e poi l'aver liberato, lui uomo gli uomini, lui mortale i mortali, i morti in virtù della sua morte. A chi volesse considerare le cose con maggiore accuratezza e non fosse sospinto in avanti dalla necessità di completare l'opera intrapresa, dall'esame dei rimedi, o contrari o simili, della medicina cristiana apparirebbe una dottrina più ampia e diversificata.

Cristo morto, risorto e giudice supremo.

15. 14. Noi crediamo nella resurrezione del Signore dai morti. Questo evento insieme con l'ascensione al cielo, dà alla nostra fede l'appoggio di una grande speranza. Colui che possedeva la vita in modo da poterla riprendere 16 ci mostra molto efficacemente la libertà con cui ha voluto donarla per noi. Di quale fiducia dunque non si animerà la speranza dei credenti, se considerano chi ha sofferto tanti patimenti per coloro che ancora non credevano! Ora si aspetta che venga dal cielo giudice dei vivi e dei morti: così Egli incute ai pigri un gran timore che li fa convertire e diventare premurosi e fa sì che lo desiderino vivendo bene piuttosto che temerlo comportandosi male. Con quali parole si potrà descrivere o con quale acume di pensiero si potrà comprendere il premio che Egli darà alla fine? Fin d'ora per consolarci del nostro pellegrinaggio ci dà tanta ricchezza del suo Spirito, che nelle avversità della vita presente già abbiamo viva speranza e carità verso di lui, che ancora non vediamo, e ancora altri doni, propri di ciascuno, mediante i quali si arricchisce la sua Chiesa 17. Per questi doni eseguiamo non solo senza rimostranze ma anche con gioia quello che Egli ci mostra doversi fare.

La Chiesa corpo e sposa di Cristo.

16. 15. La Chiesa infatti è il suo corpo - come suggerisce l'ammaestramento dell'Apostolo 18 -; anzi la si chiama anche sua sposa 19. Questo suo corpo dunque, dotato di molte membra che esplicano diverse funzioni 20, egli lo stringe con il vincolo dell'unità e della carità, che costituiscono come un segno della buona salute. In questo tempo lo allena o lo purifica con certe sofferenze di carattere medicinale, affinché, sottraendo la Chiesa dagli influssi di questo mondo, se la unisca in eterno come sposa senza macchia né ruga o cose del genere 21.

Cristo, rimettendo i peccati, ha aperto la via verso la patria

17. 16. È peraltro da notarsi che noi siamo in via - una via non consistente in luoghi ma in affetti - e che questa via fu un tempo sbarrata da una specie di siepe spinosa, cioè dalla malizia dei nostri peccati passati. Cosa quindi avrebbe dovuto fare, nella sua grande liberalità e misericordia, colui che si stese a terra per noi, sicché noi potessimo tornare [in patria], se non condonare i peccati a quanti si sarebbero volti indietro e, crocifisso per noi, rimuovere la proibizione che ci impediva di tornare [in patria] e che era profondamente conficcata in noi?

Alla Chiesa Cristo affida poteri divini.

18. 17. Ebbene, queste chiavi egli le diede alla sua Chiesa, di modo che tutto quello che lei avesse sciolto sulla terra sarebbe stato sciolto nel cielo e tutto quello che avesse legato sulla terra sarebbe stato legato nel cielo 22. Vale a dire: chiunque si rifiuta di credere che nella Chiesa gli sono rimessi i peccati non gli sono rimessi, a differenza di colui che vi crede e, correggendosi della sua malizia, se ne allontana. Costui, tornato in seno alla Chiesa, viene guarito dalla sua stessa fede unita alla disciplina penitenziale. Chiunque invece non crede che gli possano essere rimessi i peccati, con la sua disperazione si mette in una situazione peggiore, pensando quasi che non gli resti altro di meglio che seguitare ad essere cattivo, dal momento che non crede nel frutto della sua conversione.

Morte e risurrezione dell'anima e del corpo.

19. 18. Per l'anima è una specie di morte l'abbandono della vita e della condotta che antecedentemente aveva conseguito mediante la conversione. Allo stesso modo è per il corpo: sua morte è la cessazione della sua antecedente animazione. Orbene, come l'anima mediante la conversione con cui dà morte alla sua perfida condotta di prima acquista una nuova e migliore forma, così anche il corpo, dopo la morte temporale alla quale tutti siamo astretti per il vincolo del peccato, è da credersi e sperarsi che, al tempo della risurrezione, si cambierà in meglio, di modo che non saranno più la carne o il sangue a possedere il regno dei cieli: cosa, questa, che sarebbe impossibile. Questo corpo corruttibile rivestirà l'incorruttibilità e questo corpo mortale rivestirà l'immortalità 23, né ci recherà alcuna molestia poiché non avrà a soffrire alcuna privazione in quanto sarà vivificato con somma quiete da un'anima beata e perfetta.

La pena della seconda morte.

20. 19. L'anima di colui che non muore a questo mondo e non si decide a conformarsi alla Verità, con la morte del corpo viene coinvolta in una morte più grave e non rivivrà se non per subire delle pene, e non per cambiare la sua vita con la condizione celeste.

Retribuzione finale dei buoni e dei cattivi.

21. 19. Questo contiene la fede e così è da credersi che stiano le cose: né l'anima né il corpo dell'uomo andranno completamente distrutti ma gli empi risorgeranno per subire delle pene inimmaginabili mentre i buoni risorgeranno per la vita eterna 24.

Motivo per amarci a vicenda.

22. 20. Fra tutte le cose passate in rassegna, di quelle sole si deve godere che abbiamo ricordato essere eterne e immutabili; delle altre ci si deve solo servire e servircene in modo da giungere al godimento delle altre. Notare qui che noi, che o godiamo o usiamo le altre cose, siamo in certo qual modo delle cose. E in effetti l'uomo è una cosa grande perché fatto a immagine e somiglianza di Dio 25: non quindi in quanto è incluso in un corpo mortale ma in quanto è superiore alle bestie per la dignità dell'anima razionale. Da cui sorge il gran problema se gli uomini debbano godere di se stessi o servirsi di se stessi o fare tutte e due le cose. È vero infatti che ci è stato comandato di amarci gli uni gli altri 26, ma è discusso se l'uomo debba essere amato dal suo simile per se stesso o in vista di qualcos'altro. Se lo si ama per se stesso, si gode di lui; se lo si ama in vista di altri, si fa uso di lui. Quanto a me, mi sembra che lo si debba amare in rapporto a qualcos'altro, poiché in ciò che si deve amare per se stesso si consegue la vita beata, dalla quale al presente siamo consolati sebbene non la possediamo nella realtà ma ne abbiamo solo la speranza. Maledetto però l'uomo che ripone nell'uomo la sua speranza 27.

Amare per godere del bene indefettibile.

22. 21. Se vi si riflette convenientemente, nemmeno di se stesso è lecito godere, tant'è vero che nessuno può amare se stesso per se stesso ma in vista di colui del quale si deve godere. In realtà, l'uomo è allora perfetto quando tutta la sua vita è orientata verso la vita immutabile e si unisce a lei con tutto il cuore. Se invece uno si ama per se stesso, non si riferisce a Dio ma ripiega su se stesso, e non essendo rivolto a qualcosa di immutabile, gode sì,di se stesso ma esperimenta numerose lacune. È infatti più perfetto quando aderisce totalmente e totalmente si lascia incatenare dal bene incorruttibile che non quando da quel bene si distacca per ripiegarsi sia pure su se stesso. Se dunque devi amare te stesso non per te stesso ma in ordine a colui in cui si trova, quando è sommamente ordinato, il fine del tuo amore, non si adiri un altro uomo se ami anche lui in riferimento a Dio. In questo modo infatti è stata stilata da Dio la legge dell'amore: Amerai, dice, il prossimo tuo come te stesso 28, ma Dio lo amerai con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente 29. Il che vuol dire che devi riferire tutti i tuoi pensieri e tutta la vita e tutta l'intelligenza a colui dal quale hai ricevuto quei beni che con lui confronti. Dicendo poi: Con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, non ha lasciato alcuna parte della nostra vita cui sia consentito starsene oziosa né le ha dato spazio di godere cose diverse da lui, ma, qualunque cosa si affacci al cuore per essere amata, deve essere sospinta là dove tende impetuoso tutto lo slancio dell'amore. Chi pertanto ama rettamente il prossimo questo deve da lui ottenere: che anch'esso ami Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente. Amandolo in tal modo come se stesso, convoglia tutto l'amore che ha per se stesso e per l'altro a quell'amore di Dio che non tollera che alcun ruscello, anche se piccolo, sia dirottato fuori di sé perché da ogni dispersione di acqua ne risulterebbe diminuito.

Non sia identico l'amore per le diverse cose.

23. 22. Quanto alle cose di cui è lecito servirsi, non sono tutte da amarsi ma soltanto quelle che insieme con noi per una certa unione si riferiscono a Dio, come sono gli uomini e gli angeli, o quelle che, dicendo relazione a noi, per nostro mezzo ricevono i benefici di Dio di cui hanno bisogno. Così è il nostro corpo. In effetti, i martiri non amarono il delitto commesso dai loro persecutori, del quale tuttavia si servirono per meritarsi Dio. Quattro dunque sono le cose che dobbiamo amare: una è sopra di noi, un'altra siamo noi stessi, una terza ci è assai vicina, una quarta è inferiore a noi. Riguardo alla seconda e alla quarta non occorreva che ci venisse dato alcun precetto, poiché l'uomo, per quanto devii dalla verità 30 conserva sempre l'amore per se stesso e per il suo corpo. Infatti l'animo che fugge lontano dalla luce immutabile che regna su tutte le cose fa ciò per regnare da re assoluto su se stesso e sul suo corpo, per cui non può non amare se stesso e il suo corpo.

Amore encomiabile e amore biasimevole.

23. 23. L'uomo poi ritiene di aver conseguito qualcosa di grande se gli riesce di dominare i propri simili, cioè gli altri uomini; anzi, in certi spiriti viziosi si caccia il desiderio - e se lo rivendicano come un loro diritto - di avere quelle cose che propriamente sono dovute a Dio solo. Un tale amore di se stesso dovrebbe più esattamente chiamarsi odio; ed è una cosa ingiusta in quanto l'uomo pretende che lo serva chi gli è inferiore mentre lui stesso si rifiuta di servire chi gli è superiore. A proposito è stato detto con estrema esattezza: Chi ama l'iniquità odia la sua anima 31. E per tale motivo l'animo si infiacchisce e viene tormentato dal corpo mortale. Di necessità infatti l'animo deve amare il corpo e invece è gravato dal peso della sua mortalità. L'immortalità e l'incorruttibilità provengono in effetti al corpo dalla salute dello spirito, ma la salute dello spirito sta nell'aderire fermissimamente a chi è più eccellente di lui, cioè Dio immutabile. Quanto poi a colui che brama dominare anche gli altri che per natura sono simili a lui, cioè gli altri uomini, questo è proprio una superbia intollerabile.

Se e come debba amarsi il corpo.

24. 24. Non c'è dunque alcuno che odii se stesso: sicché al riguardo mai c'è stata controversia con una qualche sètta. E anche riguardo al corpo, nessuno lo odia, ed è vero quello che dice l'Apostolo: Nessuno ha mai odiato la sua propria carne 32. Che se alcuni dicono di preferire ad ogni costo di essere senza corpo, essi dicono una falsità: odiano infatti non il loro corpo ma la sua corruttibilità e pesantezza. Per cui non è che non vogliano avere nessun corpo ma lo vorrebbero incorruttibile e sommamente agile, deducendone però che, se il corpo fosse così, non sarebbe più corpo ma anima. Riguardo poi a coloro che sembrano quasi infierire contro il loro corpo per la continenza che praticano o le fatiche che affrontano, coloro che ciò fanno rettamente non si comportano così per non avere il corpo ma per averlo soggetto a se stessi e pronto alle opere necessarie. Combattendo faticosamente contro il proprio corpo si allenano ad estinguere le passioni che vorrebbero servirsi malamente del corpo, vale a dire tutte quelle abitudini o inclinazioni che portano l'anima a godere delle cose inferiori. Tant'è vero che costoro non si uccidono ma hanno cura della loro salute.

Le radici del conflitto fra carne e spirito.

24. 25. Una parola su coloro che, agendo in maniera perversa, dichiarano guerra al loro corpo quasi che naturalmente sia un loro nemico. Sono ingannati dalle parole che leggono: La carne ha desideri contrari a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari a quelli della carne: sono infatti in opposizione fra loro 33. Ciò è stato detto a motivo del comportamento della carne, che si presenta indomabile e contro la quale lo spirito ha desideri contrastanti, non nel senso che vuole sopprimere il corpo ma nel senso che, domata la sua concupiscenza - cioè la sregolatezza del suo vivere -, lo rende soggetto allo spirito, come postula l'ordine naturale. Dopo la risurrezione infatti le cose staranno così: il corpo avrà il vigore dell'immortalità e sarà soggetto allo spirito in maniera totale e con somma docilità. Altrettanto si deve conseguire in questa vita facendo sì che le esigenze della carne si mutino in meglio e non resistano allo spirito con moti disordinati. Finché questo non si realizza, la carne ha desideri contrari a quelli dello spirito e lo spirito desideri contrari a quelli della carne. Lo spirito si oppone non per odio ma per esigenze di primato: vuole infatti che il corpo da lui amato sia soggetto maggiormente a chi gli è superiore. Né la carne resiste mossa da odio ma per il legame, diventato consuetudine, che, derivato dai progenitori e inveterato con il propagarsi, le si è appiccicato con la forza di una legge di natura. Ora questo compie lo spirito quando doma la carne: annulla i patti disordinati - chiamiamoli così - della cattiva consuetudine e costruisce la pace della consuetudine buona. D'altronde neppure coloro che fuorviati da false ideologie detestano il loro corpo, sarebbero disposti a farsi cavare un occhio, anche se non ne provassero dolore e anche se in quello che loro rimane ci fosse tanta vigoria visiva quanta ne era in tutti e due. A meno che non fossero a ciò costretti da qualcosa di più importante. Con questa prova e altre simili si mostra a sufficienza, a coloro che cercano la verità senza ostinarsi [nell'errore], quanto sia vera l'affermazione dell'Apostolo quando dice: Nessuno ha mai odiato la propria carne, aggiungendo anche: Ma la nutre e custodisce, come Cristo la Chiesa 34.

Il corpo e la sua salute sono amati da tutti.

25. 26. All'uomo è da tracciarsi una norma concernente l'amore, cioè insegnargli come deve amare se stesso in maniera vantaggiosa. Che infatti egli si ami e voglia rendersi utile a se stesso, sarebbe insensato dubitarne. Una norma è da imporgli anche sul modo di amare il suo corpo, perché vi provveda in modo ordinato e saggio. Che infatti egli ami il suo corpo e che desideri averlo sano e incolume è, come detto sopra, cosa pacifica. Qualcuno, in verità, potrebbe amare qualcos'altro più che non la salute e l'incolumità del suo corpo. E di fatto si trovano molte persone che hanno sostenuto volontariamente dolori e la perdita di alcune membra, ma ciò facevano per conseguire finalità che loro stavano più a cuore. Non si deve quindi dire di nessuno che non ami la salute e l'incolumità del proprio corpo per il fatto che ama di più un'altra cosa. Prendiamo il caso dell'avaro. Sebbene ami il denaro, si compra tuttavia il pane, e, per far ciò, sborsa quel denaro che tanto ama e desidera aumentare. È segno che stima la salute del suo corpo, sorretta da quel pane, più che non il denaro. Ma è inutile intrattenerci più a lungo su un argomento così ovvio come il presente. Tuttavia a far ciò ci costringe, il più delle volte, l'errore degli empi.

Nell'amore al prossimo è incluso l'amore verso se stessi.

26. 27. In conclusione, non c'è bisogno di leggi perché ciascuno ami se stesso o il suo corpo, cioè quello che siamo noi e quello che è al di sotto di noi ma fa parte di noi. Ciò amiamo per una basilare legge di natura che è stata partecipata anche agli animali, i quali di fatto amano se stessi e il loro corpo. Per questo motivo non restava altro se non che ci venissero impartiti precetti concernenti ciò che è al di sopra di noi o accanto a noi. Dice: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente, e amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due precetti si compendia tutta la Legge e i Profeti 35. Fine dunque del precetto è l'amore 36 nelle sue due ramificazioni: amore di Dio e amore del prossimo. Che se prendi te stesso nella tua interezza, cioè con la tua anima e il tuo corpo, e anche il prossimo nella sua interezza, cioè con la sua anima e il suo corpo (l'uomo infatti risulta di anima e di corpo), in questi due precetti non è stata omessa alcuna categoria delle cose da amarsi. È vero infatti che per primo è stato posto l'amore di Dio e che le modalità di questo amore ti sono state presentate in modo che in questo amore confluiscano tutti gli oggetti da amarsi, potrebbe anche sembrarti non essere stato detto nulla sull'amore verso di te; ma siccome si dice ancora: Amerai il prossimo tuo come te stesso, con tali parole non si omette di parlare dell'amore che tu devi a te stesso.

Ogni essere va amato per il rapporto che ha con Dio.

27. 28. Secondo giustizia e santità vive colui che sa stimare rettamente le cose. Per avere quindi un amore ben ordinato occorre evitare quanto segue: amare ciò che non è da amarsi, amare di più ciò che è da amarsi di meno, amare ugualmente ciò che si dovrebbe amare o di meno o di più, o amare di meno o di più ciò che deve essere amato allo stesso modo. Il peccatore, chiunque esso sia, in quanto peccatore non è da amarsi; l'uomo, ogni uomo, in quanto è uomo, lo si deve amare per amore di Dio; Dio lo si deve amare per se stesso. E se Dio deve essere amato più di qualsiasi uomo, ciascuno deve amare Dio più di se stesso. Inoltre, il nostro simile va amato più del nostro corpo, poiché, se ogni essere va amato per il rapporto che ha con Dio, chi è uomo come noi può conseguire con noi il godimento di Dio, cosa che al corpo non è consentita, in quanto il corpo vive perché ha l'anima ed è attraverso l'anima che noi raggiungiamo il godimento di Dio.

Graduatoria nell'erogare l'amore.

28. 29. Tutti gli uomini debbono essere amati ugualmente, ma se non ti è possibile intervenire a vantaggio di tutti, devi di preferenza interessarti di coloro che ti sono strettamente congiunti per circostanze di luogo, di tempo o di qualsiasi altro genere, che la sorte ti ha per così dire assegnato. Fa' il caso che tu fossi nell'abbondanza di qualcosa da doversi dare a chi non ne ha ma che fosse impossibile darne a due. Se ti si presentassero due persone, delle quali nessuna è più povera dell'altra o più legata a te da qualche parentela, niente di più corretto potresti fare che tirare a sorte colui al quale dare quell'oggetto che non può essere dato a tutti e due. Allo stesso modo per il caso di più uomini che non puoi aiutare tutti contemporaneamente. È una specie di scelta fatta dalla sorte se qualcuno ti è unito in un grado superiore per legami temporali.

Godiamo se tutti gli uomini amano Dio.

29. 30. Una parola su tutti coloro che insieme con noi possono fruire del godimento di Dio. Una parte ne amiamo perché ci è dato aiutarli, una parte perché siamo aiutati da loro; una parte perché abbiamo bisogno del loro aiuto o perché ci è dato di soccorrere alla loro indigenza; una parte senza che noi arrechiamo loro dei vantaggi né attendiamo che ci vengano arrecati da loro. In ogni caso dobbiamo volere che tutti amino Dio insieme con noi e a quest'ultimo fine dobbiamo riferire tutto l'aiuto che loro diamo o da loro riceviamo. Un esempio dai teatri, templi di iniquità. Un tale tifa per un istrione e gode della sua abilità come se si trattasse di un bene grande o addirittura del sommo bene. Egli ama coloro che come lui lo amano, e li ama non per loro ma per colui che amano insieme in uguale misura, e quanto più brucia d'amore per quel tizio tanto più si dà da fare, con tutti i modi possibili, perché egli sia amato da un maggior numero di persone, cercando di farlo vedere a quanti più gli riesce. Se vede qualcuno piuttosto tiepido, lo scuote quanto più può tessendo le lodi di lui. Se poi vede uno di idee opposte, odia violentemente in lui il fatto che egli odii l'idolo del suo cuore, e con tutti i modi che ha disponibili insiste per togliergli quest'odio. E ora a noi, uniti dal comune amore di Dio, cosa ci torna conto fare quando godere di lui è la nostra vita beata? Da lui infatti tutti coloro che lo amano hanno l'essere e la facoltà di amarlo. Di lui in alcun modo dobbiamo temere che, conosciuto, possa dispiacere a qualcuno. Che se egli vuole essere amato, non è perché la cosa torni a suo vantaggio ma perché sia conferito un premio eterno a coloro che lo amano, e questo premio è lui stesso che essi amano. Da ciò segue anche l'amore per i nemici. Non temiamo infatti che essi ci possano rapire quello che amiamo; ma piuttosto commiseriamoli perché tanto più sono in odio con noi quanto più sono separati da colui che noi amiamo. Che se si convertono a lui, essi dovranno necessariamente amare lui come il bene che dà loro la beatitudine e noi come compartecipi di questo bene così grande.

Amore universale: per angeli e uomini.

30. 31. A questo punto sorge un problema che riguarda gli angeli. Essi sono beati godendo di colui del quale anche noi desideriamo godere, e quanto più intimamente ne godiamo - anche se specularmente e in confuso 37 - tanto più sopportiamo con pazienza il nostro esilio e con ardore desideriamo vederne la fine. Si può tuttavia in maniera non del tutto sragionevole porre la questione se in quei due precetti rientri anche l'amore per gli angeli. Che infatti colui che ci ha comandato di amare il prossimo non abbia eccettuato nessun uomo, l'hanno dimostrato e il Signore nel Vangelo e l'apostolo Paolo. In realtà, colui al quale aveva presentato questi due precetti e aveva detto che in essi si compendia tutta la Legge e tutti i Profeti non poté trattenersi dall'interrogarlo: E chi è il mio prossimo? 38 Egli allora espose le vicende di quell'uomo, che scendeva da Gerusalemme a Gerico, incappò nei briganti, dai quali fu gravemente ferito e lasciato piagato e mezzo morto 39. Di lui inculcò che fu il prossimo solo quel tale che si prestò con misericordia a sollevarlo e a curarlo, tanto che, interrogato da Gesù, colui che aveva fatto la domanda iniziale, trasse la stessa conclusione. A lui il Signore disse: Va' e fa' lo stesso anche tu 40. Da ciò - s'intende - dobbiamo comprendere che il prossimo è colui che dobbiamo servire con misericordia, se ne ha bisogno, o che dovremmo essere disposti a servire qualora ne avesse. Dalla qual cosa già segue la conseguenza che anche colui dal quale, viceversa, dovremmo ricevere noi tali attenzioni è nostro prossimo. Il nome " prossimo " infatti dice relazione ad altri, né si può essere prossimo se non di un prossimo. Ora nessuno può essere eccettuato, nessuno escluso dai nostri doveri di misericordia, quando il precetto si spinge fino all'amore dei nemici. Chi non vede questo? Lo stesso Signore dice: Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano 41.

L'amore non fa il male a nessuno.

30. 32. Non diversamente insegna l'apostolo Paolo. Dice: Infatti, non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare illecitamente, e se c'è qualche altro comandamento, si riassume in questa parola: Ama il prossimo tuo come te stesso. L'amore del prossimo non commette alcun male 42. Che se qualcuno pensasse: l'Apostolo non ha dato tali precetti riguardo a tutti gli uomini, sarebbe costretto a confessare una cosa la più assurda e oltremodo scellerata: che cioè l'Apostolo sarebbe stato dell'avviso che non è peccato commettere adulterio con la moglie di un non cristiano e di un nemico, o di ucciderlo o di desiderare i suoi beni. Che se è roba da matti dire cose del genere, è logico che ogni uomo è da ritenersi come prossimo, dal momento che contro di nessuno si può commettere il male.

Amare l'uomo per amore di Dio.

30. 33. Orbene, se tutti coloro ai quali dobbiamo usare un doveroso gesto di misericordia o da cui dobbiamo riceverlo vanno sotto il nome di prossimo, è evidente che nel precetto in forza del quale dobbiamo amare il prossimo sono compresi anche i santi angeli. Da loro infatti ci vengono prestati grandi tratti di misericordia, come è facile ricavare dai molti passi delle divine Scritture. Per lo stesso motivo il nostro Dio e Signore volle chiamarsi nostro prossimo. Difatti il Signore Gesù Cristo fa comprendere che è stato lui stesso ad aiutare quel mezzomorto che giaceva lungo la via maltrattato e abbandonato dai briganti 43. E il Profeta nella preghiera diceva: Provavo compiacenza come per il prossimo, come per il nostro fratello 44. Ma poiché l'essenza divina è più eccellente di noi e supera la nostra natura, il comandamento per il quale amiamo Dio è stato distinto da quello dell'amore del prossimo. Egli infatti usa misericordia a noi in forza della sua bontà, noi ce ne usiamo gli uni gli altri per la bontà di lui. Cioè: egli usa a noi misericordia perché possiamo godere di lui, noi ci usiamo misericordia gli uni verso gli altri, ma ugualmente per godere di lui.

Dio si serve di noi, non gode di noi.

31. 34. C'è qualcos'altro a questo proposito. Sembrerebbe ambiguo dire che noi godiamo appieno di quella " cosa " che amiamo per se stessa e che dobbiamo godere soltanto di quella che ci rende beati; delle altre soltanto servircene. Orbene Dio ci ama, e la divina Scrittura ci sottolinea fortemente l'amore che egli ha per noi. Come dunque ci ama? Servendosi di noi o godendo di noi? Se godesse di noi, significherebbe che ha bisogno di un bene che siamo noi: cosa che nessuno, sano di mente, oserebbe dire. Infatti il bene tutto intero o è lui o proviene da lui. O che ci può essere qualcuno che abbia oscurità o dubbi sul fatto che la luce non ha bisogno del bagliore di quelle cose che lei stessa illumina? Come in forma chiarissima dice il Profeta: Ho detto al Signore: Mio Dio sei tu, poiché non hai bisogno dei miei beni 45. Egli dunque non trae godimento da noi ma si serve di noi. Poiché se non ne godesse o non se ne servisse, non trovo in che modo possa amarci.

Che Dio si serva di noi è a nostro vantaggio.

32. 35. Tuttavia egli non si serve di noi come noi facciamo delle cose. Noi riferiamo le cose di cui ci serviamo al fine di godere della bontà di Dio; Dio, quando si serve di noi, lo riferisce alla sua bontà. In effetti, noi esistiamo perché egli è buono e, per il fatto di esistere, siamo anche buoni. Siccome però egli è anche giusto, se saremo cattivi, non lo saremo impunemente, oltre che, per il fatto di essere cattivi, esistiamo in maniera più ridotta. Difatti sommamente e primordialmente esiste colui che è immutabile e che poté dire con assoluta pienezza: Io sono colui che sono, e: Dirai loro: Colui che è mi ha mandato a voi 46. Le altre cose esistenti non potrebbero esistere senza di lui, e in tanto sono buone in quanto hanno ricevuto l'esistenza. Quell'uso dunque che si dice di Dio quando egli si serve di noi è in rapporto non ad una utilità sua ma nostra; nei suoi riguardi dice rapporto solo alla sua bontà. Quando peraltro noi compiamo opere di misericordia e ci occupiamo di qualcuno, lo facciamo certo per suo vantaggio e questo abbiamo di mira, ma ne deriva, non so come, anche un vantaggio nostro, poiché l'opera di misericordia che eroghiamo a vantaggio del bisognoso Dio non la lascia senza ricompensa. Questa ricompensa presa in grado sommo consiste poi nel godere pienamente di lui, o, per tutti noi che godiamo di lui, nel godere, in lui, anche di noi gli uni degli altri.

Non riponiamo nelle creature il nostro fine.

33. 36. Se facciamo ciò in ordine a noi stessi, rimaniamo fermi nella via e riponiamo la speranza della nostra beatitudine o nell'uomo o nell'angelo: la qual cosa si attribuiscono l'uomo e l'angelo superbi, che godono che in loro sia riposta la speranza degli altri. Il contrario fanno l'uomo e l'angelo santi. Quando noi stanchi desideriamo arrestarci e riposarci in loro, essi piuttosto ci ristorano o mediante quelle risorse che hanno ricevute per noi, o magari ricorrendo anche a quelle che hanno ricevuto (dato che di ricevere si tratta!) per loro stessi. E in tal modo ristorati, ci sospingono a marciare verso colui, godendo del quale siamo come loro beati. Al riguardo grida Paolo: O che forse Paolo è stato crocifisso per voi? o in nome di Paolo siete stati battezzati? 47 E ancora: Né chi pianta è qualcosa né chi irriga, ma Dio che fa crescere 48. E così anche quell'angelo che l'uomo stava per adorare: lo ammonisce severamente affinché adori il Signore sotto il cui potere è anche egli servo alla pari dell'uomo 49.

Godi pure dell'uomo, ma nel Signore.

33. 37. Quando godi di un uomo in Dio, godi di Dio stesso piuttosto che dell'uomo. Godi infatti di colui che ti rende beato, e ti allieterai per aver raggiunto colui nel quale ora riponi la tua speranza. In tal senso Paolo dice a Filemone: Sì, fratello, io godrò di te nel Signore 50. Se non avesse aggiunto: Nel Signore e avesse detto: Io godrò di te, avrebbe riposto in lui la speranza della sua felicità, anche se " godere di uno " si dice con un significato molto affine a " servirsi con piacere ". Se infatti hai presente quello che ami, necessariamente quell'oggetto porta con sé anche del piacere; e tu, se oltrepassi quel piacere e lo riferisci a quell'oggetto dove dovrai rimanere, in realtà il primo lo usi soltanto, e, se questo lo chiami un goderne, ciò è un parlare inesatto, non appropriato. Se al contrario ti attacchi a quell'oggetto e rimani fisso in lui, ponendo in esso il fine del tuo godere, allora si deve dire che veramente e propriamente tu godi di lui. Ma una tal cosa non si deve fare se non nei riguardi della Trinità, cioè del bene sommo e immutabile.

Cristo nostra via.

34. 38. Rifletti sulla stessa Verità, cioè sul Verbo ad opera del quale sono state fatte tutte le cose 51, e come egli si sia fatto carne per abitare in mezzo a noi 52. Nonostante questo, l'Apostolo dice: Anche se avessimo conosciuto Cristo secondo la carne, ora però non lo conosciamo più così 53. In effetti, il Verbo volle assumere la carne poiché volle mostrarsi non solo come possesso di chi è arrivato alla mèta ma anche come via per coloro che stanno accostandosi là dove la via comincia. Si può riferire a questo l'espressione: Dio mi ha creato al principio delle sue vie 54, di modo che da lui iniziassero il cammino quanti sarebbero voluti venire [al Padre]. In questo contesto troviamo che l'Apostolo, sebbene ancora viatore, seguiva Dio che lo chiamava alla palma della vocazione celeste. Dimenticando le cose che gli erano dietro e proteso verso ciò che aveva davanti 55, aveva già sorpassato il principio delle vie. Per questo non aveva bisogno del punto da cui invece debbono iniziare e mettersi all'opera tutti coloro che desiderano giungere alla verità e trovare dimora nella vita eterna. Così dice infatti: Io sono la via e la verità e la vita 56, cioè attraverso di me si viene, a me si giunge, in me si rimane. E quando si giunge a lui si giunge anche al Padre, perché attraverso l'uguale si riconosce colui al quale egli è uguale 57. Legame e, per così dire, glutine è lo Spirito Santo, mediante il quale possiamo rimanere nel bene sommo e immutabile. Da tutto questo è dato comprendere come, finché siamo in via, nessuna cosa debba trattenerci, se nemmeno il Signore, in quanto si è degnato essere nostra via, ha voluto che ci fermassimo in lui ma che passassimo oltre. Ha voluto che non ci attaccassimo, vinti da debolezza, alle cose temporali, sebbene da lui prese e messe in opera per la nostra salvezza. Correndo velocemente dobbiamo invece oltrepassare le cose per meritare di essere sollevati e condotti fino a lui stesso, che ha liberato dalle realtà temporali la nostra natura e l'ha collocata alla destra del Padre.

Non perdere di vista l'economia della salvezza.

35. 39. Il nocciolo di tutto ciò che abbiamo detto da quando abbiamo iniziato a trattare delle " cose " è questo: comprendere come la pienezza e il fine della legge e di tutte le divine Scritture è l'amore 58 per la cosa di cui ci si ordina di godere e per la cosa che insieme con noi può godere dell'oggetto che amiamo; quanto invece all'amore verso noi stessi, non c'è bisogno di precetti. Ebbene, affinché conoscessimo e compissimo tutto questo, dalla divina Provvidenza è stata costituita, per la nostra salvezza, tutta la presente economia temporale, della quale noi dobbiamo servirci non con un amore e gusto che in essa, per così dire, si arresti ma piuttosto che sia transitorio. Deve esserci come una via, come un veicolo di qualsiasi genere, o come un qualsiasi altro mezzo di trasporto, o qualunque altro oggetto, chiamatelo come vi pare meglio. Basta che s'intenda questo: le cose che ci portano dobbiamo amarle in vista di colui al quale siamo portati.

Fine della Scrittura è l'edificio della carità. Occorre la retta interpretazione.

36. 40. Chiunque pertanto crede di aver capito le divine Scritture o una qualsiasi parte delle medesime, se mediante tale comprensione non riesce a innalzare l'edificio di questa duplice carità, di Dio e del prossimo, non le ha ancora capite 59. C'è poi colui che dalle Scritture riesce a ricavare un'idea utile a costruire l'edificio della carità. Se tuttavia risulterà che non riferisce il senso inteso in quel passo dall'autore di quel determinato libro, il suo errore non è che rechi gran danno né assolutamente lo si può chiamare menzogna. In chi mentisce viceversa c'è la volontà di dire il falso, per cui troviamo molti che vogliono mentire ma nessuno che desideri essere ingannato. Se pertanto uno dice menzogne scientemente e un altro le subisce inconsciamente, in un solo e identico fatto appare assai chiaramente che colui che viene ingannato è migliore di colui che dice menzogne 60. È meglio infatti subire l'iniquità anziché commetterla. Orbene, chi mentisce commette una iniquità; e se a qualcuno talvolta sembrerà che ci sia una menzogna utile, potrà anche sembrargli che qualche volta ci sia una iniquità utile. Nessun mentitore infatti, quando proferisce menzogne, rispetta la fedeltà. Egli certo esige che colui al quale mentisce gli si conservi fedele, ma lui, dicendo menzogne, non conserva la fedeltà all'altro. Ora ogni fedifrago è un iniquo. E quindi, concludendo, o qualche volta l'iniquità è vantaggiosa - la qual cosa è sempre impossibile - o la menzogna è sempre svantaggiosa.

Prima di tutto si ricerchi il senso inteso dall'autore.

36. 41. Chi nelle Scritture la pensa diversamente da quel che pensava l'autore, siccome le Scritture non dicono il falso, è il lettore ad ingannarsi. Tuttavia, come avevo iniziato a dire, se si inganna scegliendo una interpretazione per la quale cresce nella carità - che è il fine della legge 61 - si sbaglia come colui che per errore lascia la via ma, continuando il cammino per i campi, arriva ugualmente alla mèta dove conduceva quella strada. Lo si deve tuttavia correggere e gli si deve dimostrare quanto sia vantaggioso non abbandonare la via, sicché non succeda che con l'abitudine di andare fuori strada si trovi costretto a percorrere vie traverse o sentieri devianti.

La Scrittura spada a due tagli.

37. 41. Asserendo con faciloneria quanto non afferma l'autore del libro che legge l'interprete, il più delle volte va a finire in opinioni impossibili a conciliarsi con il contenuto del testo; e queste opinioni, se egli le condivide ritenendole vere e certe, ne risulterà che la sua interpretazione non potrà conciliarsi con la verità, e, non so come, gli succederà che, amando la sua opinione, comincerà ad essere in contrasto con la Scrittura piuttosto che con se stesso. E questo è un male che, se lascerà serpeggiare nel suo cuore, ne sarà portato in rovina. Noi infatti camminiamo nella fede e non nella visione 62. Ora questa fede vacillerà se vacillerà l'autorità delle divine Scritture e, vacillando la fede, anche la carità si illanguidisce. Difatti, se uno si allontana dalla fede, necessariamente si allontana dalla carità, in quanto non può amare ciò che non crede. Che se al contrario crede e ama, agendo bene e obbedendo alle norme del retto vivere otterrà anche la speranza di arrivare al possesso di ciò che ama. La fede, la speranza e la carità sono dunque le tre virtù per il cui possesso combattono ogni scienza e ogni profezia 63.

Beni temporali e beni eterni. Desiderio e possesso.

38. 42. Alla fede succederà la visione, per cui contempleremo; alla speranza succederà la beatitudine, a raggiungere la quale siamo destinati; quanto poi alla carità, mentre le altre due scompariranno, essa aumenterà. Se infatti mossi dalla fede amiamo ciò che non ancora vediamo, quanto più l'ameremo quando lo vedremo? E se in forza della speranza amiamo quella patria dove non siamo ancora arrivati, quanto più l'ameremo quando ci saremo arrivati? Difatti tra i beni temporali e quelli eterni c'è questa differenza: ciò che è temporale lo si ama di più prima che lo si possegga, mentre, quando se ne è in possesso diventa insignificante: non è infatti in grado di saziare l'anima, la cui sede vera e certa è l'eternità. Ciò che è eterno invece, quando lo si è conseguito, lo si ama con più ardore che non quando era oggetto di desiderio. A nessuno che lo desideri infatti è consentito di valutarlo più di ciò che effettivamente vale, sicché possa diminuire di valore quando lo possederà trovandolo meno pregevole. Anzi, quanto più l'uomo viatore lo avrà stimato, tanto più lo valuterà quando sarà giunto al suo possesso.

Fede, speranza e carità rapportate alla Scrittura.

39. 43. Quando dunque l'uomo è sorretto dalla fede, dalla speranza e dalla carità e ritiene tenacemente queste virtù, non ha bisogno delle Scritture se non per istruire gli altri. E di fatto molti vivono nel deserto senza libri, illuminati da queste tre virtù. Per costoro credo che si sia già realizzato quel che è stato detto: Si tratti di profezie, queste diverranno inutili; di lingue, queste cesseranno; di scienza, questa diverrà inutile 64. Con tale struttura si è elevata in loro una tal mole di fede, di speranza e carità che, conseguito in qualche modo quel che è perfetto, non ricercano più ciò che è parziale 65: perfetto dico quanto si può conseguire nella vita presente. Difatti, in confronto con la vita futura nessun giusto o santo può dire di avere raggiunto al presente una vita perfetta. Perciò dice: Restano la fede, la speranza e la carità, queste tre virtù; ma di esse la più grande è la carità 66, nel senso che quando si sarà raggiunta la vita eterna, mentre le due prime spariscono, la carità rimane, si accresce e diventa più certa.

Per esporre efficacemente la Scrittura, si richiedono fede, speranza e carità.

40. 44. Ne segue che quando uno avrà conosciuto che fine del precetto è la carità originata da cuore puro, coscienza buona e fede sicura 67, se riferirà a queste tre esigenze la comprensione delle divine Scritture può accostarsi tranquillamente alla esposizione di quei libri. Menzionando infatti la carità, vi aggiungeva: da cuore puro, perché non si amasse altro all'infuori di ciò che si deve amare. Il richiamo alla coscienza buona ve lo aggiungeva in vista della speranza. Difatti, se uno ha il rimorso di una coscienza cattiva, dispera di poter raggiungere ciò che crede e che ama. In terzo luogo parla di fede sincera. Se infatti la nostra fede sarà esente da falsità, non amiamo ciò che non si deve amare e, vivendo rettamente, speriamo ciò che in nessun modo delude la nostra speranza. Pertanto delle cose che costituiscono il contenuto della fede ho voluto dirne quanto ritenevo fosse sufficiente, dati i limiti di tempo, perché se n'è parlato molto in altri volumi scritti tanto da noi come da altri. Sia questo dunque l'epilogo di questo libro. In quello che segue parleremo dei segni, nella misura che il Signore ci vorrà donare.


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