LIBRO VENTIDUESIMO

In che senso i Manichei contestano la Legge e i Profeti.

1. FAUSTO. " Perché denigrate la Legge e i Profeti? ". Noi non siamo affatto nemici o avversari della Legge e dei Profeti, né di nessuno: al punto che, se solo ce lo permettete, siamo pronti ad affermare che è falso tutto ciò che su di essi è stato scritto e per cui ci risultano odiosi. Ma voi opponete resistenza, e dando retta ai vostri scrittori, rendete colpevoli i profeti forse innocenti, diffamate i patriarchi, disonorate persino la legge e, cosa ancora più sciocca, pretendete allo stesso tempo che i vostri scrittori non dicano menzogne e che fossero religiosi e santi quelli di cui scrissero turpitudini e vite ignobili. Ma poiché le due cose non possono stare insieme, è necessario o che questi furono cattivi, o che quelli furono menzogneri e falsi.

Gli scrittori deformarono la Legge e i Profeti introducendo i precetti giudaici.

2. Orsù: se ti piace, dopo aver condannato per comune accordo gli scrittori, assumiamo la difesa della Legge e dei Profeti. Per legge, però, io non intendo la circoncisione, il sabato, i sacrifici e le altre cose simili dei Giudei, bensì quella che è la vera legge, cioè: Non uccidere, Non commettere adulterio, Non pronunciare falsa testimonianza 1, ecc. Ad essa, che era diffusa tra le genti già in antico, ovvero sin da quando esiste la creatura di questo mondo, gli scrittori degli Ebrei mescolarono con violenza, come lebbra e rogna, quei loro abominevoli e turpissimi precetti che riguardano la circoncisione e i sacrifici. Suvvia! Se anche tu sei davvero un amico della legge, condannali insieme a me, giacché hanno osato violarla con una simile commistione di precetti che non le si addicono: i quali precetti, se non sapeste anche voi che non sono legge né parte della legge, o vi sforzereste di osservarli, avendo fatto professione di giustizia, oppure confessereste apertamente di non essere giusti. Ora, invece, da una parte, volendo voi vivere rettamente, avete la massima cura di quei comandamenti che proibiscono i delitti, dall'altra non fate alcuna menzione di quelli che riguardano i Giudei: in che modo potreste avere delle scusanti per questo, se non fosse evidente che non si tratta della medesima legge? Infine, se come ti infiammi ritenendo un insulto intollerabile che uno ti dica negligente circa il precetto Non uccidere o: Non commettere adulterio, ti scaldassi altrettanto se uno ti dicesse che sei incirconciso e che trascuri il sabato, se ne dedurrebbe senza dubbio che ambedue sono legge e comandamento di Dio. Ora, invece, riguardo ai primi ottieni lode e onore, se li osservi; mentre riguardo agli altri, non temi affatto la perdita di questo stesso bene, perché li disprezzi. Perciò ne risulta che questi, come ho detto, non sono legge, ma piuttosto macchie e scabbia della legge: se noi li condanniamo, li condanniamo in quanto falsi, non in quanto legittimi. E tale esecrazione non tocca né la legge né Dio autore della legge, bensì coloro che hanno ascritto il nome di questo e di quella alle loro nefaste religioni. Se poi talvolta, quando stigmatizziamo i precetti dei Giudei, noi attacchiamo il venerando nome della legge, ciò accade per colpa vostra, che non volete alcun discrimine tra le istituzioni ebraiche e la legge: piuttosto, rendete alla legge la dignità che le è propria, recidete da essa come verruche le turpitudini degli Israeliti, gettate sugli scrittori la colpa di tale deformazione, e subito vi accorgerete che noi siamo stati nemici del Giudaismo, non della legge. È il termine " legge " a trarvi in inganno: giacché non sapete a cosa si debba giustamente attribuirlo.

O sono menzogneri gli scrittori, o sono veri i crimini dei Patriarchi e dei Profeti narrati nella Scrittura.

3. Al riguardo, non vedo perché riteniate che noi denigriamo i vostri profeti e patriarchi. Infatti, se le cose che si dice abbiano compiute fossero state scritte o dettate da noi, la vostra accusa nei nostri confronti non sarebbe priva di ragione: ma se sono state scritte da loro stessi contro il costume dell'onestà al fine di trarre gloria dai vizi, oppure da loro soci e consimili, che colpa ne abbiamo noi? Noi infatti detestiamo e condanniamo gli atti iniqui che di propria iniziativa, senza neppure essere interrogati, quei rei hanno confessato: se invece fu la malignità degli scrittori a inventare contro di loro queste cose per invidia, si puniscano allora gli scrittori, se ne condannino i libri, si purifichi il nome dei profeti da una fama non meritata, si restituisca autorevolezza alla serietà e alla rettitudine dei patriarchi.

Menzogne degli scrittori sia su Dio sia sugli uomini di Dio.

4. Certamente può essere accaduto che quegli stessi scrittori, così come inventarono impudentemente tante cose a proposito di Dio - dicendo, di volta in volta, che si trovava nelle tenebre dall'eternità e si meravigliò dopo che ebbe visto la luce; che era ignaro del futuro, tanto da impartire ad Adamo un ordine che egli non avrebbe osservato; che non era preveggente, giacché non poté vedere Adamo che, conosciuta la propria nudità, si era nascosto in un angolo del giardino; che era invidioso e temeva che il suo uomo, se avesse assaggiato dell'albero della vita, sarebbe vissuto in eterno; che talora era avido del sangue e del grasso di ogni genere di sacrifici e geloso se, come a lui, li si offrivano ad altri; che era iroso ora con gli estranei, ora con i suoi; che uccideva migliaia di uomini per colpe lievi o affatto commesse; che minacciava che sarebbe venuto con la spada e non avrebbe risparmiato nessuno, né giusto né peccatore -, allo stesso modo, ripeto, può essere accaduto che mentirono anche a proposito degli uomini di Dio, dato che con tanta insolenza mentirono su Dio stesso. Convenite dunque con noi che la colpa va addossata agli scrittori, se volete che ne siano liberati i profeti.

I crimini dei Patriarchi e dei Profeti.

5. Fino a prova contraria, non siamo stati noi a scrivere di Abramo che, bruciando dall'insano desiderio di avere un figlio, e non confidando affatto in Dio che già glielo aveva promesso dalla moglie Sara, si rotolò con una concubina, essendone la moglie (cosa ancora più turpe) a conoscenza 2. E neppure che, mercanteggiando in modo vergognosissimo il proprio matrimonio, a causa dell'avarizia e del ventre egli offrì in vendita come concubina, poiché era bellissima, la suddetta moglie Sara, spacciandola per la propria sorella 3, a due re, Abimelech e Faraone, in momenti diversi. Né che Lot, suo fratello, dopo essere stato liberato da Sodoma, giacque sul monte con le sue due figlie 4, egli che a Sodoma, colpito da un fulmine, sarebbe arso più onestamente di come bruciò sul monte per la fiamma di una libidine proibita. E neanche che Isacco si comportò tale e quale al padre nei riguardi di sua moglie Rebecca, anch'egli fingendo che fosse sua sorella 5 per vivere vergognosamente per mezzo di lei. Né che Giacobbe suo figlio si aggirò come un capro tra Rachele e Lia, sorelle germane, e le loro rispettive schiave, facendo il marito di quattro mogli, al punto che ogni giorno quelle quattro prostitute facevano a gara su chi per prima se lo portasse nel giaciglio al suo ritorno dai campi, e talora di notte se lo cedevano pure l'una all'altra dietro compenso 6. E nemmeno che Giuda suo figlio giacque con la nuora Tamar, dopo le nozze dell'uno e dell'altro figlio, ingannato - dicono - dall'aspetto di prostituta 7 che essa, bene al corrente del fatto che il suocero trafficava da sempre con quel genere di donne, aveva assunto. Né che Davide, dopo un gran numero di mogli, commise adulterio anche con quella sgualdrina della moglie di Uria e fece morire lui in guerra 8. Né che Salomone suo figlio ebbe trecento mogli e settecento concubine e figlie di re senza numero 9. Né che Osea, il primo dei profeti, ebbe figli da una prostituta 10: turpitudine che, cosa ancor più esecrabile, viene presentata come un consiglio impartito da Dio. Né tantomeno che Mosè commise omicidio 11, che depredò l'Egitto 12, che fece guerre, che ordinò e compì molteplici crudeltà 13, e che neppure lui si accontentò di un solo matrimonio. Nessuna di queste cose - ripeto - né altre simili che si trovano nei diversi libri di quegli autori, sono state scritte o dettate da noi: a questo punto, o sono falsi i racconti dei vostri scrittori, o sono veri i crimini dei padri. Voi, scegliete pure delle due alternative quella che volete: quanto a noi, è giocoforza che deprechiamo o gli uni o gli altri, dal momento che abbiamo in odio sia i malvagi e i turpi sia i bugiardi.

I Manichei non comprendono il valore simbolico dei precetti e delle azioni contenuti nel Vecchio Testamento.

6. AGOSTINO. Non comprendete né i misteri della Legge né le azioni dei Profeti, poiché non sapete pensare né la santità né la giustizia. Ma circa i precetti e i misteri del Vecchio Testamento abbiamo già detto spesso e molto, affinché si comprendesse che lì un conto è ciò che viene impartito perché sia condotto a compimento, realizzandolo per mezzo della grazia del Nuovo Testamento, un conto è ciò che si dimostra essersi compiuto, perché la verità ormai manifestata lo abolisce: ovvero, che il precetto della legge veniva ricevuto perché doveva essere perfezionato con l'amore di Dio e del prossimo, mentre la promessa della legge dimostrava di essersi compiuta con l'abolizione della circoncisione e degli altri segni di quel tempo. Il precetto creava dei colpevoli affinché si desiderasse la salvezza, la promessa invece celebrava le figure nell'attesa del Salvatore: cosicché per l'avvento del Nuovo Testamento gli uni fossero liberati dal dono della grazia, le altre venissero spazzate via dalla verità sopraggiunta. Infatti la stessa legge che è stata data per mezzo di Mosè è divenuta grazia e verità per mezzo di Gesù Cristo 14: grazia, cosicché, concesso il perdono dei peccati, si adempia per dono di Dio a ciò che è stato comandato; verità, cosicché, abolita l'osservanza delle ombre, per la fedeltà di Dio si renda presente ciò che è stato promesso.

I Manichei giudicano con mente carnale le figure che contengono le promesse.

7. Pertanto costoro che, biasimando ciò che non comprendono, considerano come lebbra, scabbia o verruche della legge le figure simboliche che contengono le promesse sono simili ad uomini che disdegnano ciò di cui non afferrano l'utilità: come un sordo che, vedendo muoversi le labbra di uno che parla, criticasse i movimenti della bocca come superflui e indecorosi; o un cieco che, al sentirsi magnificare una certa casa, volesse col tatto la riprova di quanto gli viene detto e mettendosi a saggiare con la mano la levigatezza delle pareti incappasse all'improvviso nelle finestre e le criticasse come disdicevoli a quella superficie omogenea, ritenendole buchi dovuti a crolli.

Ottusità dei Manichei circa Gen 1,2: differenza tra luce creatrice e luce creata.

8. Ma le azioni dei profeti furono esse stesse profetiche e simboliche: come potrò mai farlo capire a gente la cui mente è piena di vacuità a tal punto che, secondo loro, noi crediamo che anche Dio stesso un tempo si trovava nelle tenebre, giacché sta scritto Le tenebre ricoprivano l'abisso 15? Come se noi chiamassimo Dio l'abisso dove c'erano le tenebre in quanto lì, prima che Dio con la sua parola creasse la luce, non c'era luce! Ma poiché essi non distinguono tra la luce che è Dio stesso e la luce che Dio ha creato, ritengono che ne consegua che egli stesso fosse nelle tenebre prima di creare la luce, essendo le tenebre sopra l'abisso prima che egli dicesse: Sia fatta la luce. E la luce fu 16. Come nel Nuovo Testamento si dicono di lui ambedue le cose - vi leggiamo infatti sia che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre 17, sia che Dio che disse: " Rifulga la luce dalle tenebre ", rifulse nei nostri cuori 18 -, allo stesso modo anche nel Vecchio Testamento si dice sia: È un riflesso della luce perenne 19 a proposito della Sapienza di Dio, che certamente non è stata fatta 20, poiché tutte le cose furono fatte per mezzo di lei, sia: Tu, Signore, sei luce alla mia lampada: il mio Dio rischiara le mie tenebre 21 a proposito di una luce che non può essere stata fatta se non per mezzo di lei. Allo stesso modo anche all'inizio, quando le tenebre erano sopra l'abisso, Dio disse: Sia fatta la luce. E la luce fu: una luce che nessun altro avrebbe potuto creare se non la luce creatrice della luce, cioè Dio.

All'occhio carnale dei Manichei è inaccessibile la luce creatrice.

9. Come infatti Dio basta a se stesso riguardo alla beatitudine eterna, e ne trabocca per renderci beati, così basta a se stesso riguardo alla luce eterna e ne trabocca per illuminarci: egli non brama il bene di nessuno, giacché è egli stesso il godimento di ogni volontà buona, né teme il male di nessuno, giacché è da lui stesso che ogni volontà cattiva viene abbandonata. Infatti, né lo accresce chi è beato per dono suo, né lo intimorisce chi è infelice per sua sentenza. Non è questo, o Manichei, il Dio che voi adorate: di molto vi siete allontanati da lui, inseguendo i vostri fantasmi, che il vostro cuore vuoto e instabile, abbeverandosi con gli occhi della carne a questa luce dei corpi celesti, ha dilatato e diversificato in un moltiplicarsi di invenzioni. Questa luce, sebbene anch'essa fatta da Dio, non è neppure lontanamente paragonabile con la luce che Dio ha creato nelle menti dei pii, che le illumina dalle tenebre e le giustifica dall'empietà: quanto meno lo sarà con quella luce inaccessibile che di tutte queste cose è creatrice! Eppure, non a tutti è inaccessibile: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio 22, e Dio è luce e in lui non ci sono tenebre; gli empi invece non vedranno la luce, come dice Isaia 23. A costoro dunque è inaccessibile la luce, creatrice di luce, che creò non solo quella luce spirituale nelle menti dei santi, ma anche questa luce corporea, alla quale non proibisce che i malvagi si avvicinino, bensì la fa sorgere sopra i buoni e sopra i malvagi 24.

Ipotesi sulla natura della luce creata.

10. Quando dunque le tenebre erano sopra l'abisso egli, che era la luce, disse: Sia fatta la luce. È chiaro quale luce fece la luce: infatti troviamo chiaramente scritto Dio disse; non è altrettanto chiaro, invece, quale luce fu fatta. Per gli studiosi delle Divine Scritture, infatti, è oggetto di comune discussione se si tratti della luce che sta nelle menti degli angeli, se cioè Dio abbia creato in quel momento gli stessi spiriti razionali, oppure di una qualche luce corporea, situata anch'essa lontano dai nostri sguardi nei luoghi più alti di questo mondo. Infatti i luminari visibili nel cielo li creò il quarto giorno: e a sua volta similmente ci si domanda se essi furono creati simultaneamente alla loro luce, o in che modo furono accesi a partire da quella luce che era già stata creata. In ogni caso, qualunque sia la luce che fu fatta allorché, essendo le tenebre sopra l'abisso, Dio disse: sia fatta la luce, nessuno che, leggendo con pietà le sacre Scritture diventi degno di comprenderle, dubita del fatto che la luce creata fu fatta dalla luce creatrice.

In che senso lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque (Gen 1,2).

11. Né si deve ritenere che Dio, prima di fare la luce, abitasse nelle tenebre, per il fatto che: Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque 25 ed essendo stato detto in precedenza che le tenebre ricoprivano l'abisso. L'abisso infatti è l'immensa profondità delle acque. Da qui può venire in mente, a chi pensa secondo la carne, che lo Spirito di Dio abitasse in quelle tenebre che erano sopra l'abisso, dato che di lui si dice: aleggiava sulle acque: costui non capisce come la luce risplenda nelle tenebre e come le tenebre non la comprendano 26 se non quando divengano luce mediante la parola di Dio e si dica loro: Se un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore 27. Se dunque le menti razionali, ottenebrate dalla volontà empia, non possono comprendere la luce - mai assente - della sapienza di Dio, poiché ne sono lontane per l'affetto, non per il luogo, che c'è di strano se lo spirito di Dio, che aleggiava sopra le acque, aleggiasse anche sopra le tenebre delle acque, certamente ad una distanza senza paragoni, ma di sostanza e non di luogo?

In che senso Dio si meravigliò della luce (Gen 1,4).

12. So bene di cantare queste cose a dei veri e propri sordi: tuttavia, non dispero che la verità del mio canto incontri un orecchio che sia stato aperto dal Signore, dal quale provengono le verità che diciamo. Ma dobbiamo proprio sopportare come giudici delle Divine Scritture persone simili, alle quali non aggrada neanche che a Dio piacquero le proprie opere, e lo accusano di essersi meravigliato della luce come di una cosa estranea, poiché sta scritto: Dio vide che la luce era cosa buona 28? Egli infatti approva le sue opere perché gli piace ciò che ha fatto, ed è questo che significa il vedere che sono buone. Infatti non è costretto a fare qualcosa contro la propria volontà, così da fare ciò che non gli piace; né si mette a fare qualcosa inavvertitamente, così da dispiacersi di averla fatta. Ma come potrebbe non infastidire costoro il fatto che il nostro Dio vide che la sua opera era buona, dal momento che il loro dio, quando ebbe sommerso le sue membra nelle tenebre, si mise davanti un velo? Non vide infatti che ciò che aveva fatto era buono, bensì non volle vedere che era cattivo.

In che senso Cristo si meravigliò della fede del centurione (Mt 8,10).

13. Fausto dice chiaramente che il nostro Dio si meravigliò, il che non è scritto: né se uno vede che una cosa è buona, ne consegue che si dica che ne resti anche meravigliato. Infatti, di fronte a molte cose che vediamo buone, non rimaniamo meravigliati perché sono tali contro la nostra aspettativa, ma le approviamo semplicemente perché tali dovevano essere. Nondimeno, mostriamo a costoro, non nel Vecchio Testamento che calunniano in mala fede, ma nel Nuovo che accettano per ingannare gli inesperti, che Dio si è meravigliato. Essi infatti confessano che Cristo è Dio, e pongono nel loro laccio questa esca dolcissima, con cui catturare chi è devoto a Cristo. Dio dunque si è meravigliato quando Cristo si è meravigliato: infatti sta scritto nel Vangelo che, udita la fede di un centurione: Ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande 29. Ecco, abbiamo spiegato come abbiamo potuto le parole Dio vide che era cosa buona, e forse interpreti migliori le spiegano meglio. Spieghino anche costoro in che senso Gesù si meravigliò di una cosa che sapeva già prima che accadesse, e conosceva già prima di udirla. Sebbene infatti ci sia una grande differenza tra il vedere che una cosa è buona e il meravigliarsene anche, tuttavia in questo caso c'è una qualche similitudine, poiché anche Gesù si meravigliò per la luce di fede che egli stesso, che è la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo, aveva fatto nel cuore di quel centurione 30.

Le critiche di Fausto al Vecchio Testamento somigliano a quelle che i pagani potrebbero muovere al Nuovo.

14. Certo, un pagano empio potrebbe insultare e accusare Cristo nel Vangelo, così come Fausto fa con Dio nel Vecchio Testamento. Potrebbe infatti dire anch'egli che Cristo mancava di prescienza, non solo perché rimase stupito della fede del centurione, ma anche perché fra i suoi discepoli scelse Giuda, che non avrebbe osservato i suoi comandamenti 31: così come Fausto biasima il fatto che nel paradiso fu dato all'uomo un ordine che non avrebbe eseguito 32. Gli imputerebbe anche che non fu in grado di sapere chi lo aveva toccato, quando quella che soffriva per il flusso di sangue gli toccò la frangia dell'abito: così come costui incolpò Dio di ignorare dove si nascondesse Adamo, credo a motivo delle parole: Adamo, dove sei 33?, così come per quelle di Cristo: Chi mi ha toccato 34? Potrebbe dire anche che era invidioso e che aveva paura che se altre cinque vergini fossero entrate nel suo regno, sarebbero vissute in eterno: e chiuse loro la porta in modo da non aprire neppure di fronte al loro pietoso bussare 35, come dimenticando ciò che egli stesso aveva promesso col dire: Bussate e vi sarà aperto 36; così come costui accusa Dio di invidia e di paura perché non aveva ammesso il peccatore alla vita eterna. Potrebbe ritenerlo desideroso del sangue non degli animali ma degli uomini, poiché disse: Chi avrà perduto la sua anima per causa mia, la troverà per la vita eterna 37: così come costui ha voluto criticare i sacrifici degli animali, figure con cui veniva promesso il sacrificio del sangue dal quale siamo stati redenti. Potrebbe rimproverarlo anche di essere geloso, per il fatto che, quando scacciò dal tempio con il flagello i compratori e i venditori, l'evangelista ha ricordato che di lui fu scritto: Lo zelo per la tua casa mi divora 38, così come costui ha accusato Dio di gelosia perché vietò che si sacrificasse ad altri. Potrebbe considerarlo iroso verso i suoi e verso gli estranei: verso i suoi, poiché disse: Il servo che, conoscendo la volontà del suo padrone, avrà fatto cose degne di percosse, ne riceverà molte 39; verso gli estranei, poiché disse: Se qualcuno non vi accoglierà, scuotete su di lui la polvere dei vostri piedi. In verità vi dico, nel giorno del giudizio Sodoma avrà una sorte più sopportabile di quella città 40: così come costui incrimina Dio di ira ora verso i suoi ora verso gli estranei, giacché l'Apostolo menziona ambedue quando dice: Tutti quelli che hanno peccato senza la legge, periranno anche senza la legge; quanti invece hanno peccato sotto la legge, saranno giudicati sotto la legge 41. Potrebbe dire che trucidò e sparse il sangue di molti per colpe lievi o per nulla commesse. Agli occhi di un pagano apparirebbe certo colpa lieve o affatto commessa il non avere la veste nuziale in un banchetto di nozze, motivo per cui il nostro re nel Vangelo ordinò che quell'uomo fosse gettato nelle tenebre esteriori 42 legato mani e piedi; o il non volere Cristo come proprio re, peccato per il quale dice: Quelli che non volevano che diventassi loro re, conduceteli qui e uccideteli davanti a me 43: così come costui ha accusato Dio nel Vecchio Testamento poiché gli sembrò che trucidasse migliaia di uomini per colpe lievi o per nulla commesse. Quanto poi all'accusa di Fausto a Dio che minaccia di venire con la spada con cui non risparmierà né il giusto né il peccatore, quale accuse mai non lancerebbe quel pagano udendo l'apostolo Paolo dire del nostro Dio: Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi 44; udendo anche Pietro, che nel parlare delle grandi tribolazioni dei santi e della loro uccisione, li esorta a sopportare e dice: È giunto il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio; e se inizia da noi, quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al Vangelo del Signore? E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà del peccatore e dell'empio? 45 Cosa c'è infatti di più giusto di quell'unico, che tuttavia il Padre non risparmiò? E cosa di più evidente del fatto che non risparmi neppure i giusti, purificandoli con diverse tribolazioni, dal momento che di ciò si dice apertamente: E se il giusto a stento si salverà? Non solo infatti nel Vecchio Testamento sta scritto: Dio corregge chi ama; percuote ogni figlio che predilige 46 e: Se dalla mano del Signore accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male? 47; ma anche nel Nuovo troviamo: Colui che amo, lo rimprovero e lo castigo 48, e: se infatti ci esaminassimo da noi stessi, il Signore non ci giudicherebbe; ma se ci giudica, il Signore ci corregge, affinché non siamo condannati insieme con il mondo 49. Tuttavia, se un pagano criticasse nel Nuovo Testamento le medesime cose che costoro criticano nel Vecchio, non si metterebbero forse essi stessi a difenderle? E se mai riuscissero a farlo, per quale follia accusano qui ciò che lì difendono? Se invece non ci riuscissero, perché concedono che si debba credere, in un Testamento soltanto e non piuttosto in ambedue, una cosa che, senza essere compresa, appare ignobile agli empi e invece giusta, sebbene misteriosa, ai pii?

Anche nel Nuovo Testamento i Manichei attribuiscono a falsari ciò che non si accorda con la loro eresia.

15. O forse osano dire che sono false e perverse anche le affermazioni simili che abbiamo addotto dal Nuovo Testamento, in base a quel loro diabolico privilegio per cui tutto ciò che, nel Vangelo o nelle Epistole canoniche, pensano che possa sostenere la loro eresia lo accettano e lo propagandano come detto da Cristo e dagli apostoli, mentre tutto ciò che nei medesimi codici suona come detto contro di loro, non esitano ad affermare con bocca impudente e sacrilega che vi fu immesso ad opera di falsari? A questa loro follia, che tenta di annullare e abbattere l'autorità di tutti i libri, ho già risposto in precedenza non poche cose, per quello che mi sembrava permetterlo la fisionomia della presente opera.

Esposizione e confutazione delle eventuali accuse dei pagani: Dio è privo di prescienza e invidioso dell'uomo.

16. Ora li ammonisco affinché, mentre cercano di velare le loro favole insane e sacrileghe sotto il pallio del nome cristiano, vedano tuttavia che, quando discutono queste cose contro le Scritture cristiane, la verità dei codici divini di ambedue i Testamenti è difesa da noi non soltanto contro i pagani, ma anche contro i Manichei. E queste cose che Fausto, attingendole dalle nostre antiche scritture, ha appena inserito nel suo discorso come indegne di Dio, io forse potrei difenderle contro un pagano che le biasimasse nel testo evangelico o apostolico menzionandone alcune simili prese dai loro autori, come fece il nostro Paolo presso gli Ateniesi 50. Infatti, potrei forse trovare anche nella loro letteratura un Dio che creò e fabbricò il mondo e dette inizio a questa luce e che tuttavia, prima di crearla, non giaceva nelle tenebre; che al compimento dell'opera sua fu preso dalla gioia - il che è certo di più del Vide che era cosa buona -; che dette una legge seguendo la quale l'uomo avrebbe fatto il proprio bene, o il proprio male disprezzandola, e che non direbbero certo che ignorava il futuro, per il fatto che dette la legge anche a chi l'avrebbe poi disprezzata. Invero, non chiamerebbero privo di prescienza neppure un uomo per il fatto che pone delle domande, coloro nei cui libri molte domande sono formulate per null'altro motivo che ciascuno si convinca con le proprie risposte, giacché colui che interroga non solo sa ciò che vuole che l'altro gli risponda, ma anche ciò che quello gli risponderà. Se invece volesse dire che Dio è invidioso di qualcuno perché non permette che i malvagi siano felici, troverebbe pieni a questo riguardo i libri dei suoi inerenti alla provvidenza divina.

Il valore degli antichi sacrifici.

17. Sui sacrifici, poi, questo solo il pagano mi potrebbe obiettare: perché li critichiamo presso di loro, dal momento che nei nostri antichi libri si legge che il nostro Dio comandò che gli si offrissero? A questo proposito, mettendomi a discutere più ampiamente del vero sacrificio, gli potrei dimostrare che esso non è dovuto se non all'unico vero Dio, e che a lui è stato offerto dall'unico vero sacerdote, mediatore tra Dio e gli uomini 51: sacrificio le cui prefigurazioni era opportuno fossero celebrate con vittime animali, a indicare la carne e il sangue futuri, quelli dell'unica vittima per la quale vengono rimessi i peccati contratti con la carne e il sangue, che non possiederanno il regno di Dio, poiché la sostanza stessa del corpo si trasformerà in qualità celeste: cosa che nel sacrificio era significata dal fuoco, quasi un assorbimento della morte nella vittoria 52. Queste cose furono celebrate a buon diritto presso quel popolo il cui regno e sacerdozio erano profezia del Re e del Sacerdote che sarebbe venuto a governare e a consacrare fedeli di tutte le genti e a introdurli nel regno dei cieli, nel santuario degli angeli e nella vita eterna. Di questo vero sacrificio, gli Ebrei celebrarono santamente la prefigurazione e i pagani un'imitazione sacrilega: poiché, dice: l'Apostolo: I sacrifici dei Gentili sono fatti ai demoni e non a Dio 53. L'immolazione del sangue quale preannunzio è infatti una realtà antica, che dall'inizio del genere umano dà testimonianza della futura passione del Mediatore: nella sacra Scrittura si trova infatti che il primo ad offrirla fu Abele 54. Non fa pertanto meraviglia se gli angeli prevaricatori che volteggiano per questa atmosfera, i cui due vizi maggiori sono la superbia e la falsità, ciò che sapevano doversi all'unico vero Dio lo pretesero per sé dai propri adoratori, dai quali vollero essere ritenuti dèi; ne offrì l'occasione la vacuità del cuore umano, soprattutto quando per nostalgia dei morti furono costruite delle immagini, donde è derivata l'usanza dei simulacri 55, e con adulazione ancora più grande furono ad essi tributati onori divini, come fossero stati assunti in cielo, mentre sulla terra i demoni ne prendevano il posto per farsi adorare, reclamando i sacrifici degli ingannati e degli illusi. Pertanto, risulta chiaro a sufficienza a chi si debba un sacrificio: non solo quando giustamente lo ordina il vero Dio, ma anche quando con presunzione lo esige un Dio falso. Se ciò per quel pagano fosse troppo difficile da credersi, lo convincerei con la stessa profezia, nella quale furono scritte tanto tempo prima le cose che ora gli mostrerei realizzate. Se poi disprezzasse anche questa, ammetterei il fatto piuttosto che stupirmene, giacché mi tornerebbe alla memoria che, secondo la verità della medesima profezia, non tutti avrebbero creduto.

Gelosia di Dio: ambivalenza della terminologia.

18. Se poi, sulla base di ambedue i Testamenti, mi obiettasse che Cristo o Dio sono gelosi, e criticasse il termine stesso, non mostrerebbe altro che la propria totale ignoranza o negligenza in fatto di letteratura. Infatti, sebbene i loro dotti facciano distinzione tra volontà e brama, gioia e ilarità, circospezione e paura, clemenza e misericordia, prudenza e astuzia, confidenza e audacia, e in queste e molte altre simili coppie di termini ascrivano il primo alle virtù e il secondo ai vizi, tuttavia i loro libri sono pieni dell'uso improprio dei termini che propriamente indicano i vizi, giacché con essi vengono designate anche le virtù: si usa brama per volontà, ilarità per gioia, paura per circospezione, misericordia per clemenza, astuzia per prudenza, audacia per confidenza. E chi riuscirebbe a citare tutti i termini che il linguaggio d'uso usurpa per tale licenza? Bisogna inoltre aggiungere anche le caratteristiche proprie di ciascuna singola lingua. Infatti negli scrittori ecclesiastici non trovo mai utilizzato il termine " misericordia " in senso negativo, e in ciò è concorde anche la consuetudine del linguaggio quotidiano. I Greci chiamano con un unico nome due cose certo simili, ma tuttavia distinte, quali la fatica e il dolore; noi le indichiamo con due nomi diversi. Noi chiamiamo con un unico nome la vita sia quando diciamo che uno " vive " perché non è morto, sia quando diciamo che " È un uomo dalla vita onesta ": i Greci invece designano queste due cose con due vocaboli. Da ciò potrebbe darsi che, a prescindere dell'uso improprio delle parole, ampiamente presente in tutte le lingue, in virtù di qualche caratteristica propria della lingua ebraica " gelosia " sia utilizzato in ambedue i sensi: sia quando l'animo, turbato per l'adulterio del coniuge, si strugge, cosa che non può verificarsi per Dio, sia quando si pratica una vigilante custodia per conservare la castità coniugale; e che Dio faccia questo allorché parla col suo popolo come con una sposa che non vuole si dia alla fornicazione con molti dèi falsi, è per noi utile crederlo non solo senza dubitare, ma anche rendendone grazie. Lo stesso potrei affermare dell'ira di Dio: Dio infatti, quando si adira, non è soggetto a turbamento, ma si dice ira al posto di vendetta o per catacresi, o per qualche caratteristica propria della lingua originale.

Durezza e giudizio di Dio.

19. Costui non si meraviglierebbe poi della morte di migliaia di uomini, se non negasse il giudizio di Dio: giudizio che neanche i pagani negano, giacché ammettono che questo universo dalle realtà più alte sino alle infime è retto e amministrato dalla provvidenza di Dio. Se negasse anche questo, potrei convincerlo ben facilmente con l'autorità dei suoi, o disputando poco più a lungo con solidi ragionamenti. Se poi fosse troppo duro e stolto, lo abbandonerei a quello stesso giudizio divino alla cui esistenza egli non crede. Se menzionasse esplicitamente le colpe lievi o nulle per le quali Dio fece morire quegli uomini, gli mostreremmo che non sono né nulle né lievi: circa ad esempio il caso già posto della veste nuziale 56, gli dimostreremmo quanto è illecito recarsi alle sacre nozze cercando lì non la gloria dello sposo, ma la propria, oppure un altro significato che per quella veste, in virtù di una migliore comprensione, si potesse trovare. Circa il fatto che vengono uccisi davanti agli occhi del re quelli che non volevano che egli regnasse su di loro 57, basterebbe un nostro discorso forse non lungo a chiarire che, se per un uomo non è una colpa il non volere che un altro uomo regni su di lui, non altrettanto si tratta di colpa nulla o lieve se egli non vuole che a regnare su di lui sia l'unico nel cui regno si vive santamente, felicemente e per sempre.

Perché Dio punisce sia il giusto sia il peccatore.

20. Quanto all'ultimo esempio che Fausto ha posto, accusando i libri antichi quasi di insultare Dio perché minaccia la spada e di non risparmiarla a nessuno, né giusto né peccatore, se spiegassimo al pagano in che modo si debba intenderlo, forse egli non farebbe resistenza né al Nuovo né al Vecchio Testamento e gli piacerebbe la similitudine evangelica che invece a costoro, che vogliono essere considerati cristiani, o non è visibile perché sono ciechi o dispiace perché sono malvagi. Certamente il supremo coltivatore della vite usa la falce in un modo per i tralci che portano frutto 58 e in un altro per quelli che non ne portano: tuttavia non risparmia né i buoni né i cattivi, gli uni per ripulirli, gli altri per tagliarli. Nessun uomo infatti è dotato di tanto grande giustizia che non gli sia necessaria la prova della tribolazione, al fine di perfezionare, di confermare o di saggiare la virtù: a meno che costoro non vogliano escludere dal novero dei giusti lo stesso apostolo Paolo, il quale sebbene confessi con umiltà e sincerità i suoi peccati trascorsi, tuttavia rende grazie per essere stato giustificato dalla fede in Gesù Cristo 59. O forse lo risparmiava colui che questi sciocchi non comprendono quando dice "Non risparmierò né il giusto né il peccatore "? Ascoltino allora lui stesso: Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un angelo di Satana incaricato di schiaffeggiarmi; a causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me ed egli mi ha detto: " Ti basta la mia grazia, poiché la virtù si perfeziona nella debolezza 60 ". Dunque non risparmiava neppure il giusto, per perfezionarne la virtù nella debolezza, colui che gli aveva dato un angelo di Satana che lo schiaffeggiasse: a meno che non diciate che gli fu dato dal diavolo. Dunque il diavolo agiva perché Paolo non insuperbisse per la grandezza delle rivelazioni e la sua virtù giungesse a perfezione: ma chi potrebbe mai dire una cosa simile? Pertanto, a consegnare quel giusto all'angelo di Satana perché venisse schiaffeggiato fu colui che, per mezzo di quel giusto, consegnava allo stesso Satana anche gli ingiusti, dei quali Paolo dice: Li ho consegnati a Satana perché imparino a non più bestemmiare 61. Comprendete ora in che modo dall'alto egli non risparmi né il giusto né il peccatore? O vi indignate ancora di più perché lì è stata menzionata la spada? Una cosa infatti è essere colpiti, un'altra essere uccisi. Come se le migliaia di martiri non fossero stati abbattuti con diversi tipi di morte, o i persecutori avessero avuto tale potere se non perché fu loro concesso dall'alto, da colui che disse: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore "; essendo lo stesso Signore dei martiri di cui si dice: Non ha risparmiato il proprio Figlio 62 a dire con tutta chiarezza a Pilato: Tu non avresti nessun potere su di me, se non ti fosse stato dato dall'alto 63. Paolo stesso dice che queste violenze e persecuzioni nei confronti dei giusti sono un esempio del giudizio di Dio 64. Affermazione che viene più ampiamente chiarita dall'apostolo Pietro, come ho ricordato sopra, quando dice: È giunto il momento in cui inizia il giudizio dalla casa di Dio; e se inizia da noi, quale sarà la fine di coloro che rifiutano di credere al Vangelo del Signore? E se il giusto a stento si salverà, che ne sarà del peccatore e dell'empio? 65 Da qui si capisce in che modo non vengano risparmiati gli empi, che sono come sarmenti tagliati per essere bruciati; i giusti invece non vengono risparmiati affinché sia perfezionata la loro purificazione. Il medesimo Pietro attesta che queste cose avvengono per volontà di colui che negli antichi libri dice: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore ". Dice infatti: È meglio, se così vuole lo Spirito di Dio, soffrire operando il bene che facendo il male 66. Quando dunque per volontà dello Spirito di Dio soffrono quelli che fanno il bene, sono i giusti a non essere risparmiati; quando invece soffrono quelli che fanno il male, sono i peccatori; tuttavia ambedue le cose avvengono per volontà di colui che dice: " Non risparmierò né il giusto né il peccatore ", l'uno castigandolo come un figlio, l'altro punendolo come un empio.

I Manichei calunniano il Dio dei Cattolici nel Vecchio Testamento e rifiutano la correzione che viene dal Nuovo.

21. Ho dunque mostrato, per quanto ho potuto, che noi non adoriamo un Dio che dimora dall'eternità nelle tenebre, ma colui che è luce 67 e nel quale non vi è alcuna tenebra, e anzi in lui stesso abita la luce inaccessibile 68, giacché lo splendore di tale luce eterna è la sua coeterna Sapienza 69. Neppure un Dio che si meraviglia di una luce ignota, bensì colui che creò la luce affinché esistesse e la approvò affinché permanesse. Né uno ignaro del futuro, bensì colui che comanda il precetto e condanna il delitto, per vincolare contro la disobbedienza i presenti e intimorire con l'anticipo di una giusta vendetta coloro che verranno. Né un Dio sprovveduto, che fa domande perché è ignorante: bensì uno che interrogando giudica. Non uno invidioso e pauroso: bensì uno che giustamente esclude il prevaricatore da quella vita eterna che giustamente concede a chi obbedisce. Non uno bramoso di sangue e di grasso: bensì uno che, imponendo a un popolo carnale dei sacrifici adeguati, per mezzo di alcune figure promette il sacrificio vero. Uno geloso non per livida passione, ma per serena bontà, affinché l'anima che deve conservare la castità per l'unico Dio non si insozzi, corrotta e prostituita a molti dèi falsi. Non uno che si infuria torbidamente di un'ira umana, bensì uno che retribuisce severamente ciò che è giusto con un diverso e divino atteggiamento, che secondo un certo uso della lingua viene chiamato ira non a motivo della brama di vendetta, ma per il vigore che c'è nel giudizio. Non uno che fa morire migliaia di uomini per colpe lievi o per nulla commesse: bensì uno che, con esame sommamente equo, mediante le morti temporali dei mortali impone ai popoli un utile timore di sé. Non uno che senza alcun discernimento punisce con cieca confusione i giusti e i peccatori: bensì uno che distribuisce ai giusti una salutare correzione in vista della perfezione, e ai peccatori la dovuta severità a cagione della giustizia. Da ciò appare, o Manichei, che siete stati ingannati dai vostri sospetti, allorché mal comprendendo le nostre Scritture, o frequentandone cattivi conoscitori, credete sui cattolici cose false; e abbandonata così la sana dottrina, rivolti a favole sacrileghe, totalmente sviati ed estraniati dalla società dei santi, non volete neppure essere corretti sulla base del Nuovo Testamento, dal quale noi estraiamo cose analoghe a quelle che voi biasimate nel Vecchio. Ne deriva che, come contro i pagani, siamo costretti a difendere entrambi i Testamenti anche contro di voi.

Il dio manicheo è un'invenzione.

22. Ma supponete che uno, del tutto carnale, sia così stolto da adorare come Dio non quello che adoriamo noi, cioè l'unico e il vero, ma quello che voi dite che noi adoriamo, quello cioè inventato dalle vostre calunnie o dai vostri sospetti: non ne adorerebbe comunque uno migliore del vostro? Vi prego, prestate attenzione e aprite gli occhi, comunque essi siano - giacché non occorre una grande acutezza di ingegno per poter capire ciò che dico -; mi rivolgo a tutti, saggi e non saggi: udite, ascoltate, giudicate. Quanto sarebbe stato meglio che il vostro dio avesse dimorato dall'eternità nelle tenebre, piuttosto che sommergere nelle tenebre la luce a sé coeterna ed affine! Che avesse lodato, meravigliandosene, una nuova luce sorta a mettere in fuga le tenebre, anziché non aver potuto evitare l'irrompere delle antiche tenebre se non ottenebrando la sua propria luce! Infelice, se fece questo perché si turbò; crudele, se lo fece senza che ci fosse pericolo. Infatti sarebbe certo stato meglio per lui vedere la luce da sé creata e meravigliarsi che fosse buona, piuttosto che renderla malvagia dopo averla generata, dato che quella luce respinse da lui le tenebre nemiche al punto da divenirgli nemica essa stessa. Questa è infatti la colpa che sarà imputata a quei resti da condannare nel globo: che " che concessero a se stessi di allontanarsi dalla loro precedente brillantezza naturale e divennero nemici della santa luce ". Prima che ciò avvenisse, se dall'eternità ignoravano che ciò sarebbe loro accaduto, pativano un'eterna tenebra di ignoranza; se invece ne erano a conoscenza, un'eterna tenebra di paura. Dunque una parte e sostanza del vostro dio dimorò dall'eternità nelle proprie tenebre, e in seguito non si meravigliò di una nuova luce, ma si imbatté in altre tenebre estranee, che da sempre aveva temuto. Quindi se dio stesso, del quale quella era una parte, temeva che a quella sua parte sarebbe avvenuto un male così grande, ciò significa che le tenebre della paura avevano invaso anche lui; se invece ignorava che ciò sarebbe accaduto, era accecato dalle tenebre dell'ignoranza. Ma se sapeva che ciò sarebbe accaduto a una parte di sé, e non aveva timore, le tenebre di tanta crudeltà sono peggiori di quelle dell'ignoranza o del timore; il vostro dio infatti non possedeva neanche ciò che l'Apostolo loda nella carne stessa, che voi - del tutto folli - credete essere stata creata non da Dio ma da Hyle: Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme 70. Ma non lo accusiamo: egli lo sapeva, lo temeva, se ne doleva, ma non poteva fare nulla. Dimorò dunque da sempre nelle tenebre della sua disgrazia; né in seguito si meravigliò di una nuova luce che da lui allontanasse le tenebre, ma sperimentò altre tenebre, che da sempre aveva temuto, con grande danno della propria luce. Quanto sarebbe stato meglio, non dico impartire un precetto come un dio, ma ricevere un precetto come un uomo! Sia custodendolo a suo vantaggio, sia disprezzandolo a suo danno, tuttavia in ambedue i moti dell'animo egli avrebbe fatto uso della libera volontà, anziché essere costretto da un'ineludibile necessità, e contro la sua volontà, ad ottenebrare la propria luce. Molto meglio infatti sarebbe stato impartire un precetto alla natura umana ignorando che essa avrebbe peccato, piuttosto che, schiacciato dalla necessità, costringere a peccare la propria natura divina. Svegliatevi, e diteci in che modo vince le tenebre uno che viene vinto dalla necessità. Essa stava già presso di lui come il nemico maggiore, e da essa vinto e comandato egli combatté contro il nemico minore. Quanto meglio sarebbe stato ignorare dove Adamo fosse fuggito dalla sua presenza, piuttosto che non sapere egli stesso dove fuggire, prima dalla presenza della dura e terribile necessità, poi dalla presenza di una razza diversa e avversa! Quanto meglio invidiare alla natura umana la felicità, anziché gettare nell'infelicità la natura divina; desiderare il sangue e il grasso dei sacrifici, anziché essere immolato egli stesso agli idoli tante volte, mescolato al sangue e al grasso di ogni vittima; sconvolgersi di gelosia se quei sacrifici venivano offerti anche ad altri dèi, piuttosto che venire offerto egli stesso su tutti gli altari, a tutti i demoni, imprigionato non solo in ogni frutto, ma anche in ogni carne! Quanto meglio sarebbe stato se, spinto dall'umana indignazione e furioso, si fosse adirato con i peccatori, sia suoi che estranei, piuttosto che essere egli stesso turbato non solo in tutti quelli che si adirano ma anche in tutti quelli che temono, insozzato in tutti quelli che peccano, punito in tutti quelli che vengono condannati, a tutti legato per quella sua parte che, innocente, egli stesso condannò a tale obbrobrio, per poter sconfiggere per mezzo di essa ciò che temeva! Egli stesso condannato al giogo di una necessità a tal punto funesta che quella sua parte, da lui condannata, potrebbe perdonarlo se, già essendo un miserabile, fosse almeno umile! Ora, chi può tollerare che voi biasimiate dio che si adira con i peccatori suoi ed estranei, quando il Dio che voi inventate condannerà alla fine nel globo le sue proprie membra, dopo averle costrette, costretto egli stesso, a cadere nelle fauci del peccato? Certo, quando farà questo, come dite voi, lo farà senza ira. Ma mi meraviglio che abbia la sfrontatezza di eseguire questa sorta di vendetta su coloro a cui piuttosto dovrebbe chiedere perdono e dire: "Vi scongiuro, perdonatemi, siete membra mie; come potrei farvi questo, se non fossi costretto dalla necessità? Sapete anche voi che, quando vi inviai là, un nemico tremendo mi aveva attaccato: se ora vi incateno qui, è perché temo che attacchi di nuovo ". Ormai certamente ammetterete anche che è molto meglio far perire di morte temporale migliaia di uomini per una colpa nulla o lieve, piuttosto che gettare nella voragine del peccato e condannare alla pena di un incatenamento perpetuo le proprie membra, cioè le membra di Dio, la sostanza di Dio, e dunque Dio. Se quelle membra avessero il libero arbitrio per peccare o non peccare (sebbene non si vede come ciò possa dirsi della sostanza di Dio, se è davvero sostanza di Dio e pertanto assolutamente immutabile: Dio infatti non può in alcun modo peccare, né negare se stesso 71; l'uomo invece può peccare e negare Dio, ma se non vuole, non lo fa), se dunque in queste membra del vostro dio, come nell'anima umana e razionale, ci fosse - come ho detto - il libero arbitrio della volontà per peccare o non peccare, forse sarebbero punite giustamente, a motivo di gravi crimini, con quel supplizio del globo. Ora, però, non potete affermare che quelle particelle avevano una libera volontà, che dio stesso nella sua totalità non aveva: egli infatti, se non avesse inviato quelle a peccare, sarebbe stato costretto a peccare nella sua totalità, invaso dalla razza delle tenebre. Se invece non potevano essere costrette, egli peccò, quando le inviò là dove potevano essere costrette; e pertanto sarebbe più degno del cuoio del parricida lui, che fece ciò per libera decisione, che non quelle, che per obbedienza andarono lì dove persero il libero arbitrio con cui vivere rettamente. Se invece, egli stesso invaso e posseduto, poteva essere costretto a peccare, a meno di provvedere alla propria salvezza mediante l'ignominia prima e il supplizio poi di una parte di sé, e non ci fu nel vostro dio né nelle sue parti una volontà libera, egli non si atteggi a giudice, ma si riconosca colpevole: non perché ha subìto ciò che non voleva, ma perché finge di rendere giustizia, condannando quelli che sapeva avevano subìto, piuttosto che commesso, il male; cosa che egli simula all'unico scopo di non apparire sconfitto: come se fosse di qualche profitto per uno sventurato essere chiamato felice o fortunato. Sicuramente sarebbe stato meglio se il vostro dio, senza dar prova alcuna di equità, non avesse risparmiato né i giusti né i peccatori (ciò che da ultimo Fausto, senza capire nulla, rimprovera al nostro Dio), piuttosto che infierire così sulle proprie membra: quasi fosse poco averle consegnate ai nemici perché venissero avvelenate, prive della possibilità di espiazione, senza anche accusarle del falso crimine di iniquità. Esse, dice, a ragione scontano un supplizio così terribile e senza fine, poiché tollerarono di " allontanarsi " dalla loro primitiva natura luminosa e divennero nemiche della luce santa. E perché mai, se non perché, come dice egli stesso, erano a tal punto radicate nella iniziale avidità dei prìncipi delle tenebre da essere incapaci di ricordare la propria origine e di separarsi dalla natura nemica? Dunque anime simili non compirono nulla di male, bensì soffrirono da innocenti un male così grande. Per opera di chi, se non in primo luogo di colui che ordinò loro di allontanarsi da lui verso un male così grande? Ebbero dunque di lui un'esperienza peggiore come padre che come nemico. Il padre, infatti, le inviò verso un male così grande; il nemico, invece, desiderò un bene, bramando di godere di esse e non di danneggiarle: l'uno ha nuociuto loro sapendolo, l'altro senza saperlo. Ma un dio come questo, debole e senza risorse, non era in grado di difendersi diversamente, prima contro un nemico temerario, poi contro uno rinchiuso. Quindi, che almeno non le accusi, esse per la cui obbedienza è salvo e per la cui morte è al sicuro! Se fu costretto a combattere, lo fu forse anche a calunniare? Infatti, quando " hanno concesso a se stessi di allontanarsi dalla loro precedente brillantezza naturale e sono divenuti nemici della santa luce ", furono costrette a ciò dal nemico: se non erano in grado di resistergli, subiscono la condanna da innocenti; se invece erano in grado ma non vollero, perché adducete la favola di una natura del male, quando l'origine del peccato è nella volontà propria? Senza dubbio fecero questo per propria responsabilità, non per l'altrui violenza, giacché pur potendo resistere al male non vollero. Se l'avessero fatto, avrebbero fatto bene: se non l'avessero fatto, avrebbero peccato in maniera grave e smisurata; se poterono e non lo fecero, significa che non vollero. Se dunque non vollero, il delitto pertiene alla volontà, non alla necessità. Quindi l'inizio del peccato è nella volontà: ma donde ha inizio il peccato, da lì ha inizio il male, cioè l'agire contro un comandamento giusto oppure il soffrire a motivo di un giusto giudizio. Pertanto non vi è motivo alcuno, quando vi domandate da dove viene il male, di precipitare nel male così grande di un simile errore: chiamare natura del male una natura abbondante di tanti beni e inserire l'orribile male della necessità nella natura del sommo bene prima della sua commistione con la natura del male. E la causa di questo vostro errore è la superbia, che non avreste se non voleste: invece voi, volendo in qualunque modo difendere ciò in cui siete precipitati, sottraete l'origine del peccato all'arbitrio della volontà e collocate la natura del male in una favola vana e falsa. Per ciò stesso, resta solo che diciate che anche quelle anime che devono essere condannate all'incatenamento eterno in quel globo orribile sono divenute nemiche della luce santa non per loro volontà, ma per necessità; e che stabiliate il vostro dio come giudice, tale che presso di lui non potete giovare in nulla a coloro di cui difendete la causa dimostrando che agirono per necessità, e come re, tale che da lui non riuscite neppure a implorare indulgenza per i vostri fratelli, figli e membra suoi, la cui inimicizia verso di voi e verso lui stesso sostenete derivare non dalla volontà ma dalla necessità. O crudeltà smisurata! A meno che non vi convertiate in suoi difensori, al fine di scusare anche lui in quanto agisce per necessità. Se poteste trovare un altro giudice, che libero dal vincolo della necessità si comportasse secondo giustizia, egli certo non inchioderebbe costui all'esterno del globo, ma ve lo chiuderebbe dentro assieme al suo stesso terribile nemico. Perché infatti non dovrebbe giustamente essere il primo a subire la pena della condanna colui che è il primo a commettere un delitto per necessità? Fareste dunque molto meglio a scegliervi un dio in base al paragone con uno peggiore! Un dio non quale noi lo adoriamo, ma quale voi immaginate o pensate che noi lo adoriamo: un dio che senza alcun criterio di giustizia, senza alcuna distinzione tra condanna e correzione non risparmiasse fra i suoi servi né il giusto né il peccatore, piuttosto che non risparmiare le proprie membra, innocenti se la necessità non è un delitto, oppure divenute colpevoli per avergli obbedito se anche la necessità è un delitto, così da essere condannate in eterno da colui insieme al quale dovrebbero o essere congiuntamente assolte, se dopo la vittoria spirasse un po' di libertà, o congiuntamente condannate, se dopo la vittoria il potere della necessità fosse tale che anche la giustizia valesse qualcosa. Invece voi vi inventate un dio, non quello vero e sommo che noi adoriamo, ma non so quale altro falso, che convinti o mentendo dite sia quello adorato da noi; un tale dio tuttavia è certo molto migliore del vostro: tutti e due naturalmente non esistono e sono vostre invenzioni, eppure quello che accusate come fosse il nostro lo immaginate migliore rispetto a quello che adorate come vostro.

Difesa dei Patriarchi e dei Profeti dall'accusa di immoralità.

23. Così anche i patriarchi e i profeti che denigrate non sono quelli che noi onoriamo, ma quelli che - non avendo compreso i nostri libri - avete inventato con malevola vanità: e tuttavia costoro, anche come vi immaginate che fossero, ci vorrebbe poco a dire che sono migliori dei vostri eletti che osservano tutti i comandamenti di Mani, se non anche a dimostrare che sono migliori del vostro stesso dio. Non comincerò a dimostrarlo se non prima di aver difeso dalle vostre accuse i nostri santi padri, patriarchi e profeti, con l'aiuto del Signore contro cuori carnali e con chiara argomentazione. Comunque, Manichei, basterebbe rispondervi così da insegnarvi che anche quelli che reputate vizi dei nostri sono da anteporsi alle lodi dei vostri, aggiungendo per colmare la vostra confusione che anche il vostro dio risulterebbe di gran lunga peggiore del tipo di uomini che, secondo le vostre azzardate affermazioni, sarebbero stati i nostri padri. Come ho detto, basterebbe rispondervi così. Ma poiché alcuni, anche al di là delle vostre chiacchiere, restano spontaneamente turbati paragonando la vita dei profeti nell'Antico Testamento con la vita degli apostoli nel Nuovo e non sono in grado di distinguere gli usi di quel tempo, in cui la promessa era velata, da quelli di questo tempo, in cui la promessa si rivela, mi sento spinto a rispondere in primo luogo a quanti osano mettersi al di sopra dei profeti in nome della propria temperanza o cercano nei profeti una giustificazione alla propria malizia.

Nel Vecchio Testamento non solo le parole, ma anche le azioni sono profezia di Cristo e della Chiesa.

24. Su tale argomento, dico in primo luogo che di quegli uomini fu profetica non solo la lingua, ma anche la vita, e che l'intero regno del popolo ebraico fu in qualche modo un grande profeta, in quanto profetizzò qualcuno di grande. Riguardo dunque a coloro che lì avevano il cuore istruito nella sapienza di Dio, bisogna cercare la profezia di Cristo che stava per venire e della Chiesa non solo in ciò che dicevano, ma anche in ciò che facevano; riguardo invece agli altri e ai componenti di quel popolo presi nell'insieme, essa va cercata nei fatti che per volere di Dio accadevano fra loro o rispetto a loro. Tutte quelle cose, infatti, come dice l'Apostolo, avvennero come figure per noi 72.

Superficialità di giudizio dei Manichei, simile a quella dei pagani su alcune azioni di Gesù.

25. Costoro invece in alcune azioni, dalla cui profondità sono ben lontani, biasimano quasi una certa libidine dei profeti: allo stesso modo di alcuni pagani sacrileghi, che in Cristo deplorano come stoltezza o addirittura come follia il fatto che richiese frutti da un albero in una stagione dell'anno non appropriata, o come sentimento di una fatuità quasi puerile 73 il fatto che, piegato il capo, scriveva nella terra e che dopo aver risposto a chi lo interrogava cominciò a farlo di nuovo 74. Non sanno infatti né comprendono che alcune virtù degli animi adulti sono per qualche aspetto assai simili ai vizi degli animi dei bambini, senza tuttavia che si possa stabilire alcun legittimo paragone. Coloro che criticano codeste cose negli adulti somigliano ai bambini ignoranti i quali, a scuola, avendo imparato come importante che un nome al singolare si deve concordare con un verbo al singolare, criticano l'autore più dotto della lingua latina per aver detto: Pars in frustra secant 75. Avrebbe dovuto dire, sostengono, " secat ". E poiché sanno che si dice: " religio ", lo rimproverano perché ha detto: Relligione patrum 76, con la lettera elle raddoppiata. In base a questo, forse non sarebbe assurdo dire, nei rispettivi ordini, che la distanza che separa le figure retoriche e i metaplasmi dei dotti dai solecismi e dai barbarismi degli ignoranti è grande quanto quella che separa le azioni figurate dei profeti dai peccati di libidine dei malvagi. Per tanto, come un bambino sarebbe percosso con la sferza, se ripreso per un barbarismo volesse difendersi adducendo il metaplasmo di Virgilio, allo stesso modo uno che dopo essersi rotolato con la schiava di sua moglie adducesse come esempio a propria difesa il fatto di Abramo che generò un figlio da Agar, volesse il cielo che si emendasse, corretto non appena con la sferza, ma con i bastoni, per non finire punito col supplizio eterno assieme agli altri adulteri! Naturalmente quelle sono cose minime, mentre queste sono importanti, e la similitudine non aveva certo lo scopo di porre sullo stesso livello una figura retorica e un mistero o il solecismo e l'adulterio. Tuttavia, in proporzione ai diversi generi di cose, ciò che la perizia o l'imperizia valgono per le virtù o i vizi del linguaggio, la saggezza o l'insensatezza lo valgono per le virtù o i vizi del costume, sebbene a un livello di gran lunga diverso.

Perché la Scrittura propone alla nostra attenzione non solo la giustizia, ma anche il peccato dei Padri?

26. Per non lanciarci temerariamente a lodare o biasimare, accusare o difendere, reprimere o tollerare, condannare o assolvere, cercare o evitare qualunque cosa (tutti modi, questi, per trattare dei peccati o delle rette azioni), dobbiamo dapprima considerare cos'è il peccato, e poi esaminare le azioni dei santi scritte nei libri divini al fine di vedere, per quanto ci è possibile con retta ragione, qualora trovassimo peccati anche di costoro, per quale utilità anch'essi siano stati racchiusi nella Scrittura e affidati alla memoria. Se poi troveremo cose che agli stolti o ai malevoli sembrano peccati e invece non lo sono, e tuttavia non vi brilla un qualche esempio di virtù, dobbiamo esaminare per quale motivo anch'esse furono inserite in scritti che salutarmente crediamo furono composti per servirci nella condotta della vita presente e nel raggiungimento della vita futura. D'altra parte, tutte le attestazioni di giustizia che risplendono nelle azioni dei santi, nessuno, neppure tra gli ignoranti, dubita che dovessero essere messe per iscritto. La discussione può nascere dunque su cose che può sembrare siano state scritte inutilmente, dato che né appaiono ben fatte né sono peccati, oppure addirittura scritte in modo pericoloso, se si dimostra che sono peccati: nel timore che suscitino emulazione, sia nel caso che nei libri stessi non siano deplorate e si possa pensare quindi che non si tratti di peccati, sia nel caso che siano deplorate anche lì ma vengano commesse nella speranza di un facile perdono, dal momento che le si è trovate anche presso i santi.

Definizione preliminare del peccato: violazione dell'ordine naturale ed eterno.

27. Il peccato è un'azione, una parola o un desiderio contrario alla legge eterna. La legge eterna è la ragione divina o volontà di Dio che ordina di mantenere l'ordine naturale e proibisce di turbarlo. Bisogna dunque cercare quale sia nell'uomo l'ordine naturale. L'uomo è composto di anima e di corpo, come pure l'animale. Nessuno dubita che nell'ordine naturale l'anima debba essere anteposta al corpo. Però nell'anima dell'uomo è presente la ragione, che nelle bestie non c'è. Pertanto, come l'anima è anteposta al corpo, così nell'anima la ragione è per legge naturale anteposta alle altre sue parti, che anche le bestie possiedono; e nella stessa ragione, che in parte è contemplativa e in parte attiva, senza dubbio la contemplazione sta al primo posto. In essa infatti c'è anche l'immagine di Dio, attraverso la quale, mediante la fede, noi veniamo trasformati per la visione. Dunque la ragione attiva deve obbedire alla ragione contemplativa, sia quando questa opera mediante la fede, come avviene per tutto il tempo in cui siamo pellegrini lontano dal Signore 77, sia quando opera mediante la visione, come avverrà quando saremo simili a lui 78, poiché lo vedremo quale egli è, essendo divenuti per sua grazia uguali ai suoi angeli 79 anche nel nostro corpo spirituale e avendo riacquistato l'originaria veste dell'immortalità e dell'incorruttibilità, con cui sarà rivestito questo nostro corpo mortale e corruttibile, affinché la morte sia ingoiata dalla vittoria 80, una volta che la giustizia sarà stata condotta a perfezione dalla grazia. Poiché anche gli angeli, santi e sublimi, hanno una loro propria contemplazione e azione: essi si impongono di compiere ciò che ordina colui che contemplano, al cui eterno comando servono liberamente, perché ciò li rende lieti. Noi invece, essendo il nostro corpo morto a causa del peccato, prima che Dio vivifichi anche i nostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in noi 81, viviamo nella giustizia, nella misura della nostra debolezza, secondo la legge eterna che custodisce l'ordine naturale, se viviamo di una fede non falsa che opera mediante la carità 82, tenendo riposta nei cieli, in una coscienza buona, la speranza dell'immortalità, dell'incorruttibilità e del compiersi della giustizia stessa sino a quella ineffabile dolcissima pienezza di cui, durante questo pellegrinaggio, bisogna avere fame e sete, fintanto che camminiamo nella fede e non nella visione 83.

Peccare è infrangere l'ordine, cedendo al piacere illecito.

28. L'azione dell'uomo che serve la fede, la quale a sua volta è sottomessa a Dio, tiene a freno tutti i piaceri mortali e li riconduce nella regola della natura, anteponendo i migliori a quelli più bassi mediante un amore ordinato. Se infatti l'illecito non avesse attrattiva, nessuno peccherebbe. Pecca dunque colui che dà spazio, piuttosto che porre un freno, al piacere dell'illecito. L'illecito è ciò che è proibito da quella legge mediante cui si conserva l'ordine naturale. È una questione complessa se esista una qualche creatura razionale che non sia attratta dall'illecito: se essa esiste, a quel genere non appartiene né l'uomo né la creatura angelica che non rimase nella verità; questi esseri razionali, infatti, furono creati di tal genere che esistesse in loro la possibilità di frenare il piacere dell'illecito, non frenando il quale peccarono. Grande è dunque anche la creatura umana, dal momento che essa è dotata per costituzione di quella facoltà per la quale, se avesse voluto, non sarebbe caduta. Grande dunque, e sommamente degno di lode è Dio che la creò 84. Creò anche esseri inferiori, che non possono peccare; ne creò anche di migliori, che non vogliono peccare. Infatti la natura della bestia non pecca, poiché non compie nulla contro la legge eterna, alla quale è così sottomessa che non può parteciparne. Al contrario, la sublime natura angelica non pecca, perché è così partecipe della legge eterna che soltanto Dio la attrae, alla cui volontà essa obbedisce senza sperimentare alcuna tentazione. L'uomo invece, per il cui peccato la vita sulla terra è tutta una tentazione 85, sottometta a se stesso ciò che ha in comune con le bestie, sottometta a Dio ciò che ha in comune con gli angeli, finché, perfezionata la giustizia e raggiunta l'immortalità, non sia innalzato al di sopra degli uni e uguagliato agli altri.

L'uomo, creatura razionale, deve dominare l'attrattiva del piacere e rimanere nell'ordine.

29. I piaceri mortali devono essere eccitati o acquietati fintanto che si debba ricostituire o mantenere la salute mortale, sia essa di ciascun singolo uomo o dello stesso genere umano; se escono dal limite e, contro la misura della temperanza, le passioni si impossessano dell'uomo che non domina se stesso, essi diverranno illeciti e vergognosi e degni di essere corretti tramite le sofferenze. Se poi, dopo aver turbato colui che dovrebbe governarli, lo inabissano nella voragine di una depravazione abituale, al punto che costui, credendo che rimarranno impuniti, rifiuta la medicina della confessione e della penitenza, per mezzo della quale, una volta corretto, potrebbe riemergere; o se, con una morte del cuore ancora peggiore, bestemmiando contro la legge eterna della provvidenza, costui cerca per essi una giustificazione e arriva in tali condizioni all'ultimo giorno, quella legge irreprensibile lo giudicherà degno non di correzione, ma di dannazione.

Difesa delle azioni di Abramo. Si unì alla concubina non per libidine, ma nel desiderio lecito di un figlio.

30. Dopo aver consultato la legge eterna che comanda di conservare l'ordine naturale e vieta di perturbarlo, vediamo in che cosa il padre Abramo peccò, cioè che cosa fece contro questa legge nelle azioni che Fausto gli obietta come grandi crimini. " Bruciando di un desiderio insano di avere discendenza e non credendo affatto a Dio che già gliela aveva promessa da Sara sua moglie, si rotolò con una concubina ". Ma codesto Fausto, accecato dall'insano desiderio di recriminare, ha palesato l'empietà della sua eresia e, senza esserne consapevole e sbagliando, ha lodato l'unione di Abramo. Infatti la legge eterna, ovvero la volontà di Dio creatore di tutte le creature che comanda di rispettare l'ordine naturale, permette che nell'atto coniugale regolato dalla ragione venga soddisfatto il piacere della carne al solo fine della propagazione della prole, in modo che non ci si asservisca a saziare la passione ma si provveda alla conservazione della specie; al contrario, la legge perversa dei Manichei ordina a chi si unisce di evitare innanzitutto la procreazione, affinché il loro dio, che essi piangono come incatenato in tutti i semi, non sia ancor più strettamente imprigionato in una donna che concepisce: cosicché il loro dio si sparge in vergognosa effusione, piuttosto che restare avvinto in un laccio crudele. Il fatto non è dunque che Abramo bruciava dal desiderio insano di avere figli, ma che Mani delirava per l'insana follia di evitarli. Così quello, rispettando l'ordine della natura, con la sua unione carnale nulla faceva se non far nascere un uomo; questo invece, andando dietro alla perversità della sua favola, nulla temeva in qualunque unione carnale se non che dio diventasse prigioniero.

Sara non fu complice di Abramo nel male, ma agì con il marito secondo il diritto.

31. Quando poi Fausto, nell'azione di Abramo, rimprovera la complicità da parte della moglie, anche in tal caso si pone con animo malvagio e con l'intenzione di vituperarlo: tuttavia, senza saperlo né volerlo, li loda ambedue. Infatti essa non si rese complice di un atto vergognoso del marito, affinché questi saziasse le sue brame con un piacere turpe e illecito, ma piuttosto, desiderando anch'essa dei figli in conformità all'ordine della natura e sapendosi sterile, in virtù del suo diritto rivendicò con legittima potestà la fecondità del grembo della sua schiava 86, non cedendo alle brame di suo marito bensì comandandogli di obbedirle. Né ciò fu una superbia contraria all'ordine. Chi infatti non sa che la moglie deve obbedire al marito come al suo signore? Ma per quanto attiene alle membra del corpo per le quali il sesso si differenzia, l'Apostolo dice: Allo stesso modo neanche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie 87; cosicché mentre in tutte le altre azioni miranti alla pace tra gli esseri umani la donna deve obbedire al marito, in questo solo ambito, che riguarda la differenza dei sessi nella carne e il loro congiungersi nell'unione carnale, il marito e la moglie hanno analoga e reciproca potestà. Dunque il figlio che Sara non aveva potuto avere da sé, volle averlo dalla schiava: tuttavia da quel seme da cui, se avesse potuto, avrebbe dovuto averlo lei stessa. Una moglie non avrebbe mai agito così, se fosse stata posseduta da concupiscenza carnale per il corpo del marito: si sarebbe piuttosto ingelosita della concubina, anziché farne una madre. Pertanto il desiderio di avere una prole fu pio, dal momento che il desiderio dell'unione carnale non fu libidinoso.

Abramo non mancò di fiducia verso Dio: infatti non sapeva ancora che la promessa di un figlio riguardava Sara.

32. Il fatto non avrebbe difesa se Abramo, come obietta Fausto, non fidandosi per nulla di Dio che già gli aveva promesso un figlio da Sara, avesse voluto averlo da Agar. Ma ciò è apertamente falso: Dio non gli aveva ancora fatto questa promessa. Chi vuole, riprenda in esame ciò che la Scrittura dice in precedenza: troverà che alla stirpe di Abramo era già stata promessa una terra e una discendenza innumerevole 88, ma che ancora non era stato chiarito in che modo sarebbe avvenuta la propagazione di quella stirpe: se dalla carne di Abramo, qualora egli avesse generato da sé, o dalla sua volontà, qualora avesse adottato qualcuno; se dalla sua carne, non era ancora stato manifestato se da Sara o da un'altra donna. Chi vuole, dicevo, legga, e troverà che Fausto o si inganna per imprudenza o inganna per impudenza. Abramo, vedendo che non gli nascevano figli e tuttavia fidando nella promessa fatta alla sua stirpe, in un primo tempo pensava all'adozione. Lo indica il fatto che, parlando con Dio, dice di un suo domestico: Costui sarà il mio erede, come se dicesse: " Poiché non mi hai dato discendenza da me stesso, compi in costui ciò che hai promesso alla mia discendenza ". Se infatti non si potesse chiamare discendenza di qualcuno null'altro che quel che nasce dalla sua carne, neppure l'Apostolo chiamerebbe noi discendenza di Abramo 89: noi che certo non deriviamo da lui secondo la carne, ma siamo divenuti sua discendenza imitando la sua fede e credendo in Cristo, la cui carne è discesa dalla sua. Allora Abramo udì che il Signore gli diceva: Non costui sarà il tuo erede, ma uno che uscirà dalle tue viscere: egli sarà il tuo erede 90. Da quel momento, eliminato il pensiero dell'adozione, Abramo sperava ormai in una discendenza da se stesso, ma rimaneva incerto se l'avrebbe ottenuta da Sara o da un'altra: Dio volle che ciò gli rimanesse nascosto, finché quella schiava fosse divenuta figura del Vecchio Testamento. Cosa c'è allora di strano se Abramo, vedendo che sua moglie sterile desiderava che i figli, che lei stessa non poteva partorire, le venissero dalla sua serva e da suo marito, non cedette al proprio desiderio carnale ma obbedì alla potestà della moglie, credendo che Sara volesse questo per indicazione di Dio, il quale gli aveva già promesso una discendenza sua propria, ma non gli aveva rivelato da quale donna? Invano dunque Fausto si è lanciato come un pazzo a rinfacciare questa colpa, accusando Abramo di non avere fede, mentre è lui a non averne. Le altre cose infatti non è riuscito a comprenderle per il suo accecamento nel non credere: ma questa, per la brama di calunniare, ha tralasciato perfino di leggerla.

Abramo non mercanteggiò Sara, bensì la mise al sicuro.

33. Fausto inoltre chiama quest'uomo giusto e fedele " turpissimo trafficante del suo matrimonio ": a motivo dell'avarizia e del ventre, in momenti diversi Abramo avrebbe venduto come concubina a due re, Abimelech e Faraone, la moglie Sara, poiché era bellissima, fingendo che fosse sua sorella. Non è certo questa una bocca veritiera che distingue l'onestà dall'infamia, ma piuttosto una bocca maldicente che tutto converte in delitto! Il comportamento di Abramo, infatti, appare simile a quello di un mezzano, ma soltanto a quelli che non sono in grado, alla luce della legge eterna, di distinguere il bene dal peccato: agli occhi di costoro, la costanza può sembrare ostinazione, la virtù della fiducia è scambiata per il vizio della sfrontatezza, e analogamente qualsiasi azione, da parte di chi non vede rettamente, può essere rinfacciata come non retta a chi la compie. Abramo infatti non fu né complice di un crimine di sua moglie, né fece mercato dell'adulterio di lei. Essa non consegnò la sua schiava alla libidine del marito, ma gliela condusse per il solo scopo della generazione, senza turbare in nulla l'ordine naturale, come era in sua potestà, dando piuttosto un ordine a lui che le obbediva anziché accondiscendere alla di lui concupiscenza. In modo analogo egli tacque che si trattava di sua moglie, coniuge casta e a lui unita con casto cuore, del cui animo, dimora della virtù della pudicizia, in nessun modo dubitava, e disse che era sua sorella, per non venire ucciso ed essa non cadesse quindi prigioniera in mani straniere e empie: sicuro che il suo Dio non avrebbe permesso che essa patisse alcunché di vergognoso e disonorevole. La sua fede e la sua speranza non lo tradirono: Faraone infatti, atterrito da prodigi e afflitto da molti mali a causa di lei, quando venne a sapere da Dio che era sua moglie gliela restituì intatta nell'onore; lo stesso fece Abimelech ammonito e istruito da un sogno 91.

Non rinnegò Sara come moglie.

34. Tuttavia ad alcuni - che non sono calunniatori e maldicenti come Fausto ma tributano il dovuto onore ai medesimi libri che costui invece o biasima senza comprenderli oppure non comprende nel biasimarli - nel considerare questa azione di Abramo sembrò che egli fosse venuto meno alla fermezza della fede, che avesse titubato e che avesse rinnegato sua moglie per paura della morte, come Pietro fece con il Signore 92. Se si dovesse necessariamente dare tale interpretazione, riconoscerei il peccato di quell'uomo; né per questo riterrei cancellati e annullati tutti i suoi meriti, come neppure quelli dell'apostolo, sebbene rinnegare una moglie non sia una colpa pari a rinnegare il Salvatore. Ma possedendo io un'interpretazione che non mi obbliga ad interpretare così, non sono costretto per nessun motivo a cadere nella temerarietà di accusare uno che nessuno mi dimostra essere caduto nella menzogna per paura. Infatti non gli fu chiesto se fosse sua moglie, e dunque neppure rispose che non lo era; quando gli fu domandato chi fosse quella donna, affermò che era sua sorella, ma non negò che fosse sua moglie: tacque una parte della verità, ma non disse nulla di falso.

Non mentì chiamando Sara "sorella": il termine significa infatti "consanguinea".

35. Siamo forse pazzi a tal punto da seguire qui Fausto, che afferma che Abramo mentì chiamandola sorella, quasi avesse appreso altrove la genealogia di Sara, giacché la sacra Scrittura non è esplicita in proposito? Ritengo giusto che su tale questione, che Abramo conosceva mentre noi la ignoriamo, si dia credito al patriarca che dice ciò che sa piuttosto che a un Manicheo che recrimina ciò che non sa. Abramo viveva in un'epoca in cui, secondo le usanze umane, non era lecito unirsi in matrimonio tra fratelli nati dagli stessi genitori o dallo stesso padre o dalla stessa madre, mentre era consuetudine, senza che alcuna legge o alcun potere lo vietasse, sposarsi tra figli di fratelli o tra consanguinei di grado più lontano: che c'è dunque di strano se egli aveva per moglie sua sorella, cioè una nata dal sangue di suo padre? Infatti al re che gliela restituiva disse egli stesso che era sua sorella da parte di padre e non da parte di madre: quando cioè ormai nessuna paura lo costringeva a fingere che fosse sua sorella, dato che il re aveva saputo che era sua moglie e, atterrito da Dio, gliela restituiva onorata. Ebbene, la Scrittura attesta che presso gli antichi, col nome di fratelli o sorelle, si soleva definire in generale i consanguinei o le consanguinee. Infatti Tobia, pregando prima di unirsi a sua moglie dice a Dio: Ed ora, Signore, tu sai che non per lussuria prendo questa mia sorella 93, sebbene essa non fosse nata né dallo stesso padre né dalla stessa madre di lui, bensì dalla stessa parentela 94; e Lot è definito fratello di Abramo 95, sebbene Abramo 96 fosse suo zio paterno; per la medesima consuetudine, nel Vangelo sono chiamati fratelli del Signore non certo quelli partoriti dalla vergine Maria, ma tutti i parenti per consanguineità 97.

Abramo non mancò di fiducia, bensì non volle tentare il Signore.

36. Qualcuno dirà: " Perché Abramo non ha confidato nel suo Dio al punto da non temere di confessare che era sua moglie? Dio infatti era in grado di allontanare da lui la morte che egli temeva e anche di custodirlo da ogni pericolo assieme a sua moglie durante quel viaggio, in modo che né sua moglie, sebbene bellissima, fosse insidiata da alcuno, né egli venisse ucciso a causa di lei ". Certamente Dio avrebbe potuto fare questo: chi sarebbe tanto insensato da negarlo? Ma se Abramo, interrogato, avesse risposto che quella donna era sua moglie, avrebbe affidato alla tutela di Dio due cose: la propria vita e il pudore della consorte. Ma la sana dottrina insegna che l'uomo, quando può agire, non deve tentare il Signore suo Dio 98. Non c'è dubbio che anche lo stesso Salvatore poteva difendere i suoi discepoli, eppure disse loro: Se sarete perseguitati in una città, fuggite in un'altra 99. E di ciò dette per primo l'esempio. Infatti, pur avendo il potere di dare la sua vita e di darla soltanto qualora lo volesse 100, tuttavia da bambino fuggì in Egitto in braccio ai genitori 101. Per il giorno della festa non salì apertamente, ma segretamente, nonostante altre volte avesse parlato in pubblico ai Giudei che, adirati, lo ascoltavano con animo del tutto ostile e tuttavia non riuscivano a mettere le mani su di lui poiché non era ancora giunta la sua ora 102: non nel senso che fosse costretto a morire essendo quell'ora ineluttabile, ma nel senso che reputava quell'ora opportuna per essere ucciso. Quindi, insegnando e rimproverando apertamente e senza tuttavia permettere che la rabbia dei nemici potesse qualcosa contro di lui, mostrava la potenza di Dio; parimenti, fuggendo e nascondendosi educava la debolezza dell'uomo, perché non osi tentare Dio quando egli stesso è in grado di agire per evitare ciò da cui deve guardarsi. Certo neppure l'apostolo Paolo disperava dell'aiuto e della divina protezione e aveva perduto la fede, quando fu calato lungo il muro in una cesta per sfuggire alle mani dei nemici 103. Fuggì così non perché non confidava in Dio, ma perché sarebbe stato tentare Dio non voler fuggire così avendone la possibilità. Pertanto, dal momento che, in mezzo a sconosciuti, a causa della estrema bellezza di Sara era in pericolo sia la purezza di lei sia la vita del marito, e Abramo non era in grado di difendere ambedue le cose, ma soltanto una, cioè la propria vita, per non tentare il suo Dio egli fece ciò che poté, e ciò che non poté lo affidò a Dio. Non riuscendo a nascondere di essere uomo, nascose di essere marito, per non venire ucciso; sua moglie la affidò a Dio, perché non fosse disonorata.

La purezza di Sara non fu violata.

37. Si potrebbe certo discutere con più rigore se la purezza di quella donna sarebbe stata violata anche nel caso che uno avesse avuto con lei rapporti carnali. Essa infatti avrebbe potuto permetterlo per salvare la vita del marito, che non avrebbe ignorato la cosa ma anzi gliel'avrebbe potuta comandare, senza per questo tradire affatto la fedeltà coniugale né ricusare la potestà maritale: così come egli non fu adultero quando, obbedendo alla potestà della moglie, acconsentì a generare un figlio da una schiava. Tuttavia, in forza dei princìpi, poiché il caso di una donna che si sottomette a due uomini vivi per giacere con essi non è come quello di due donne che fanno ciò con un solo uomo, accettiamo come molto più veritiero e onesto che il padre Abramo non tentò Dio quando, da uomo, decise ciò che poté circa la propria vita e sperò in Dio, al quale affidò la purezza della moglie.

Sara è figura della Chiesa, sposa di Cristo.

38. Ma in questo fatto reale, consegnato ai libri divini e fedelmente narrato, chi non amerà considerare attentamente anche l'evento profetico e bussare con desiderio e fede pietosa alla porta del mistero, affinché il Signore gli apra e gli mostri di chi era figura quell'uomo e di chi è moglie colei che in questo viaggio e in mezzo a stranieri non si permette che venga contaminata e macchiata, perché appartenga senza macchia né ruga a suo marito? Certamente è per la gloria di Cristo che la Chiesa vive rettamente, affinché la sua bellezza vada ad onore del marito, come Abramo veniva onorato tra gli stranieri a causa della bellezza di Sara; e ad essa, alla quale nel Cantico dei cantici si dice: O bella tra le donne! 104, per merito della sua bellezza i re offrono doni, come il re Abimelech ne offrì a Sara, ammirando in lei soprattutto il decoro della sua bellezza, che poté amare ma non poté violare. Anche la santa Chiesa, infatti, è sposa del Signore Gesù Cristo in modo nascosto. Allo stesso modo, è nascostamente e nel profondo di uno spirituale segreto che l'anima umana aderisce al Verbo di Dio, perché siano due in una sola carne: è il mistero grande del matrimonio che l'Apostolo esalta in Cristo e nella Chiesa 105. Pertanto, il regno terreno di questo mondo, del quale erano figura i re cui non fu permesso di contaminare Sara, non sperimentò né scoprì la Chiesa quale sposa di Cristo, ovvero quanto essa fosse unita e sottomessa a lui come al suo unico marito, se non quando tentò di violarla e si arrese, per la fede dei Martiri, alla divina testimonianza, e una volta emendatosi onorò nei re successivi colei che presso i precedenti non era riuscito a sottomettere alla propria violenza. Infatti, ciò che allora fu figurato prima e dopo nello stesso re, si compì in questo regno con i re precedenti e successivi.

La Chiesa è sorella di Cristo per parentela celeste e non terrena.

39. Ma quando si dice che la Chiesa è sorella di Cristo per parte di padre e non di madre, si fa riferimento non alla parentela derivante dalla nascita terrena, che passerà, ma a quella che deriva dalla grazia celeste, che rimarrà in eterno. Secondo tale grazia, noi non saremo più una razza mortale, avendo ricevuto il potere di essere chiamati figli di Dio e di esserlo realmente 106. Questa grazia infatti non l'abbiamo ricevuta dalla Sinagoga, madre di Cristo secondo la carne, ma da Dio Padre. Quanto poi alla parentela terrena, che genera temporalmente per la morte, Cristo ci ha insegnato a rinnegarla e a disconoscerla, chiamandoci ad un'altra vita in cui nessuno muore, quando dice ai discepoli: Non chiamate nessuno " padre " sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che sta nei cieli 107. Di ciò offrì un esempio quando disse egli stesso: Chi è mia madre e chi sono miei fratelli? E stendendo la mano verso i suoi discepoli disse: Ecco i miei fratelli. E affinché nessuno lo ritenesse alludere con questo termine alla parentela terrena, aggiunse: E chiunque fa la volontà del Padre mio, questi è per me fratello, sorella e madre 108, come se dicesse: " Mi riferisco alla parentela paterna che viene da Dio, non a quella materna che viene dalla Sinagoga. Dunque ora vi chiamo alla vita eterna, nella quale sono nato per l'immortalità, e non alla vita temporale, nella quale mi sono fatto mortale per chiamarvi ".

La Chiesa: sposa nascosta e sorella manifesta.

40. Il motivo per cui agli stranieri resta nascosto di chi la Chiesa è la sposa, mentre non si tace di chi è la sorella, è facilmente comprensibile: perché è nascosto e difficile da capire in che modo l'anima umana si unisca, o si mescoli, o cosa di meglio e di più adeguato si possa dire, al Verbo di Dio, essendo egli Dio ed essa una creatura. È in questo senso infatti che Cristo e la Chiesa sono definiti sposo e sposa, marito e moglie. È invece più semplice a dirsi e più comprensibile a udirsi per quale parentela Cristo e tutti i santi siano fratelli in virtù della grazia divina e non della consanguineità terrena: cioè per parte di padre e non per parte di madre. Infatti per la medesima grazia anche tutti i santi sono tra loro fratelli; ma nessuno è sposo dell'insieme di tutti gli altri. Per questo, benché Cristo fosse eccezionale per giustizia e saggezza, tuttavia gli stranieri credettero con più propensione e facilità che egli fosse un uomo. Non certo a torto, poiché era un uomo: però non riconobbero che era anche Dio. Dal che anche Geremia dice: È un uomo, e chi lo riconosce? 109 È un uomo, perché viene rivelato che è un fratello; E chi lo riconosce?, perché resta nascosto che è lo sposo. Con ciò abbiamo detto abbastanza sul padre Abramo, contro le affermazioni sommamente impudenti, maldestre e calunniose di Fausto.

Cosa prefiguravano Loth, sua moglie e le sue figlie.

41. Suo fratello Lot, giusto e ospitale a Sodoma, puro e intatto da ogni contaminazione dei Sodomiti, meritò di sfuggire incolume a quell'incendio che era figura del giudizio futuro, rappresentando in figura il corpo di Cristo, che in tutti i santi geme anche ora in mezzo agli iniqui e agli empi, le cui azioni non approva e dalla cui commistione sarà liberato alla fine dei tempi, quando essi saranno condannati al supplizio del fuoco eterno. Parimenti, nella moglie di lui è raffigurato un altro tipo di uomini, quelli cioè che, chiamati dalla grazia di Dio, si voltano a guardare indietro, a differenza di Paolo che dimentica ciò che ha alle spalle e si protende verso ciò che gli sta davanti 110. E il Signore stesso dice: Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno dei cieli 111. E non tacque quell'esempio, quasi a volerci condire col suo sale, affinché non cadiamo in questo male per leggerezza, ma lo evitiamo con prudenza. È per nostro ammonimento, infatti, che ella fu mutata in una statua di sale. Infatti, nel comandare che ciascuno, fissando con sguardo irremovibile ciò che ha davanti, si strappi da ciò che gli sta alle spalle, disse: Ricordatevi della moglie di Lot 112. Nello stesso Lot, quando le figlie giacquero con lui, fu prefigurato qualcosa di diverso rispetto a quando fu liberato da Sodoma. Infatti ora egli sembra aver rappresentato la figura della legge futura: infatti alcuni, nati da essa e ad essa sottomessi, mal comprendendola in qualche modo la ubriacano e usando di essa non legittimamente partoriscono opere di infedeltà. Infatti La legge è buona, dice l'Apostolo, se uno ne usa legalmente 113.

Il comportamento di Loth e delle figlie è riprovevole, tuttavia profetico.

42. Tuttavia non giustifichiamo certo né l'azione di Lot né quella delle sue figlie, per il fatto che ebbero un significato che preannunziava la futura perversità di alcuni. Una era infatti l'intenzione di quelle nel compiere l'azione, un'altra l'intenzione di Dio, che la permise per dimostrare qualcosa anche da lì: mantenendo il suo retto giudizio sul peccato degli uomini di allora, e vigilando con la sua provvidenza per prefigurare quelli che sarebbero venuti. Dunque quell'azione, in quanto narrata nella sacra Scrittura, è una profezia; quando invece la si considera nella vita di chi la commise, è una vergogna.

Le figlie peccarono non per passione incestuosa, ma per desiderio di una discendenza.

43. Né del resto questa azione è degna di un biasimo e di un'accusa tali quali li vomita Fausto, nemico e cieco. Infatti, se si consulta quella legge eterna che ordina di mantenere l'ordine naturale e proibisce di turbarlo, in merito a quest'azione essa non giudica come se Lot avesse bruciato di libidine proibita verso le figlie al punto da godere incestuosamente del loro corpo o da prenderle come mogli, né circa quelle donne come se avessero arso di passione abominevole per la carne del proprio padre. Il criterio della giustizia non guarda soltanto al fatto che è stato compiuto, ma anche al motivo per cui esso è stato compiuto, per esaminare con la bilancia dell'equità il peso dei fatti a partire dalle loro cause. Ora quelle, poiché aspiravano a una discendenza per conservare la stirpe (desiderio in esse del tutto umano e naturale), e credevano di non poter trovare nessun altro uomo, come se in quell'incendio fosse andato bruciato il mondo intero (infatti non avevano potuto rendersi conto sino a che punto il fuoco avesse infierito), vollero giacere con il padre. Certamente, non avrebbero mai dovuto essere madri, piuttosto che usare così di loro padre. Tuttavia, c'è una grande differenza tra l'averne usato per quel motivo e il volerne usare per la brama di un tanto funesto piacere.

Loth non può essere incolpato di incesto: forse di ubriachezza.

44. Tuttavia esse sentivano che il padre aborriva così tanto quell'azione che ritennero di non poterla condurre a termine se non rendendolo inconsapevole. Infatti, come sta scritto, lo ubriacarono e si unirono a lui mentre era incosciente 114. Quindi Lot dev'essere certo ritenuto colpevole, ma non tanto di incesto, quanto piuttosto di ubriachezza. Anche l'ubriachezza, infatti, è condannata della legge eterna, che secondo l'ordine naturale ammette cibo e bevanda soltanto allo scopo del mantenimento della salute. Sebbene ci sia grande differenza tra un ubriacone e un ubriaco (infatti l'ubriacone non è sempre ubriaco, e chi qualche volta è ubriaco non è di conseguenza un ubriacone), tuttavia nel caso di un uomo giusto bisogna indagare la causa, se non dell'ubriachezza, certo però dell'ubriacatura. Cosa dunque lo costringeva ad acconsentire o a fidarsi delle figlie, che ripetutamente gli versavano vino mescolato o forse glielo offrivano ripetutamente senza neppure mescolarlo? In tal modo voleva forse consolare le figlie, la cui grande tristezza era invece una finzione, così da scacciare dalla loro mente ebbra il dolore per quell'abbandono e per la morte della madre, pensando che bevessero altrettanto anch'esse, che invece ricorrevano a qualche inganno per non bere? Però non vediamo come potesse essere decoroso per un uomo giusto offrire alle proprie figlie afflitte una simile consolazione. O forse per mezzo di qualche pessimo espediente dei Sodomiti esse riuscirono a ubriacare il padre anche con pochi bicchieri, così da poter commettere quel peccato con lui, anzi piuttosto su di lui, che non ne era consapevole? Ma è strano che la Divina Scrittura abbia taciuto su una cosa simile, o che Dio abbia permesso che il suo servo, senza mancanza alcuna della volontà, avesse a subirlo.

Nelle Scritture i peccati sono narrati, non elogiati.

45. Certo noi difendiamo le sacre Scritture, non i peccati degli uomini; però non pretendiamo di giustificare questo fatto, quasi che il Signore nostro Dio avesse ordinato che accadesse, o una volta accaduto l'avesse approvato, oppure che in quei libri gli uomini siano chiamati giusti nel senso che, se anche volevano peccare, non potevano. Poiché dunque, nelle Scritture che costoro criticano, Dio non ha reso alcuna testimonianza alla rettitudine di questa azione, con quale folle temerarietà essi tentano, partendo di qui, di accusare le Scritture, quando in altri passi codeste azioni si trovano proibite con assoluta chiarezza dai precetti divini? Pertanto, negli avvenimenti relativi al comportamento delle figlie di Lot, queste azioni sono narrate, e non elogiate. Era opportuno che alcune cose venissero narrate esprimendo il giudizio di Dio, altre invece tacendolo: in modo che, quando si manifesta ciò che Dio giudica al riguardo, venga istruita la nostra ignoranza, e quando invece lo si tace, si eserciti la nostra capacità, affinché ricordiamo quel che abbiamo appreso in un altro punto, o sia scossa la nostra pigrizia, affinché cerchiamo quel che ancora non conosciamo. Dunque Dio, che sa trarre il bene anche dalle azioni malvagie degli uomini, propagò da quel seme le genti che volle e non condannò certo le sue Scritture a motivo dei peccati degli uomini. Egli ci ha manifestato tali azioni, non le ha compiute; ci ha ammonito a guardarci da esse, non ce le ha proposte perché le imitiamo.

Scherzando con Rebecca Isacco non peccò, poiché era sua moglie.

46. Con impudenza sorprendente Fausto incrimina anche Isacco, figlio di Abramo, per aver finto che Rebecca, che era sua moglie, fosse sua sorella 115. L'origine di Rebecca non è stata taciuta, ed è chiaro che era sua sorella per una parentela assai ben nota 116. Quanto al tacere che fosse sua moglie, che c'è di strano o di inconveniente se egli imitò il padre, avendo per difesa la stessa giustizia nella quale fu trovato suo padre, accusato dello stesso fatto? Le cose che a questo proposito abbiamo detto a favore di Abramo contro le accuse di Fausto, valgono anche per suo figlio Isacco 117. Non è difficile riproporle; a meno che qualche studioso non domandi quale mistero di prefigurazione si debba cogliere nel fatto che il re straniero si accorse che Rebecca era la moglie di suo marito quando vide questi scherzare con lei: non se ne sarebbe accorto, se egli non avesse scherzato con lei in un modo che sarebbe stato indecoroso se essa non fosse stata sua moglie. Quando i mariti santi fanno questo, non lo fanno invano, ma per prudenza. Si adattano in qualche modo alla debolezza del sesso femminile, così da dire o fare qualcosa con ilare dolcezza, non snervando bensì temperando il vigore virile: cose che sarebbe vergognoso dire o fare a una donna che non è la propria moglie. Ho voluto notare questo, che rientra nell'usuale comportamento degli uomini, perché nessuno, duro e senza sensibilità, rinfacci come crimine a quell'uomo santo di aver scherzato con la moglie. Questi uomini disumani, infatti, se vedono un uomo serio cinguettare qualcosa di giocoso a dei bambini per giunta piccoli, allo scopo di blandire la loro sensibilità di lattanti con un nutrimento semplice e gradevole, lo rimproverano come se delirasse, dimentichi di come sono cresciuti o ingrati di esserlo. Ora, che cosa significhi, in riferimento al mistero di Cristo e della Chiesa, il fatto che un così grande patriarca abbia scherzato con sua moglie e che di lì si riconobbe che erano sposati, lo vede bene colui che, per non peccare per errore contro la Chiesa, scruta con attenzione nelle sacre Scritture il mistero del suo sposo e trova che questi ha nascosto per un po' la propria maestà, per la quale nella forma di Dio è uguale al Padre, sotto la forma di servo 118, affinché l'umana debolezza potesse sostenerla ed egli in tal modo adattarsi convenientemente alla sposa. Che c'è dunque di assurdo, o di incongruente con l'annunzio dei fatti futuri, se un profeta di Dio ha compiuto qualche gioco amoroso per ottenere l'affetto di sua moglie, quando il Verbo stesso di Dio si è fatto carne per abitare in mezzo a noi 119?

Nell'avere quattro mogli, Giacobbe non violò né natura, né costumi, né leggi.

47. Il fatto che a Giacobbe, figlio di Isacco, vengano imputate come crimine enorme le sue quattro mogli 120, si confuta con un argomento di ordine generale. Infatti, quando questa usanza esisteva, non era un crimine; ora invece è un crimine, poiché non è più un'usanza. Orbene, fra i peccati ci sono quelli contro la natura, quelli contro i costumi, quelli contro i comandamenti. Se le cose stanno così, che tipo di crimine è mai quello di avere avuto contemporaneamente quattro mogli, imputato a Giacobbe, uomo santo? Se consulti la natura, egli non usava di quelle mogli per lascivia, ma per procreare; se consulti il costume, era quella la prassi a quel tempo e in quei paesi; se consulti i comandamenti, non c'era legge alcuna che vietasse ciò. E oggi, perché mai agire così costituisce un crimine, se non perché non è lecito secondo le leggi e i costumi? Chiunque violi questi due, sebbene possa usare di molte donne solamente per generare, pecca comunque e offende la stessa società umana alla quale è necessaria la procreazione di figli. Ma poiché ormai gli uomini, sotto altre leggi e altri costumi, prendono piacere da donne in quantità soltanto per la smisuratezza della loro libidine, costoro si confondono e pensano che mai si siano potute possedere molte donne se non per la fiamma della concupiscenza carnale e di un piacere vergognoso. Infatti, paragonandosi non con altri, la cui forza d'animo non sono affatto in grado di capire, bensì, come dice l'Apostolo, tra di loro stessi, non comprendono 121. Pur avendo un'unica moglie, non le si accostano soltanto guidati virilmente dal dovere di procreare, ma si lasciano spesso trascinare mollemente, vinti dallo stimolo della copula: così, credono di essere nel vero quando immaginano che altri, nell'usare di molte mogli, siano dominati da un morbo analogo e ben più grande, poiché vedono di non essere essi stessi capaci di osservare la continenza con una sola.

Temperanza dei Patriarchi, falsa pudicizia dei Manichei.

48. Noi però non dobbiamo affidare il giudizio in merito ai costumi degli uomini santi a coloro che non possiedono tale virtù, così come non lasciamo giudicare ai febbricitanti della bontà e della salubrità dei cibi, ma prepariamo loro gli alimenti in base al gusto dei sani e alla prescrizione medica, piuttosto che in base alla tendenza della malattia. Pertanto, se costoro vogliono acquistare la sanità della purezza (non la purezza falsa e simulata ma quella autentica e solida), diano credito alla divina Scrittura come a un trattato di medicina: un così grande onore di santità non è stato tributato invano ad uomini che pure avevano più mogli, se non perché può accadere che l'animo, dominatore della carne, si imponga con una temperanza così forte da non permettere che il movimento del piacere sessuale, insito nella natura dei mortali, ecceda le leggi ad esso assegnate in vista della generazione. Altrimenti costoro, calunniatori maldicenti piuttosto che giudici veritieri, possono accusare anche i santi apostoli di aver predicato il Vangelo a tanti popoli non per desiderio amoroso di generare figli alla vita eterna, ma per brama della lode umana; a quei padri evangelici, infatti, non mancava la fama della notorietà presso tutte le chiese di Cristo, procurata dalla lode di tante lingue; anzi, essa era così grande che degli uomini non potrebbero ricevere da altri uomini un onore e una gloria maggiori. È questa gloria nella Chiesa che lo scellerato Simone bramava con volontà perversa quando, accecato, volle comprare da loro ciò che essi avevano meritato dalla grazia divina, essa stessa gratuita 122. Di questa gloria si capisce che, nel Vangelo, era avido quel tale che volendo seguire il Signore fu da lui respinto così: Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il suo capo 123. Vedeva infatti che in lui, ottenebrato dalla frode della simulazione e gonfio di boriosa vanità, non c'era lo spazio della fede ove poter ospitare e far posare il capo al dottore dell'umiltà, poiché offrendosi come discepolo di Cristo non cercava la grazia sua, ma la gloria propria. Da questo desiderio di gloria erano stati corrotti quelli che l'apostolo Paolo rimprovera perché annunziavano Cristo senza rettitudine, per invidia e spirito di contesa. Anche di tali predicatori, tuttavia, l'Apostolo gioisce 124, sapendo che poteva accadere che, mentre quelli andavano dietro al piacere della gloria umana, dall'ascoltarli nascessero ugualmente dei fedeli: generati non dalla loro gelosa ambizione, con la quale volevano equipararsi o anteporsi alla gloria degli apostoli, ma dal Vangelo, che essi comunque annunziavano sebbene privi di rettitudine, cosicché Dio operava un bene a partire dal loro male. Allo stesso modo può accadere che un uomo non si appresti all'atto sessuale per desiderio di generare, ma vi sia trascinato da passione lussuriosa, e tuttavia nasca un uomo, opera buona di Dio, tratta dalla fecondità del seme e non dalla vergogna del vizio. Come dunque i santi apostoli si rallegravano dell'ammirazione degli ascoltatori verso la loro dottrina non per la brama di ottenere la lode ma per l'amoroso desiderio di seminare la verità, allo stesso modo i santi patriarchi giacevano con le loro mogli, che ne accoglievano il seme non per l'avidità di godere del piacere ma in previsione di procurarsi una discendenza. Per conseguenza, né la moltitudine dei popoli rendeva quelli ambiziosi, né la moltitudine di mogli rendeva questi lussuriosi. Ma che potrei dire io di uomini ai quali la voce divina rende la più splendida testimonianza, se è chiaro a sufficienza che le loro mogli null'altro desideravano nell'unione carnale se non i figli? Infatti, quando videro che non potevano assolutamente partorire, dettero al marito le proprie schiave, per rendere quelle madri nella carne e divenirlo esse stesse nella volontà.

L'accordo tra le mogli di Giacobbe nasceva dal diritto coniugale e non dalla concupiscenza.

49. Quanto poi a quel che Fausto obietta con accusa sommamente menzognera, che cioè quattro prostitute disputavano tra loro una sorta di gara su chi dovesse portare Giacobbe a giacere con sé, non so proprio dove lo abbia letto: forse nel suo cuore simile a un libro di indicibili falsità, dove è lui stesso a prostituirsi, ma con quel serpente a causa del quale l'Apostolo era in pena per la Chiesa, che desiderava presentare come vergine casta a Cristo, suo unico sposo: temendo che, come aveva ingannato Eva con la sua astuzia, allo stesso modo corrompesse le menti distogliendole dalla castità 125. I Manichei infatti sono amici del serpente a tal punto da sostenere che fu più utile che nocivo. Evidentemente è lui che, infondendogli nell'animo già guasto i semi della menzogna, ha convinto Fausto a partorire con bocca immondissima queste calunnie mal concepite e anche ad affidarle alla memoria con una penna sommamente spudorata. Nessuna infatti delle schiave strappò all'altra il marito Giacobbe, nessuna litigò con l'altra sul giacere con lui. Al contrario, c'era piuttosto ordine, poiché non c'era libidine: e tanto più con fermezza si salvaguardavano i giusti diritti della potestà coniugale, quanto più con castità si evitava l'ingiustizia della concupiscenza carnale. Quanto al fatto che egli venga acquistato da una moglie, è proprio qui che si rivela la giustezza della nostra affermazione, è proprio qui che la verità grida a suo favore contro le menzogne dei Manichei! Che bisogno c'era, infatti, che se lo acquistasse l'altra, se non perché toccasse a quest'altra che come marito egli entrasse da lei? Giammai egli si sarebbe avvicinato all'altra, se quella non lo avesse acquistato; ma certamente si accostava, tutte le volte che veniva il suo turno, a quella da cui aveva procreato tanti figli e alla quale aveva obbedito sino al punto da procreare anche da una schiava di lei, e dalla quale in seguito procreò senza che essa lo acquistasse. Ma quella volta toccava a Rachele di giacere la notte con il marito: era in lei quella potestà della quale, per mezzo dell'Apostolo, la voce del Nuovo Testamento non tacque quando disse: Allo stesso modo anche il marito non è arbitro del proprio corpo, ma lo è la moglie. Dunque Rachele aveva già pattuito con la sorella di passarla, per assolvere al debito con lei contratto, al proprio debitore. Così infatti chiama la cosa l'Apostolo: Il marito paghi il debito a sua moglie 126. Quella verso cui il marito era debitore, aveva già ricevuto dalla sorella, per cederle ciò che aveva in sua potestà, il prezzo che di sua volontà si era scelta.

Giacobbe, uomo di somma continenza.

50. Ma se costui, che Fausto ad occhi chiusi o meglio spenti denigra come impudico, fosse stato schiavo della concupiscenza anziché della giustizia, forse che non avrebbe bruciato tutto il giorno per il desiderio della notte in cui avrebbe giaciuto con la più bella? Era certo lei che amava di più, lei per la quale aveva pagato due volte sette anni di lavoro gratuito. Quando dunque al cader del giorno si dirigeva verso i suoi abbracci, come avrebbe potuto distogliersene se fosse stato tale quale lo reputano i Manichei, che non capiscono nulla? Forse che, disprezzato l'accordo tra le mogli, non sarebbe piuttosto entrato dalla sua bella, che gli doveva quella notte non solo per il costume coniugale ma anche per il diritto del turno? Avrebbe piuttosto usato della sua potestà di marito, giacché La moglie non è arbitra del proprio corpo, ma lo è il marito, e aveva in quel momento a proprio vantaggio l'avvicendamento delle mogli nel servirlo. Avrebbe dunque usato della sua potestà di marito molto più vittoriosamente se fosse stato vinto dal desiderio della bellezza. Ma allora risulterebbero migliori di lui le donne, che avrebbero gareggiato per concepire dei figli, mentre lui lo avrebbe fatto per il piacere dell'unione carnale. In tal modo, quest'uomo dalla continenza estrema, un vero uomo, usando delle mogli così virilmente da non sottomettersi al piacere carnale bensì da dominarlo, si preoccupò maggiormente di ciò che lui stesso doveva che non di quello che gli era dovuto, né volle abusare della propria potestà per il proprio piacere, ma preferì pagare quel debito piuttosto che riscuoterlo. Conseguenza fu che, a pagare il debito, fosse colei che quella, a cui esso era dovuto, aveva scelto perché lo riscuotesse al suo posto: quando scoprì l'accordo e il patto stipulato tra loro e all'improvviso e inopinatamente fu allontanato dalla moglie più bella e chiamato dalla meno bella, Giacobbe non s'infiammò d'ira, non fu oscurato dalla tristezza né, con snervate blandizie, si affannò con ambedue perché fosse piuttosto Rachele a concedergli la notte. Invece, come marito giusto e padre previdente, vedendo che quelle avevano a cuore la discendenza, e lui stesso null'altro chiedendo all'unione carnale, ritenne di dover obbedire alla loro volontà, dal momento che esse desideravano ciascuna dei figli, e di non essere sminuito nella propria, visto che ambedue glieli partorivano. Come a dire: " Fatevi pure a vicenda le cessioni e le concessioni che volete, per vedere chi di voi diventerà madre; io che ho da contendere, dal momento che il nascituro dall'una o dall'altra non avrà altro padre che me? ". Ora Fausto, che era intelligente, in tali narrazioni avrebbe certo compreso ed elogiato questa modestia, questa padronanza della concupiscenza e la ricerca unica, nell'amplesso corporale dei coniugi, dell'umana discendenza, se il suo ingegno non fosse stato pervertito da quella setta esecrabile, se non fosse sempre alla ricerca di qualcosa da condannare, se non considerasse un crimine enorme l'unica cosa che rende onesta l'unione coniugale, con la quale maschi e femmine si congiungono per procreare dei figli.

Cosa prefiguravano le quattro mogli di Giacobbe.

51. Ora, dopo aver difeso i costumi del patriarca e confutata l'accusa intentata da un errore scellerato, con piena libertà e per quanto ci è possibile scrutiamo i misteri segreti e bussiamo con la pietà della fede affinché il Signore ci riveli che cosa prefiguravano queste quattro mogli di Giacobbe, delle quali due erano libere e due schiave. Vediamo infatti che l'Apostolo, nella libera e nella schiava possedute da Abramo, riconosce i due Testamenti 127. Lì però la cosa appare più chiara, perché si parla di una e una; qui invece sono due e due. Inoltre lì è il figlio della schiava a ricevere l'eredità, mentre qui i figli delle schiave ricevono la terra della promessa insieme ai figli delle libere: pertanto, non v'è dubbio che qui si intenda qualcosa di diverso.

Lia è la fatica della vita temporale, Rachele è la speranza della vita eterna: chi serve Dio accetta la prima per arrivare alla seconda.

52. Sebbene io ritenga che le due mogli libere di Giacobbe si riferiscano al Nuovo Testamento, nel quale siamo stati chiamati alla libertà, tuttavia non invano esse sono due; forse perché - cosa che si può capire e trovare nelle Scritture - due vite ci vengono annunciate nel corpo del Signore: una temporale, nella quale fatichiamo, l'altra eterna, nella quale contempleremo la gioia di Dio. Il Signore manifestò quella con la sua passione, questa con la sua resurrezione. Ci invitano a intendere così anche i nomi di quelle donne. Dicono infatti che Lia significhi " Che si affatica ", e Rachele " Principio visto", oppure " Parola dalla quale si vede il principio ". L'agire della vita umana e mortale, nella quale viviamo compiendo per la fede molte opere faticose, incerti su quale esito di utilità esse ottengano per coloro cui vogliamo giovare, è Lia, prima moglie di Giacobbe; per questo si ricorda anche che aveva gli occhi malati. Infatti i ragionamenti dei mortali sono timidi, e incerte le nostre riflessioni 128. Invece, la speranza dell'eterna contemplazione di Dio, che possiede una sicura e gioiosa intelligenza della verità, è Rachele. Perciò viene detta anche gradevole di viso e bella di aspetto. È lei infatti che ogni uomo zelante di ardore ama, è per ottenere lei che si fa servo della grazia di Dio, in virtù della quale i nostri peccati, anche se fossero come scarlatto, diverrebbero bianchi come la neve 129. Ebbene Labano significa " Sbiancare ", e a lui servì Giacobbe per avere Rachele 130. Nessuno infatti si converte a servire la giustizia sotto la grazia della remissione dei peccati, se non per trovare quiete nella parola dalla quale si vede il principio, che è Dio. Dunque per avere Rachele, non Lia. Infatti, chi mai amerà, nelle opere della giustizia, la fatica delle azioni e delle sofferenze? Chi desidererà questa vita per se stessa? Allo stesso modo Giacobbe non amò Lia, tuttavia quando di notte gliela condussero sostituendola con l'inganno sperimentò i suoi amplessi e la sua fecondità allo scopo di generare. Poiché non poteva essere amata per se stessa, dapprima il Signore fece sì che egli la sopportasse per arrivare a Rachele, poi gliela rese gradita per i figli. Ma parimenti ogni utile servo di Dio, costituito sotto la grazia della purificazione dei peccati, a che cos'altro mai volse l'animo, che cos'altro portò nel cuore, che cos'altro amò appassionatamente se non gli insegnamenti della sapienza? Questa sapienza, i più ritengono di acquistarla e di raggiungerla tosto che si siano esercitati nei sette comandamenti della legge che riguardano l'amore per il prossimo e vietano che si nuoccia ad alcuno, e cioè: Onora tuo padre e tua madre, non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non pronunciare falsa testimonianza, non desiderare la moglie del tuo prossimo, non desiderare alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo 131. Una volta osservati al meglio delle possibilità questi comandamenti, dopo che attraverso diverse prove lungo la notte di questo secolo si sarà a lui unita, anziché la bramata, sperata e bellissima gioia della dottrina, la sopportazione della fatica (come al posto di Rachele inaspettatamente si unì Lia), l'uomo sopporta anche questa per giungere all'altra, se ama con perseveranza, accettando altri sette comandamenti (come se gli si dicesse: Servi altri sette anni per Rachele): essere povero di spirito, mite, nel pianto, affamato e assetato di giustizia, misericordioso, puro di cuore, pacifico 132. L'uomo vorrebbe, se fosse possibile, giungere subito alle delizie della bella e perfetta sapienza, senza dover tollerare alcuna delle fatiche che si devono abbracciare quando si agisce e si soffre: ma ciò non è possibile nella terra dei mortali. Questo infatti sembra il significato di ciò che viene detto a Giacobbe: Non si usa nel nostro paese che la minore sia data in sposa prima della maggiore 133, giacché non è inopportuno chiamare maggiore quella che viene prima in ordine di tempo. Orbene, nella retta educazione dell'uomo, la fatica di compiere ciò che è giusto viene prima del piacere di comprendere ciò che è vero.

Prima a sposarsi è Lia, poi Rachele: si giunge alla sapienza attraverso la giustizia che viene dalla fede.

53. A ciò si applica quel che è scritto: Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà 134. I comandamenti sono quelli pertinenti alla giustizia. La giustizia, poi, è quella che viene dalla fede e che si muove in mezzo alle incertezze delle prove, al fine di conseguire, credendo piamente in ciò che ancora non comprende, anche il merito della comprensione. Il senso del passo della Scrittura che ho appena ricordato: Se desideri la sapienza, osserva i comandamenti e il Signore te la concederà, penso sia il medesimo di quest'altro: Se non crederete, non comprenderete 135, perché ci sia mostrato che la giustizia appartiene alla fede, mentre l'intelligenza alla sapienza. Pertanto, a coloro che bruciano di amore ardente per la limpida verità non si deve rimproverare questo desiderio: esso però va richiamato all'ordine, affinché cominci dalla fede e si sforzi di pervenire ai buoni costumi a cui tende. La virtù, in ragione dell'ambito in cui si muove, è travagliata: la sapienza, in ragione di ciò a cui tende, è luminosa. " Che bisogno c'è di credere - dice - a ciò che non mi si mostra chiaro? Proferisci una qualche parola, per la quale io possa vedere il principio di tutte le cose! È questo infatti ciò per cui l'animo razionale, se è desideroso del vero, massimamente e soprattutto si infiamma ". Si dovrebbe rispondere: ciò che desideri è bello, e degno in sommo grado di essere amato, ma la prima a sposarsi è Lia, poi Rachele. Questo ardore ti valga non a rifiutare l'ordine, ma piuttosto ad accettarlo, ché senza di esso non si può giungere a ciò che con tanto ardore si ama. Quando si sarà giunti lì, allo stesso tempo si possiederà in questo mondo non solo la bella intelligenza, ma anche la faticosa giustizia. Per quanto infatti i mortali ricerchino con acume e sincerità il bene immutabile, ancora il corpo che si corrompe appesantisce l'anima e l'abitazione terrena opprime lo spirito che è pieno di pensieri136. Si deve dunque tendere ad un'unica cosa, ma sono molte quelle che per essa si devono sopportare.

Rachele e la schiava Bila.

54. Due sono dunque le mogli libere di Giacobbe; ambedue sono figlie della remissione dei peccati, cioè dello " Sbiancare ", ovvero di Labano. Tuttavia una è amata e l'altra sopportata. Ma quella che è sopportata, è la prima e la più ricca in fecondità cosicché, se non per se stessa, è certamente amata per i figli. Infatti la fatica dei giusti ottiene il massimo frutto in quelli che, nel regno di Dio, generano in mezzo a molte prove e tribolazioni predicando il Vangelo, e costoro chiamano loro gioia e corona quelli per i quali si trovano maggiormente nelle sofferenze, in calamità oltre misura, spesso vicini alla morte 137, e per i quali sostengono lotte esterne e timori interiori 138. Nascono loro con più facilità e abbondanza da quel discorso di fede 139 con cui predicano Cristo crocifisso 140 e tutto ciò che della sua umanità viene più rapidamente compreso dal pensiero umano e che non turba neppure gli occhi infermi di Lia. Rachele invece, con il suo sguardo chiaro, esce di mente verso Dio 141 e vede in principio il Verbo che è Dio presso Dio 142 e vuole partorire e non può, poiché chi narrerà la sua generazione? 143 Pertanto la vita che si dedica al desiderio della contemplazione, con lo scopo di vedere con gli occhi non malati della mente, attraverso le realtà create, le cose invisibili alla carne e di scorgere in maniera ineffabile il potere sempiterno 144 e la divinità di Dio, vuole rimanere libera da ogni occupazione ed è dunque sterile. Effettivamente essa, aspirando all'ozio, nel quale si accendono gli ardori della contemplazione, non si adatta alla debolezza degli uomini che desiderano essere sostenuti nelle loro tante preoccupazioni; ma poiché anch'essa arde del desiderio di generare - vuole infatti insegnare ciò che conosce e non accompagnarsi con l'invidia che consuma 145 - vede che sua sorella, nella fatica dell'azione e della sofferenza, è ricca di figli, e si duole che gli uomini corrano a quella potenza che soccorre alle loro infermità e necessità piuttosto che a quella da cui si apprende qualcosa di divino e immutabile. Questo dolore sembra rappresentato quando è scritto: E Rachele divenne gelosa di sua sorella 146. Pertanto, poiché l'intelligenza chiara e pura di quella sostanza che non è corpo e che perciò non pertiene al senso carnale non può essere espressa con parole che escono dalla carne, la dottrina della sapienza sceglie di suggerire le cose divine in qualche modo pensabili mediante alcune immagini e similitudini corporee, piuttosto che ritrarsi dal compito di insegnarle: così come Rachele scelse di procurarsi figli da suo marito e da una schiava piuttosto che rimanerne priva del tutto. Si dice che Bila significa " Vecchia ", ed essa fu la schiava di Rachele: è infatti dalla vecchia vita, dedita ai sensi della carne, che sono pensate le immagini corporee, anche quando si ascolta qualcosa in merito alla sostanza spirituale e immutabile della divinità.

Lia e la schiava Zilpa.

55. Anche Lia, ardente dal desiderio di avere una prole più numerosa, ebbe figli dalla sua schiava. Troviamo che Zilpa, la sua schiava, significa " Bocca che va ". Pertanto, quando troveremo nella Scrittura che la bocca di alcuni va a predicare la fede evangelica, ma non il loro cuore, dobbiamo pensare alla schiava di Lia. È scritto infatti di alcuni: Questo popolo mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me 147. E a uomini simili l'Apostolo dice: Tu che predichi di non rubare, rubi?; tu che proibisci adulterio, sei adultero 148?. Tuttavia, affinché anche per mezzo di questa serva la moglie libera ma affranta di Giacobbe ottenga dei figli eredi del regno, ecco che il Signore dice: Quanto vi dicono, fatelo: ma non fate ciò che fanno 149. Per questo la Vita apostolica, in mezzo alla fatica delle catene, dice: Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunziato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene 150, come rallegrandosi per la prole più numerosa, giacché anche la schiava ha partorito.

La mandragora rappresenta la buona reputazione della vita contemplativa.

56. Lia ebbe dunque un figlio, nato in seguito alla concessione di Rachele: questa, avendo ricevuto delle mandragore dal figlio di Lia, permise che suo marito, il quale doveva giacere con lei nella notte che le spettava di diritto, giacesse invece con la sorella. Di questo frutto so che alcuni ritengono che, preso come cibo da donne sterili, procuri la fecondità; e pensano quindi che Rachele insistette tanto a ottenerne dal figlio di Lia perché desiderava ardentemente dei figli. Ma io non potrei essere d'accordo, neppure se essa avesse concepito in quell'istante. Poiché invece il Signore le donò dei figli da quella notte dopo altri due parti di Lia, non c'è alcun motivo di attribuire alla mandragora un potere che non abbiamo mai constatato per nessuna donna. Dirò dunque quello che penso: altri, più sapienti, diranno forse di meglio. Quando ho visto io stesso questi frutti - e mi sono rallegrato che mi sia accaduto proprio per questo passo della sacra Scrittura: è infatti cosa rara - ne ho indagato la natura con tutta l'attenzione possibile, sulla base non di una qualche scienza lontana dal senso comune che insegni le virtù delle radici e i poteri delle erbe, ma di ciò che a me e a un qualunque altro uomo indicavano la vista, l'olfatto e il gusto. Ho dunque scoperto un frutto bello e profumato, ma dal gusto insipido; e quindi confesso di ignorare perché una donna potrebbe desiderarlo così tanto, se non forse a causa della sua rarità e del gradevole odore. Ma allora per quale motivo la sacra Scrittura non ha voluto tacere questo fatto, essa che certo non si preoccuperebbe di indicarci come importanti simili desideri da donnicciole, se non per esortarci a cercare in essi qualcosa di grande? Non saprei addurre un'ipotesi migliore di quella che mi è suggerita appunto dal senso comune: cioè che il frutto della mandragora rappresenta la buona reputazione, non quella che si ottiene quando un uomo viene lodato da pochi giusti e saggi, bensì quella popolare, che procura una notorietà più vasta e rinomata, la quale, se non se non dev’essere ricercata per se stessa, è tuttavia oltremodo necessaria alla sollecitudine con cui i buoni provvedono al genere umano. Per questo l'Apostolo dice: È necessario che egli goda buona reputazione presso quelli di fuori 151: i quali, sebbene poco saggi, tuttavia di solito procurano all'impegno di coloro che li custodiscono il lustro della lode e il profumo della buona fama. Fra quanti sono dentro la Chiesa, giungono per primi a questa reputazione popolare solo quelli che vivono nei pericoli e nella fatica dell'azione. Per questo il figlio di Lia trovò delle mandragore uscendo in campagna, cioè recandosi con onestà presso quelli che sono fuori; invece quella dottrina di sapienza che, lontanissima dal clamore della folla, sta fissa nel dolce godimento della contemplazione della verità, non otterrebbe neppure un poco di questa gloria popolare se non attraverso coloro che, agendo in mezzo alle masse e persuadendo i popoli, governano non per capeggiare ma per servire. Infatti, quando questi uomini attivi e laboriosi, che cercano l'utilità delle moltitudini e la cui autorità è amata dai popoli, rendono testimonianza anche a questa vita col desiderio che hanno di conquistare e contemplare la verità nell'ozio, in qualche modo le mandragore attraverso Lia giungono a Rachele; a Lia attraverso il figlio primogenito, cioè attraverso l'onore della sua fecondità, nella quale risiede tutto il frutto di un'attività che fatica e rischia in mezzo alle incertezze delle prove: attività che, a causa delle sue occupazioni turbolenti, gli uomini dotati di buona intelligenza e infiammati per lo studio per lo più evitano, sebbene potrebbero essere adatti a governare i popoli, volgendosi con tutto il cuore all'ozio della dottrina come all'abbraccio della bella Rachele.

Il rimprovero di Lia alla sorella.

57. È bene che anche questa vita, facendosi più ampiamente conoscere, meriti la gloria popolare, ma è ingiusto che la consegua, se trattiene il suo amante nell'ozio quando egli è adatto e idoneo ad amministrare gli affari della Chiesa e non lo spinge ad occuparsi dell'utilità comune. Per questo Lia dice a sua sorella: È forse poco che tu mi abbia portato via il marito, perché voglia portar via anche le mandragore di mio figlio? L'unico marito sta a significare tutti quelli che, pur essendo in grado di agire e degni che si affidi loro il governo della Chiesa perché dispensino il sacramento della fede, vogliono invece, infiammati dal desiderio della dottrina e della ricerca e contemplazione della sapienza, allontanarsi da tutte le molestie dell'azione e nascondersi nell'ozio dell'apprendimento e dell'insegnamento. Pertanto si dice: È forse poco che tu mi abbia portato via il marito, perché voglia portar via anche le mandragore di mio figlio? come se si dicesse: " Ti pare poco che la vita degli studi tenga nell'ozio uomini necessari all'onerosa gestione delle attività pubbliche, e cerchi anche la gloria popolare? ".

Giacobbe non rifiutò Lia: il peso della vita attiva procura lode alla vita contemplativa.

58. Pertanto, per procurarsi tale gloria giustamente, Rachele cede il marito alla sorella per quella notte: affinché coloro che per laboriosa virtù sono adatti al governo dei popoli, sebbene abbiano scelto di dedicarsi alla scienza, accettino di sperimentare il peso delle prove e delle preoccupazioni per l'utilità comune, perché la stessa dottrina della saggezza a cui hanno scelto di dedicarsi non venga oltraggiata e rischi di non ottenere da parte dei popoli ignoranti la buona fama, che quei frutti simboleggiano, e quanto è necessario a esortare chi la apprende. È tuttavia chiaro che, per accettare tale peso, essi vengono forzati. Ciò è indicato a sufficienza dal fatto che, mentre Giacobbe sta tornando dal campo, Lia gli corre incontro e lo trattiene dicendo: Da me devi venire, perché io ho pagato il diritto di averti con le mandragore di mio figlio 152, come a dire: " Vuoi che la dottrina che ami ottenga una buona reputazione? Allora non sfuggire alla doverosa fatica ". Chiunque faccia attenzione, si accorge che ciò è quanto accade nella Chiesa. Sperimentiamo negli esempi ciò che comprendiamo nei libri. Chi non vede che ovunque nel mondo tutti si allontanano dalle opere del secolo e si volgono all'ozio della conoscenza e della contemplazione della verità come all'abbraccio di Rachele, e che all'improvviso sono afferrati dalle necessità della Chiesa e messi al lavoro come se Lia dicesse loro: Da me devi venire? Quando essi dispensano castamente i misteri di Dio, per generare figli alla fede nella notte di questo secolo, vengono lodati dai popoli anche per quella vita il cui amore, una volta convertiti, li indusse ad abbandonare la speranza di questo secolo, e alla cui professione sono stati sottratti per l'opera misericordiosa di governare il popolo. Con tutte le loro fatiche, infatti, ottengono che quella professione cui si erano volti riceva una gloria più diffusa e più ampia, per il fatto di aver fornito ai popoli simili capi, come Giacobbe che non rifiutò la notte a Lia perché Rachele entrasse in possesso di quei frutti tanto profumati e splendidi; anche questa professione, qualche volta, grazie alla misericordia di Dio, partorisce da sola, e tuttavia con fatica, giacché è rarissimo che: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio 153, e tutto ciò che di questo si dice con pietà e sapienza, venga compreso senza i fantasmi del pensiero carnale e, almeno in parte, in maniera giovevole alla salvezza.

Conclusione della difesa di Abramo, Isacco e Giacobbe.

59. Sui tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, dei quali Dio ha voluto chiamarsi il Dio e che la Chiesa cattolica onora, contro le calunnie di Fausto basterà quanto detto. Dei meriti di questi tre uomini, della loro pietà e della profondità profetica remotissima dal giudizio degli uomini carnali, non è ora il momento di discutere: in questa nostra opera bisognava difenderli soltanto dalle accuse loro rivolte da una lingua maldicente e nemica della verità, affinché non credano di affermare qualcosa contro le Scritture sante e salvifiche quelli che le hanno lette con mente perversa e avversa, quando aggrediscono con insulti sfacciati coloro che in esse sono presentati con tanto grande onore.

Il peccato di Lot non offusca la veridicità delle Scritture.

60. Del resto Lot, fratello cioè consanguineo di Abramo, non deve essere in alcun modo paragonato con questi, di cui Dio dice: Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe 154, né annoverato nel numero di quelli cui la Scrittura dà sino alla fine testimonianza di giustizia, sebbene sia vissuto con pietà e castità in mezzo ai Sodomiti e, lodato anche per i meriti della sua ospitalità, sia stato liberato dall'incendio di quella terra e ai suoi discendenti, per il fatto che Abramo era suo zio, sia stata data per dono di Dio la terra della promessa 155. Sono questi i meriti che in quei libri sono offerti alla nostra lode: non l'ubriachezza o l'incesto 156; ma dal momento che dello stesso uomo troviamo scritta un'azione retta e una peccaminosa, l'una ci viene proposta affinché la imitiamo e l'altra affinché ce ne guardiamo. Ora, se il peccato di Lot, al quale è stata resa, prima che peccasse, testimonianza di giustizia 157, non solo non oscura la divinità di Dio o la verità della Scrittura, ma anzi la raccomanda alla nostra lode e al nostro amore per il fatto che, come uno specchio nitido e fedele, essa riflette delle persone che le si avvicinano non solo ciò che è bello e integro, ma anche ciò che è brutto e vizioso: quanto meno il fatto che Giuda giacque con sua nuora apporterà motivi per incolpare l'autorità santa 158! La quale, solidamente fondata in quei libri, disdegna con diritto divino non solo le calunniose arguzie di pochissimi Manichei, ma anche l'orribile ostilità di tanti e tanto grandi popoli gentili, che ha già sottomesso quasi tutti al culto dell'unico vero Dio, strappandoli alla nefasta superstizione degli idoli per mezzo dell'impero cristiano, conquistando il mondo intero non con la violenza della guerra ma con la potenza invincibile della verità. In quale punto delle Scritture, infatti, viene lodato Giuda? Che cosa di buono la Scrittura testimonia di lui, se non il fatto che nella profezia di Cristo, il quale si preannunziava si sarebbe incarnato dalla sua stirpe, egli ebbe la preminenza sugli altri, raccomandato dalla benedizione di suo padre 159?

I peccati di Giuda e di Tamar sua nuora.

61. D'altronde, all'incesto che Fausto gli rimprovera noi aggiungiamo anche il fatto di aver venduto suo fratello Giuseppe in Egitto 160. Forse che le membra storte di qualcuno sfigurano la luce che tutto mette in evidenza? Ugualmente, le cattive azioni di qualcuno non rendono cattiva la Scrittura, ma per il fatto che essa le mostra vengono rese note ai lettori. Se dunque si consulta la legge eterna che ordina di conservare l'ordine naturale e proibisce di alterarlo, essa ha stabilito che l'unione carnale debba avvenire soltanto allo scopo della riproduzione, e ciò solamente in nozze regolate dalla società che non perturbino il vincolo della pace, e pertanto la prostituzione delle donne, che si offrono non allo scopo di creare nuovi eredi ma di saziare la libidine, è condannata dalla legge divina e eterna. La turpitudine che si acquista col denaro disonora completamente colui che la compra. Per questo Giuda, sebbene avrebbe peccato più gravemente se avesse voluto giacere con lei sapendo che era sua nuora - se infatti un uomo e una donna, come dice il Signore: Non sono più due, ma una carne sola 161, la nuora va considerata non diversamente da una figlia -, tuttavia non c'è dubbio che, nelle sue intenzioni, giacque vergognosamente con una meretrice. Essa, che ingannò il suocero, non peccò per desiderio carnale di lui né per brama della mercede da prostituta ma, volendo un figlio da quello stesso sangue da cui non aveva potuto averne, giacché era già stata sposata a due fratelli e un terzo le era stato rifiutato, si fece fecondare con la frode dal padre di quelli e suocero suo, dopo aver ricevuto un pegno della sua mercede, che conservò non come ornamento ma come prova. Certo, sarebbe stato meglio rimanere senza figli piuttosto che diventare madre fuori della legge matrimoniale: tuttavia essa, per il fatto di essersi procurata il suocero come padre dei suoi figli, peccò con un'intenzione di gran lunga diversa che se lo avesse desiderato come adultero. Infine, quando condotta alla morte per ordine di lui essa presentò il bastone, il cordone e l'anello con il sigillo, dicendo di essere incinta di colui al quale quei pegni appartenevano, egli, non appena riconobbe ciò che le aveva dato, rispose che era più giustificata di lui: poiché non aveva voluto darle suo figlio come marito essa, spinta da quel rifiuto, si era conquistata una discendenza in quel modo piuttosto che in nessuno, non da altrove che da quella medesima stirpe. Con tali affermazioni, dicendo non che era giusta ma che era più giusta di lui, egli non la lodò, bensì la antepose a sé nel paragone, ritenendo meno colpevole il desiderio di avere figli, spinta dal quale essa si era unita al suocero, che la libidinosa passione della carne, vinto dalla quale egli stesso era entrato presso di lei come da una meretrice: parimenti si dice ad alcuni: Avete giustificato Sodoma 162, cioè avete peccato a tal punto che Sodoma, paragonata a voi, appare giusta. Del resto, se anche si intendesse che il suocero non riteneva questa donna meno colpevole nel paragone con un'azione peggiore, ma la lodava invece senza riserve (sebbene, consultando la legge eterna che proibisce di alterare l'ordine naturale non solo dei corpi, ma soprattutto e in primo luogo delle anime, scopriamo che essa è meritatamente colpevole, non avendo rispettato l'ordine sociale nella procreazione dei figli), che c'è di strano se una peccatrice viene lodata da un peccatore?

Venerare le Scritture non significa approvare i vizi che esse menzionano.

62. Fausto, o la stessa perversità dei Manichei, ritiene che ciò sia contro di noi, quasi che noi, accordando venerazione e degno elogio a quella Scrittura, dovessimo necessariamente approvare i vizi degli uomini che essa menziona. La necessità è piuttosto un'altra: quanto più religiosamente accettiamo la Scrittura, tanto più risolutamente accusiamo le cose che, per mezzo della sua verità, abbiamo imparato con più certezza doversi accusare. Lì infatti la fornicazione e ogni illecito rapporto carnale sono condannati per diritto divino 163 e per questo, quando la Scrittura ricorda di qualcuno simili azioni tacendo in quel punto il proprio giudizio, ci mette in grado di giudicarle, non ci prescrive certo di lodarle. Infatti, chi di noi nel Vangelo stesso non aborrisce la crudeltà di Erode, quando preoccupato per la nascita di Cristo ordinò di uccidere tutti quei bambini 164? Eppure questo fatto lì non viene biasimato, ma soltanto narrato. Ma i Manichei, affinché nella loro folle impudenza non sostengano che ciò è falso - visto che negano la stessa nascita di Cristo per la quale Erode era turbato -, vadano a leggere in che modo lì sia solo narrata e non biasimata la crudeltà e la cecità dei Giudei, che tuttavia è universalmente detestata.

Giacobbe benedisse Giuda in riferimento a Cristo, che sarebbe nato dalla tribù di lui.

63. " Però, sostengono, questo Giuda che giacque con sua nuora viene annoverato tra i dodici patriarchi 165 ". E allora? Forse non si conta tra i dodici apostoli quel Giuda che tradì il Signore, e non fu inviato con loro e come uno di loro a predicare il Vangelo, egli che era un diavolo 166? Ma ancora ribattono e dicono: " Dopo un delitto così grande, quello si impiccò e fu escluso dal numero degli apostoli 167; costui invece, dopo una tale sconcezza, fu benedetto in modo speciale rispetto ai suoi fratelli e lodato al di sopra di tutti loro da quel padre cui Dio rende tanto grande testimonianza 168 ". Certamente: poiché da questo passo appare ancora più chiaro che quella profezia non si riferisce a lui ma a Cristo, che si annunziava sarebbe venuto nella carne dalla tribù di lui; a maggior ragione dunque la divina Scrittura non avrebbe dovuto tacere il suo crimine, come infatti non lo ha taciuto, affinché nelle parole del padre con cui egli viene lodato dopo quella vergogna si vada a ricercare un'altra cosa, giacché non è lui che in esse si riconosce.

Fausto vuole colpire non la stirpe di Giacobbe, bensì la genealogia di Cristo.

64. Tuttavia si capisce che Fausto, col suo dente maldicente, ha voluto mordere il fatto che noi predichiamo che Cristo venne da quella tribù, soprattutto perché nelle generazioni dei suoi antenati menzionate da Matteo figura anche Zara, che la stessa Tamar generò concependolo da Giuda 169. Infatti, se avesse voluto colpire la stirpe di Giacobbe e non la genealogia di Cristo, avrebbe piuttosto addotto in primo luogo Ruben, che violò con indicibile dissolutezza il letto paterno 170: fornicazione che l'Apostolo dice mai sentita neppure tra i Gentili 171. Anche il padre stesso Giacobbe, quando li benedisse, non tacque di questo fatto, accusandolo e deprecandolo sopra il capo di lui 172. Senza dubbio Fausto avrebbe piuttosto obiettato questo crimine, che evidenzia non un errore dovuto all'abito di una prostituta bensì una profanazione del tutto volontaria del giaciglio paterno: invece è proprio Tamar stessa che egli odiava, assai più per il fatto che in quell'amplesso essa desiderò null'altro che partorire che non se avesse bruciato di pura passione carnale, e incolpando i progenitori di Cristo voleva infirmare la sua incarnazione, ignorando, il misero, che il verissimo e veracissimo Salvatore si è dimostrato maestro non solo con la parola, ma anche con la nascita. Infatti i suoi fedeli, che sarebbero provenuti da tutte le genti, dovevano apprendere anche dall'esempio della sua carne che non potevano essere danneggiati dalle iniquità dei loro padri. Pertanto quello sposo, che adattandosi ai suoi invitati avrebbe chiamato alle nozze buoni e cattivi, volle anche nascere da buoni e cattivi 173, per confermare che la profezia della Pasqua, nella quale fu prescritto di mangiare un agnello preso da pecore e da capri 174 come da buoni e da cattivi, lo aveva preceduto per prefigurare lui stesso. Per conservarci ovunque prove del fatto che era Dio e uomo, non disdegnò antenati sia buoni che cattivi per conformarsi alla condizione umana, mentre scelse di nascere da una vergine come prova miracolosa della sua divinità.

Le Scritture narrano spesso, di un medesimo uomo, azioni sia lodevoli sia riprovevoli.

65. Invano dunque Fausto, che col suo dente sacrilego infierisce piuttosto contro se stesso, accusa la sacra Scrittura, a ragione venerata ormai in tutto il mondo: essa, come ho detto sopra, quale specchio nitido e fedele non accetta di adulare nessuno, ma o giudica essa stessa le azioni degli uomini con la lode o la riprovazione oppure le fa giudicare ai lettori, e non solo indica uomini riprovevoli o lodevoli, ma anche non tace azioni lodevoli in uomini riprovevoli e azioni riprovevoli in uomini lodevoli. Infatti, non perché Saul era un uomo riprovevole non è da lodarsi il fatto che egli, dopo aver tanto diligentemente indagato chi avesse mangiato nonostante la maledizione, tanto severamente cercò di castigarlo per obbedire a Dio che aveva ingiunto il divieto 175, oppure il fatto che radiò dal suo regno negromanti e indovini 176; né perché Davide era degno di lode, allora i suoi peccati, che Dio stesso gli rimprovera per mezzo del profeta 177, sono da approvare o imitare. Ugualmente, anche in Ponzio Pilato non si deve biasimare che contro le accuse dei Giudei giudicò innocente il Signore 178, e in Pietro non si deve lodare che rinnegò tre volte il Signore 179, o che fu da lui chiamato Satana perché, non pensando secondo Dio, lo voleva allontanare dalla sua passione, cioè dalla nostra salvezza: dunque egli, poco prima chiamato beato 180, poco dopo è chiamato Satana 181. Ma ciò che in lui prevalse, ce lo testimoniano il suo apostolato e la corona del martirio.

Numerose azioni di re Davide degne di lode e di imitazione.

66. Così pure del re Davide leggiamo i peccati, ma leggiamo anche le azioni rette. In cosa egli fosse superiore o donde derivasse la sua vittoria risulta sufficientemente chiaro non alla cecità malevola con cui Fausto si scaglia contro i libri e gli uomini santi, ma alla prudenza religiosa con cui si possono scorgere e discernere l'autorità divina e i meriti umani. Che costoro leggano, e vedano come Dio rimproverò a Davide più cose che Fausto stesso 182; ma lì si trova anche il sacrificio della penitenza, lì si trova anche quella incomparabile mansuetudine persino verso il nemico più terribile e crudele il quale, tutte le volte che cadde nelle sue mani potentissime, fu da lui con mani pietosissime rilasciato incolume 183. Lì c'è una memorabile umiltà sotto la sferza di Dio e una cervice regale così sottomessa al giogo del Signore che egli, nonostante fosse armato e scortato da armati, sopportò con infinita pazienza amari insulti dalla bocca del nemico e trattenne con estrema modestia il compagno che, infiammato d'ira perché il suo re doveva sentire tali cose, era già sul punto di abbattersi con destra vendicatrice sulla testa dell'oltraggiatore, aggiungendo al suo ordine regale il peso del timore di Dio e dicendo che quella era la ricompensa per i propri meriti da parte del giudizio celeste, dal quale chi lo insultava era stato mandato per bersagliarlo con simili ingiurie 184. Lì c'è un amore così grande del pastore per le greggi a lui affidate che egli avrebbe voluto morire per loro, allorché, dopo il censimento del popolo, Dio volle punire il suo peccato di orgoglio proprio diminuendo con la morte di molti quel numero, la cui ampiezza aveva tentato di superbia il cuore del re: con questo occulto giudizio Dio 185, presso il quale non c'è ingiustizia, sottrasse a questa vita quelli che trovò indegni di essa e allo stesso tempo, in colui che si era esaltato per l'abbondanza di uomini, guarì la gonfiezza dell'animo umano con la diminuzione di quell'abbondanza. Lì il religioso timore di Dio custodiva il mistero di Cristo nella santa unzione a tal punto che il suo cuore trepidò di pia preoccupazione quando, di nascosto, tagliò un pezzetto della veste dello stesso Saul per avere di che dimostrargli che, pur potendo, non aveva voluto ucciderlo. Lì lo si trova così saggio verso i figli e di tale clemenza che, sebbene non pianse la morte del bimbo innocente, per la cui malattia aveva supplicato il Signore prostrandosi con molte lacrime e con gli abiti dimessi dell'umiliato, egli stesso voleva mantenere in vita - e pianse quando fu ucciso - un giovane figlio rovinato dal furore parricida, che aveva macchiato il letto paterno con stupri nefandi e conduceva contro il padre una guerra criminosa: prevedendo le pene eterne della sua anima avviluppata in così grandi delitti, desiderava che, onde evitarle, egli vivesse, per correggersi e umiliarsi mediante la penitenza 186. Queste e molte altre cose degne di lode e di imitazione si troveranno in quell'uomo santo, se si scruta la Scrittura che parla di lui con un animo non perverso, e soprattutto se seguiamo con mente sottomessa, pietosa e pienamente fedele il giudizio di Dio, che conosceva il segreto del suo cuore: lì egli fu così gradito al cospetto di Colui che non può ingannarsi, che egli lo propose ai suoi figli come esempio da imitare.

Solo lo Spirito di Dio vede nell'intimità dei cuori: meriti di Davide.

67. Che altro infatti vedeva lo Spirito di Dio se non le profondità del suo cuore quando, rimproverato dal profeta, Davide disse: Ho peccato e immediatamente, a seguito di queste uniche parole, meritò di udire che aveva ricevuto il perdono? E a che scopo, se non per la salvezza eterna? Dio infatti non tralasciò di colpirlo con sferza di padre secondo quanto gli aveva minacciato, affinché confessando venisse liberato per l'eternità e soffrendo fosse provato temporalmente. E non fu certo prova mediocre della forza della sua fede, o piccolo indizio di un'anima mite e obbediente il fatto che egli, avendo udito dal profeta che Dio lo aveva perdonato, e vedendo tuttavia accadere di seguito ciò che gli era stato minacciato, non disse di essere stato ingannato dalla menzogna del profeta né mormorò contro Dio come se avesse proclamato un falso perdono per i suoi peccati. Quell'uomo profondamente santo, elevando l'anima sua non contro, ma verso Dio, comprendeva di quali pene eterne, se il Signore non fosse propizio a chi confessa e si pente, sarebbero stati degni i suoi peccati; quando per essi era tormentato da correzioni temporali, vedeva dunque sia che gli veniva conservato il perdono sia che non gli era negata la medicina. Perché invece Saul, rimproverato da Samuele, pur dicendo anch'egli: Ho peccato 187, non meritò di udire ciò che udì Davide, che cioè il Signore lo aveva perdonato? Forse presso Dio c'è preferenza di persone? Non ce n'è 188. Ma sotto quella voce, simile a udirsi per il senso umano, c'era un cuore diverso, che l'occhio divino discerneva. Cosa ci viene insegnato con tali esempi, se non che il regno dei cieli è dentro di noi 189 e che dobbiamo adorare Dio nella nostra intimità, affinché la bocca parli dell'abbondanza del cuore 190, e il popolo non lo onori con le labbra mentre il cuore è lontano da lui 191? Che non dobbiamo permetterci di giudicare gli uomini, dei quali non possiamo vedere l'intimità, in modo diverso da Dio, che invece può fare questo e non può essere ingannato o sedotto? E che, essendo la sua chiarissima sentenza su Davide all'interno della così alta autorità della Divina Scrittura, l'umana temerarietà, che pensa diversamente, è da deridere o meglio da compiangere? Dunque, in merito agli uomini antichi si deve credere a quei libri divini, che con tanto anticipo hanno predetto ciò che ora vediamo nel presente.

Meriti di Pietro.

68. Cos'altro apprendiamo nel Vangelo, quando si sente Pietro confessare Cristo come Figlio di Dio 192 con parole che sono parimenti pronunziate anche dai demoni, ma con cuore di gran lunga diverso 193? Dunque in parole identiche si loda la fede di Pietro e si raffrena l'impurità dei demoni. Da parte di chi, se non di colui che, non con orecchio umano ma con intelligenza divina, sa vedere le intime radici di quelle parole e distinguerle senza inganno alcuno? Quanti altri uomini, infatti, affermano che Cristo è il Figlio del Dio vivo e tuttavia non sono paragonabili ai meriti di Pietro! Non solo quelli che diranno in quel giorno: Signore, Signore e sentiranno rispondersi: Allontanatevi da me 194; ma anche quelli che saranno raccolti sulla destra 195, moltissimi dei quali mai rinnegarono Cristo, oppure una sola volta, né disapprovarono che egli patì per la nostra salvezza, né costrinsero i gentili a giudaizzarsi 196: e tuttavia non appariranno uguali a Pietro, che fece queste cose e siede su uno dei dodici troni e giudica non solo le dodici tribù, ma anche gli angeli. Allo stesso modo, molti che non desiderarono la moglie di nessuno né perseguitarono sino alla morte il marito di colei che desideravano, non possono avere presso Dio il merito di Davide, che compì tutto questo. Tanto grande è la differenza tra ciò che uno detesta di se stesso, così tanto da volerlo estirpare dalla radice, e ciò che al posto di quello nasce, fruttifero e abbondante per grande fertilità: poiché anche all'agricoltore piacciono di più i campi che, una volta sradicate le spine per grandi che siano, producono il cento per uno, rispetto a quelli che non hanno mai avuto spine e a fatica raggiungono il trenta.

Meriti di Mosè.

69. Ciò vale anche per Mosè: servo fedelissimo di Dio in tutta la sua casa, ministro della legge santa e del comandamento santo, giusto e buono, al quale l'Apostolo dà testimonianza 197 - sono infatti sue le parole che ho ricordato -, ministro anche dei misteri, non di quelli che già donano la salvezza ma di quelli che ancora promettevano il Salvatore, come il Salvatore stesso conferma dicendo: Se credeste a Mosè, credereste anche a me, perché di me egli ha scritto 198 (di questo abbiamo trattato a suo luogo per quanto ci è parso opportuno, contro le sfacciate calunnie dei Manichei); Mosè, che fu servitore del Dio vivo, del Dio vero, del Dio sommo, di colui che creò il cielo e la terra non da materia estranea ma dal nulla, non perché lo premeva la necessità ma perché traboccava di bontà, non mediante il supplizio di un suo membro ma mediante la potenza della sua parola; Mosè, umile nel rifiutare tanto grande ministero 199, sottomesso nell'assumerlo, fedele nel mantenerlo, strenuo nell'esercitarlo; prudente nel governare il popolo, impetuoso nel correggerlo, ardente nell'amarlo, paziente nel sostenerlo; che in favore di coloro di cui era alla guida fece da mediatore con Dio quando era propizio e gli si pose davanti quando era adirato: su un uomo tale e così grande, lungi da noi il giudicare secondo la bocca maldicente di Fausto! Giudichiamo invece secondo la bocca totalmente veritiera di Dio, il quale conosce veramente l'uomo, che è opera sua, e riconosce come giudice in coloro che non li confessano e perdona come padre a coloro che li confessano i peccati, che non sono opera sua. Per le parole della sua bocca dunque amiamo, ammiriamo e imitiamo per quanto ci è possibile il suo servo Mosè, poiché gli siamo assai inferiori nei meriti, anche se non abbiamo ucciso o spogliato alcun Egiziano né fatto alcuna guerra: egli compì la prima azione in qualità di futuro difensore, la seconda per comando di Dio.

Mosè e l'Egiziano: in un cuore grande il vizio rivela la futura virtù.

70. Ometterò per ora il fatto che quando Mosè colpì l'Egiziano 200, sebbene non fosse stato Dio a ordinarglielo, la divina volontà permise tuttavia che ciò gli accadesse in quanto personaggio profetico, per significare qualcosa di futuro. Non mi occupo al momento di questo livello dei fatti e ne tratto invece come se non avessero senso profetico. Consultata la legge eterna trovo che egli, privo di legittimo potere, non doveva uccidere quell'uomo, sebbene oltraggioso e malvagio. Tuttavia spesso le anime capaci e feconde rispetto alla virtù presentano vizi che rivelano quale sia la virtù ad esse più congeniale qualora le si coltivi con i precetti. Come accade agli agricoltori: quando vedono che un terreno produce erbe abbondanti sebbene inutili, lo giudicano adatto ai cereali; se vedono la felce, pur sapendo che va sradicata, capiscono che il luogo è adeguato a vigneti vigorosi; quando notano un colle rigoglioso di oleastri, non dubitano che, coltivato, diverrà buono per gli olivi. Così quel moto dell'animo con cui Mosè, pur senza averne l'autorità, non tollerò che un suo fratello straniero ingiuriato da un cittadino malvagio rimanesse senza vendetta, non era inutile dal punto di vista dei frutti della virtù: egli, ancora incolto, generava certo frutti viziosi, segni però di una grande fertilità. Infine, colui che per mezzo del suo angelo con parole divine chiamò Mosè sul monte Sinai per liberare attraverso di lui il popolo di Israele dall'Egitto, e lo preparò al frutto dell'obbedienza con il prodigio della visione del roveto che ardeva senza consumarsi e con la parola del Signore 201, è lo stesso che ha chiamato dal cielo Saulo che perseguitava la Chiesa e che lo ha abbattuto, sollevato, colmato, quasi che lo abbia colpito, potato, innestato, fecondato 202. Infatti la ferocia con cui Paolo, ad emulazione delle tradizioni dei suoi padri, perseguitava la Chiesa 203, credendo di servire Dio, era come un vizio selvatico, indizio però di grande fecondità. Stessa cosa per Pietro, quando volendo difendere il Signore sguainò la spada e tagliò un orecchio al persecutore: azione che il Signore gli rimproverò con tono piuttosto minaccioso dicendo: Rimetti la spada nel fodero, perché chi mette mano alla spada perirà di spada 204. Si serve della spada chi, senza che un'autorità superiore glielo ordini o glielo permetta, si arma per spargere il sangue di qualcuno. Il Signore infatti aveva certo ordinato ai discepoli di portare la spada, ma non aveva loro ordinato di ferire con essa. Cosa c'è dunque di strano se Pietro dopo questo peccato fu costituito pastore della Chiesa, così come Mosè dopo aver colpito l'Egiziano fu costituito capo della Sinagoga? Ciascuno dei due, infatti, oltrepassò i limiti della giustizia non per una crudeltà esecrabile, ma per un'animosità emendabile, e ciascuno peccò per odio verso la malvagità altrui e per amore, sebbene ancora carnale, l'uno verso il fratello, l'altro verso il Signore. Questo vizio va reciso e sradicato: tuttavia un cuore grande va coltivato perché produca le virtù, come la terra i frutti.

La spoliazione degli Egiziani: Mosè obbedì al comando di Dio.

71. Cosa dunque obietta Fausto in merito alla spoliazione degli Egiziani, senza sapere quel che dice? Compiendola, Mosè a tal punto non peccò, che avrebbe peccato non compiendola 205. L'aveva infatti ordinata Dio, che sa ciò che ciascun uomo debba patire e per mezzo di chi, in base non solo alle sue azioni, ma anche al suo cuore. Certo quel popolo era ancora carnale e posseduto dalla cupidigia delle cose terrene, ma gli Egiziani erano sacrileghi e iniqui; infatti usando male di quell'oro, cioè di una creatura di Dio, per ingiuriare il Creatore, servivano i propri idoli e vessavano ingiustamente e duramente uomini stranieri facendoli lavorare senza mercede. Dunque gli uni erano degni di ricevere quell'ordine, gli altri di subirlo. E forse gli Ebrei, più che ricevere un ordine, furono lasciati liberi di agire secondo la loro volontà e i loro desideri; Dio volle però far conoscere loro il suo permesso attraverso il suo servo Mosè, quando gli comandò di annunziarlo. Può anche darsi che esistano altre cause occultissime per cui Dio lo abbia detto a quel popolo: ma ai comandi di Dio si deve cedere obbedendo, e non resistere discutendo. L'Apostolo disse: Chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere 206? Quindi, quanto al fatto che Dio disse al popolo per mezzo di Mosè che chiedessero agli Egiziani ciò di cui avevano bisogno per portarlo con sé, che la causa sia quella che ho detto, oppure qualunque altra nascosta nei piani segreti e reconditi di Dio, tuttavia confermo che ciò non fu detto né invano né iniquamente, e che non sarebbe stato lecito a Mosè fare altrimenti da come Dio aveva detto: così che al Signore spettò la decisione di comandare e al servo l'obbligo di eseguire.

Il Dio vero e buono ordina o permette qualcosa sempre con somma giustizia.

72. " Ma in nessun modo si deve credere - dice - che il Dio vero e buono abbia ordinato tali cose ". Al contrario: cose simili non le ordina con diritto se non il Dio vero e buono, l'unico a conoscere ciò che si deve ordinare a ciascuno, e l'unico a non permettere che alcuno patisca qualcosa di non congruo. Del resto, questa ignorante e falsa bontà del cuore umano contesterebbe anche Cristo, affinché gli empi non soffrano nulla per ordine del Dio buono, quando egli dirà agli angeli: Cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla. Egli tuttavia vietò questa stessa cosa ai servi che volevano compierla al momento non opportuno: Perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano 207. Dunque solo il Dio vero e buono sa cosa, quando, a chi e per mezzo di chi comanda o permette che qualcosa accada. Questa invece, che non è bontà umana, ma chiaramente falsità, avrebbe potuto anche contestare lo stesso Signore, quando accondiscese al malvagio desiderio dei demoni che desideravano e chiedevano di entrare nei porci 208, soprattutto perché i Manichei credono che non solo i porci, ma anche gli animali più piccoli e abbietti possiedano un'anima umana. Respinta e lasciata cadere questa assurdità, è tuttavia evidente che il Signore nostro Gesù Cristo, unico Figlio di Dio e pertanto egli stesso Dio vero e buono, accondiscese al desiderio dei demoni provocando la morte di una mandria altrui, la rovina di non importa quali esseri viventi e un grave danno per gli uomini. Ma chi sarebbe così folle da dire che non li avrebbe potuti cacciare dagli uomini anche senza garantire alla loro malvagia volontà la morte dei porci? Dunque, se il desiderio di spiriti dannati e già destinati al fuoco eterno, per quanto crudele e iniquo, fu dal creatore e ordinatore di tutti gli esseri, con una ragione certo occulta ma completamente giusta, condotto là dove inclinava, che c'è di assurdo se gli Egiziani, dominatori iniqui, meritarono di essere privati dei beni terreni, usati nel culto sacrilego a ingiuria del creatore, per mano degli Ebrei, uomini liberi ai quali erano debitori anche della mercede di un lavoro tanto duro e ingiusto? Tuttavia, se Mosè avesse ordinato ciò di sua iniziativa, o di loro iniziativa gli Ebrei lo avessero compiuto, avrebbero senz'altro peccato: sebbene forse peccarono, non perché fecero ciò che Dio aveva ordinato o permesso, ma perché concupirono quei beni. Comunque, fu loro permesso di farlo per divino disegno, per il giudizio e la bontà di colui che sa reprimere con le pene i malvagi e istruire i sottomessi, dare precetti superiori ai più sani e disporre appropriati gradi medicinali per i più deboli. Mosè però non può essere accusato né di cupidigia, come se avesse desiderato quei beni, né di riottosità, come se avesse disprezzato qualcuno degli ordini divini.

Mosè, come già Abramo, non fu temerario, ma obbediente.

73. La legge eterna che ordina di preservare l'ordine naturale e vieta di alterarlo ha collocato per gli uomini alcune azioni quasi in un punto medio, affinché la sfrontatezza nell'usurparle venga meritatamente redarguita e l'obbedienza nell'eseguirle giustamente lodata. A tal punto, nell'ordine naturale, è importante quale azione si compia, e sotto quale autorità. Se Abramo avesse immolato il figlio di sua volontà, cosa sarebbe stato, se non un uomo orribile e folle? Se invece fu Dio a ordinarglielo, cosa fu se non un uomo fedele e devoto 209? La verità stessa proclama ciò a tal punto che Fausto, terrorizzato dalla sua voce, pur giungendo sino alla menzogna calunniosa nel cercare con le unghie e coi denti cosa dire contro Abramo, non ha tuttavia osato rimproverarglielo: a meno che non si sia dimenticato di questa azione, così famosa che dovrebbe venirgli in mente anche senza leggerla o ricercarla, e che essendo cantata in tante lingue e dipinta in tanti luoghi ferirebbe gli orecchi e gli occhi che volessero nasconderla. Pertanto, se l'uccidere un figlio è esecrabile come moto spontaneo, quando invece è compiuto da un servo in obbedienza a un ordine di Dio non solo non è colpevole, ma è anche lodevole: perché, Fausto, rimproveri a Mosè di aver spogliato gli Egiziani dei loro beni? Se ti irrita la presunta umana malvagità di chi fece questo, ti atterrisca l'autorità divina di chi lo ordinò! Oppure sei pronto a insultare Dio stesso che voleva tali cose? Lungi da me, Satana, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini 210. Magari tu fossi degno come Pietro di udire queste parole, e predicassi poi quello che con mente malata rimproveri a Dio, allo stesso modo in cui egli in seguito proclamò alle genti con annunzio glorioso ciò che prima, quando il Signore voleva che accadesse, gli dispiaceva!

Le guerre intraprese da Mosè: un'obbedienza al Dio giusto.

74. Se dunque, alla fine, l'umana durezza e la volontà malvagia e pervertita nella rettitudine comprende che c'è una grande differenza tra l'ammettere qualcosa per umana cupidigia o temerarietà e l'obbedire a un comando di Dio, il quale sa cosa, quando, a chi permettere o ordinare, e cosa sia conveniente per ciascuno fare o subire, non si meravigli o si scandalizzi delle guerre intraprese da Mosè, poiché seguendo in esse i comandi divini egli non fu crudele ma obbediente, né Dio nell'ordinarle era crudele, bensì ripagava chi meritava secondo i suoi meriti e intimoriva i degni. Cosa infatti si biasima nella guerra? Forse il fatto che muoiano quelli che sono destinati a morire, perché i destinati a vivere siano sottomessi nella pace? Obiettare questo è proprio dei paurosi, non dei religiosi. Il desiderio di nuocere, la crudeltà della vendetta, l'animo non placato e implacabile, la ferocia della ribellione, la brama di dominare e simili: è questo che a ragione si biasima nelle guerre. È soprattutto per punire a buon diritto simili cose che le guerre vengono intraprese dai buoni, per ordine di Dio o di qualche altro potere legittimo, contro la violenza di chi si oppone, quando essi vengono a trovarsi in una congiuntura delle umane vicende tale che la situazione stessa li costringe giustamente o a ordinare qualcosa di simile o ad eseguirlo. Altrimenti Giovanni, quando i soldati andavano da lui per farsi battezzare chiedendo: E noi che dobbiamo fare? avrebbe risposto: " Abbandonate le armi, disertate dal servizio militare, non colpite né ferite né abbattete nessuno "; ma sapendo che essi, quando compivano tali cose nella milizia, non erano omicidi ma servitori della legge, non vendicatori delle loro offese personali ma difensori della salvezza pubblica, rispose: Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe 211. Ma poiché i Manichei sono soliti oltraggiare apertamente Giovanni, ascoltino almeno lo stesso Signore Gesù Cristo, che ordina di dare a Cesare la paga che Giovanni dice deve bastare al soldato: Rendete, disse, a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio 212. Infatti i tributi si versano per fornire lo stipendio ai soldati, necessari a causa delle guerre. A ragione poi lodò la fede di quel centurione che diceva: Anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va', ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa 213, e non gli ordinò di disertare dalla milizia. Ma sarebbe lungo adesso discutere sulle guerre giuste e ingiuste, e non è necessario.

Guerre legittime.

75. Quello che ci interessa è per quali motivi e sotto quali autorità gli uomini intraprendano le guerre. Tuttavia, l'ordine naturale conformato affinché i mortali stiano nella pace esige che l'autorità e la decisione di intraprendere una guerra spettino al principe, e che i soldati debbano eseguire gli ordini di guerra a favore della pace e della salvezza comune. Invece, la guerra che si intraprende sotto l'autorità di Dio, non è lecito dubitare che sia intrapresa giustamente allo scopo di intimorire, distruggere o soggiogare la superbia dei mortali, dal momento che neppure quella che si fa per l'umana cupidigia può nuocere non solo al Dio incorruttibile, ma neppure ai suoi santi, ai quali piuttosto risulta utile per esercitare la pazienza, umiliare l'anima e sopportare la disciplina paterna. Nessuno infatti ha su di essi il potere, se non colui al quale fu dato dall'alto. Non esiste potere che non venga da Dio 214, sia che egli comandi sia che permetta. Dunque se un giusto, che si trovi a militare sotto un re umano magari sacrilego, può a buon diritto combattere ai suoi ordini per mantenere la pace e l'ordine civile (infatti, o è sicuro che l'ordine impartito non va contro il precetto di Dio o, al contrario, se ciò non è sicuro, così che talora l'iniquità dell'ordine rende colpevole il re, il dovere dell'obbedienza indica comunque che il soldato è innocente), a maggior ragione è totalmente innocente nell'occuparsi della guerra chi combatte per ordine di Dio il quale, come nessuno che lo serve ignora, non può ordinare nulla di cattivo.

Guerra legittima e martirio testimoniano entrambe il primato dell'unico vero Dio.

76. Se i Manichei pensano che Dio non abbia potuto ordinare di intraprendere una guerra perché in seguito il Signore Gesù Cristo disse: Io vi dico di non opporvi al male; anzi, se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche la sinistra 215, dovrebbero capire che questa disposizione non è nel corpo, ma nel cuore; lì infatti si trova la santa dimora della virtù, che abitava anche in quegli antichi giusti, nostri padri, ma l'ordine dei tempi richiedeva un andamento e uno svolgimento delle cose tale che in primo luogo apparisse che anche gli stessi beni terreni, che includono regni umani e vittorie sui nemici, per i quali soprattutto la città degli empi sparsa per il mondo suole supplicare gli idoli e i demoni, non ricadono se non sotto il potere e l'arbitrio dell'unico vero Dio. Per questo il Vecchio Testamento, mediante le sue promesse terrene, coprì e in qualche modo nascose con fitte ombre il segreto del regno dei cieli, che doveva essere rivelato al tempo opportuno. Ma quando venne la pienezza dei tempi, in cui si sarebbe rivelato il Testamento Nuovo, che era velato dalle figure del Vecchio, doveva ormai essere dimostrato con testimonianza evidente che c'è un'altra vita, per la quale si deve disprezzare questa vita, e un altro regno, per il quale conviene sopportare con ogni pazienza l'opposizione di tutti i regni terreni. Ecco perché coloro mediante le cui confessioni, passioni e morti piacque a Dio di testimoniare questo vengono chiamati Martiri, che in latino significa testimoni: fiorirono in così gran numero che, se Cristo che chiamò dal cielo Paolo e trasformatolo da lupo in pecora lo mandò in mezzo ai lupi 216, avesse voluto radunarli, armarli e sostenerli nel combattimento, così come aiutò i padri ebrei, quali Gentili avrebbero potuto resistere? Quali regni non avrebbero ceduto? Ma perché fosse data una testimonianza evidentissima alla verità, in nome della quale già si doveva insegnare che Dio va servito non per la felicità temporale in questa vita, ma per la felicità eterna dopo questa vita, si doveva subire e sopportare per quella felicità ciò che comunemente si chiama infelicità. E così nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio, nato da donna, nato sotto la legge per redimere quelli che stavano sotto la legge 217, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne 218, invia i suoi discepoli come pecore in mezzo ai lupi e li esorta a non avere paura di coloro che uccidono il corpo ma non possono uccidere l'anima, e promette anche la rinnovata integrità del corpo, fino al recupero anche di un solo capello 219; ordina a Pietro di riporre la spada nel fodero, ricostituisce nella forma precedente l'orecchio troncato del nemico, afferma che avrebbe potuto comandare a legioni di angeli di distruggere i nemici, se non fosse che doveva bere il calice che la volontà del Padre gli aveva preparato 220; lo beve egli per primo, lo dà a bere a quelli che lo seguono, col suo insegnamento rivela la virtù della pazienza, col suo esempio la conferma. Per questo Dio lo ha resuscitato dai morti e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù è il Signore, a gloria di Dio Padre 221. Pertanto i patriarchi e i profeti hanno regnato qui, per mostrare che è Dio a dare e a togliere questi regni, mentre gli apostoli e i martiri non hanno regnato qui, per svelare che si deve desiderare di più il regno dei cieli. Quelli, essendo re, fecero guerre, perché apparisse che anche tali vittorie erano ottenute per volere di Dio; questi, non offrendo resistenza, furono uccisi, per insegnare che essere uccisi per la fede nella verità è una vittoria ancora più grande. Tuttavia anche là i profeti sapevano morire per la verità, come dice il Signore stesso: Dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria 222, e dopo che cominciò a compiersi ciò che nella figura di Salomone (che in latino significa " Pacifico ") è profetizzato di Cristo Signore (è infatti lui la nostra pace 223) nel Salmo, cioè: A lui tutti i re della terra si prostreranno, lo serviranno tutte le nazioni 224, anche gli imperatori cristiani, riponendo in Cristo la piena fiducia che viene dalla pietà, ottennero una vittoria gloriosissima sui nemici sacrileghi che avevano riposto la loro speranza nel culto degli idoli e dei demoni. Questi furono ingannati dai vaticini dei demoni, quelli furono rafforzati dalle predizioni dei santi: secondo quanto affermano prove chiarissime e conosciutissime, che alcuni hanno già hanno affidato per iscritto alla memoria.

Non c'è contraddizione tra Vecchio e Nuovo Testamento circa guerra e virtù della pazienza.

77. Se poi a codesti sciocchi sembra strano che Dio comandò una cosa ai dispensatori dell'Antico Testamento, in cui veniva velata la grazia del Nuovo, e un'altra ai predicatori del Nuovo Testamento, in cui veniva svelata l'oscurità dell'Antico, osservino lo stesso Cristo Signore che cambia ciò che aveva detto e dice altro: Quando vi ho inviato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa? Risposero: Nulla. Ed egli soggiunse: Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Senza dubbio costoro, se leggessero queste due affermazioni diverse in ciascuno dei due Testamenti, l'Antico e il Nuovo, griderebbero che i due Testamenti si contraddicono. Che risponderanno dunque ora, quando il Signore stesso dice: Prima vi ho inviato senza borsa, né bisaccia, né sandali, e non vi è mancato nulla; ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una? Forse comprendono già come i precetti, i consigli o le promesse mutino non per l'incostanza di chi li impartisce, ma per la sapienza di chi li dispensa a seconda della diversità dei tempi? Se dicono che parlò di prendere borsa e bisaccia e di comprare una spada in ragione di un certo mistero, perché non ammettono che in ragione di un certo mistero il medesimo unico Dio ha ordinato allora ai profeti di fare guerre e lo ha proibito adesso agli apostoli? Infatti, nel passo del Vangelo che abbiamo ricordato non c'erano soltanto le parole del Signore, ma anche gli atti dei discepoli ad esse obbedienti che ne seguirono. Allora andarono senza borsa né bisaccia e nulla mancò loro, come ci hanno fatto intendere la sua domanda e la loro risposta. E ora, quando comandò di comprare una spada, gli dissero: Ecco qui due spade ed egli rispose: Basta. Per questo Pietro si trovava armato, quando tagliò l'orecchio del persecutore: in quel momento viene frenata la sua audacia spontanea 225, poiché non gli era stato ordinato di ferire con la spada, come invece gli era stato ordinato di prenderla. Rimaneva certamente nascosta la volontà del Signore, perché mai avesse loro ordinato di portare un'arma che non voleva che usassero. In ogni caso, a lui spettava di comandare con criterio, ad essi di eseguire i comandi senza reticenza.

Dio non è crudele, ma giusto e buono e dispone ogni cosa nell'ordine.

78. Dunque con calunniosa ignoranza si rimprovera a Mosè di aver fatto la guerra: egli che sarebbe meno colpevole se l'avesse fatta di sua iniziativa che se non l'avesse fatta essendo Dio ad ordinargliela. Inoltre, osare rimproverare Dio stesso che comandò tali cose o non credere che il Dio giusto e buono abbia potuto ordinarle si addice a un uomo che - per dirlo con gentilezza - non è capace di pensare che per la divina provvidenza, la quale si estende per tutte le cose, dalle più alte alle più basse, non è né nuovo ciò che nasce né perisce ciò che muore, ma ogni singola cosa nel suo proprio ordine, natura o merito che sia, cambia o succede o permane; e che la retta volontà degli uomini si uniforma alla legge divina, mentre il desiderio disordinato viene represso con l'ordine della legge, in modo che né il buono vuole altro rispetto a ciò che gli è comandato né il malvagio può più di quanto gli è permesso, così che non può compiere impunemente quel che vuole di contrario alla giustizia. Pertanto, fra tutte le cose che l'umana debolezza detesta o teme, solo l'iniquità è condannata con diritto: le altre sono o tributi da pagare alla natura o pene meritate per la colpa. L'uomo diventa iniquo quando ama per se stesse cose che devono essere accettate per un altro fine, e quando ama per un altro fine cose che devono essere accettate per se stesse. In tal modo, per quanto dipende da lui, perturba in sé l'ordine naturale che la legge eterna ordina di conservare. L'uomo invece diventa giusto quando non desidera usare le cose per altro scopo se non quello per cui esse sono state istituite, e desidera gioire di Dio stesso per Lui stesso, e di sé e dell'amico in Dio stesso e a motivo di Dio stesso. Infatti, chi ama nell'amico l'amore di Dio, ama l'amico a motivo di Dio. Né l'iniquità né l'ingiustizia sarebbero in nostro potere, se non fossero nella nostra volontà. Se non fossero in nostro potere, non ci sarebbe nessun premio né alcun giusto castigo: cosa sensata solo per chi sensato non è. Invece l'ignoranza e la debolezza, per le quali l'uomo o ignora ciò che deve volere o non può tutto ciò che vorrebbe, provengono da una occulta disposizione delle pene e dagli imperscrutabili giudizi di Dio, nel quale non c'è ingiustizia 226. La fedele parola di Dio, infatti, ci ha rivelato il peccato di Adamo, ed è verità quanto sta scritto, che tutti muoiono in lui e che per mezzo di lui il peccato è entrato in questo mondo e attraverso il peccato la morte 227. E che in conseguenza di questo castigo il corpo si corrompa e appesantisca l'anima, e l'abitazione terrena opprima la mente occupata in molti pensieri 228, è per noi qualcosa di estremamente vero e conosciuto, come è certo che da questa giusta pena non ci libera se non la grazia misericordiosa. Per questo l'Apostolo gemendo esclama: Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo Signore nostro 229. Ma il criterio con cui Dio distribuisca giustizia e misericordia, perché a uno dia così e a un altro così, dipende da cause misteriose, però giuste. Non ignoriamo tuttavia che tutto ciò accade per il giudizio o per la misericordia di Dio, sia pure secondo misure, numeri e pesi custoditi nel segreto: in base ad essi Dio, creatore di tutto, dispone tutte le realtà naturali e dà ordini 230, senza però esserne l'autore, anche ai peccati, in modo tale che le azioni che non sarebbero peccati se non fossero contro la natura sono giudicate e ordinate così da non permettere che turbino o deturpino la natura di tutto l'esistente, venendo assegnate a luoghi e condizioni corrispondenti ai loro meriti. Stando così le cose, e dal momento che, per la segretezza dei giudizi di Dio e i moti della umana volontà, la medesima prosperità corrompe alcuni ed è usata con temperanza da altri, e che nelle medesime avversità alcuni vengono meno e altri prosperano, e che la stessa vita umana e mortale è sulla terra una tentazione 231: quale uomo conosce a chi, in pace, sia vantaggioso o nocivo regnare o servire, stare ozioso o morire, e in guerra comandare o combattere, vincere o essere ucciso? Tuttavia è comunque evidente che chi è avvantaggiato non lo è se non per beneficio divino, e chi è danneggiato non lo è se non per giudizio divino.

Mosè colpì di spada i fabbricatori dell'idolo non per crudeltà, ma per amore.

79. A che pro dunque confutare accuse temerarie? Magari fossero rivolte agli uomini e non invece a Dio! Sia che i dispensatori del Vecchio Testamento e annunziatori del Nuovo abbiano servito uccidendo i peccatori, sia che i dispensatori del Nuovo Testamento e espositori del Vecchio abbiano servito morendo per mano dei peccatori, tuttavia gli uni e gli altri hanno servito Dio, il quale in tempi diversi e opportuni insegna che i beni temporali vanno a lui domandati e a causa sua disprezzati, e che le molestie temporali possono essere da lui comandate e per lui devono essere sopportate. Cosa dunque Mosè compì o ordinò di tanto crudele, quando, pieno di santo zelo per il popolo a lui affidato e desideroso che fosse sottomesso all'unico vero Dio, avendo saputo che si era abbandonato a fabbricare e adorare un idolo e aveva prostituito la sua mente impudica ai demoni, si vendicò con la spada su pochi di loro che Dio stesso, che avevano offeso, nel suo profondo e segreto giudizio aveva voluto che venissero assaliti e abbattuti, e così produsse un salutare terrore al presente e sanzionò la regola per il futuro? Chi infatti non riconoscerà che egli fece quel che fece non per crudeltà, ma per grande amore, sentendo le parole che pronunziò pregando per il loro peccato: Se tu perdonassi il loro peccato! E se no, cancellami dal tuo libro 232? Chiunque paragoni con prudenza e pietà quella strage e questa preghiera, vede immediatamente con chiarezza che grande male sia per l'anima fornicare attraverso i simulacri dei demoni, quando tanto si adira chi tanto ama. Ugualmente anche l'Apostolo non per crudeltà, ma per amore, consegnò un uomo a Satana per la morte della sua carne, affinché lo spirito fosse salvo nel giorno del Signore Gesù 233. Consegnò anche altri, perché imparassero a non bestemmiare 234. I Manichei leggono degli scritti apocrifi, composti sotto il nome degli apostoli da non so quali cucitori di favole: opere che al tempo di quelli che le scrissero avrebbero meritato di essere accolte in seno all'autorità della santa Chiesa, se gli uomini santi e dotti che erano ancora in vita e potevano esaminarle avessero riconosciuto che essi dicevano la verità. Comunque, lì leggono che l'apostolo Tommaso, trovandosi come forestiero e senza essere riconosciuto ad un convito di nozze, fu percosso con la mano da un servo e invocò su quell'uomo una vendetta duratura e crudele. Infatti, quando quegli uscì e si recò alla fontana per servire acqua agli invitati, un leone lo assalì e lo uccise e la mano con cui aveva colpito leggermente il capo dell'apostolo, staccata dal corpo, fu portata nella sala da pranzo da un cane, secondo il desiderio e l'imprecazione dell'apostolo stesso. Può vedersi crudeltà più grande? Ma poiché, se non mi inganno, c'è anche scritto che l'apostolo chiese per quell'uomo il perdono nel secolo futuro, ecco che ci fu il compenso di un beneficio maggiore: cosicché attraverso quell'atto terribile si indicò agli sconosciuti quanto l'apostolo fosse caro a Dio e si provvide a quell'uomo per l'eternità, dopo questa vita che ad un certo punto deve finire. Se questo racconto sia vero o falso, ora non mi interessa. Certamente i Manichei, che accettano come autentiche e veritiere quelle scritture che il canone ecclesiastico ha respinto, almeno qui sono costretti a riconoscere che la virtù della pazienza, che il Signore insegna dicendo: Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche la sinistra 235, può trovarsi nella disposizione del cuore, sebbene non si manifesti in un gesto del corpo e in un'espressione di parole, giacché l'Apostolo, quando fu percosso con la mano, preferì pregare Dio affinché nel secolo futuro perdonasse quell'uomo oltraggioso ma nel presente non lasciasse invendicata l'ingiuria, piuttosto che porgere l'altra guancia a chi lo colpiva o incitarlo a colpire una seconda volta. Egli senza dubbio possedeva all'interno un sentimento di amore, e all'esterno domandava l'esempio della correzione. Che ciò sia vero o inventato, perché mai non vogliono credere che il servo di Dio Mosè abbia abbattuto con la spada i fabbricanti e gli adoratori dell'idolo animato da un'analoga disposizione interiore, dal momento che nelle sue parole è ben evidente che implorò il perdono di quel peccato al punto da chiedere di essere cancellato dal libro di Dio se non lo avesse ottenuto? E che somiglianza c'è tra il colpire con la mano un uomo sconosciuto e l'abbandonare e disprezzare, preferendogli un idolo, il Dio che li aveva liberati dalla schiavitù dell'Egitto facendoli attraversare il mare diviso, e aveva sommerso con le onde i nemici inseguitori? Se poi paragoniamo i castighi, in cosa si assomigliano il perire di spada e l'essere trucidati e dilaniati dalle fiere, dal momento che i giudici che sono al servizio delle pubbliche leggi ordinano che i rei di maggior crimine vengano esposti alle bestie piuttosto che uccisi con la spada?

Il profeta Osea e la prostituta.

80. Fra i rimproveri calunniosi e sacrileghi di Fausto, ai quali sto ora rispondendo, resta il fatto che Dio parlando al profeta Osea gli disse: Prendi in moglie una prostituta e genera figli da lei 236. Davanti a questo testo il loro cuore immondo è così accecato che non comprendono neppure le parole chiarissime che il Signore disse ai Giudei: Le prostitute e i pubblicani vi passeranno avanti nel regno dei cieli 237. Infatti, cosa c'è di contrario alla clemenza della verità, di avverso alla fede cristiana, se una meretrice, abbandonata la fornicazione, si trasforma in una moglie casta? E cosa di più incongruente o estraneo rispetto alla fede del profeta, che il non credere che tutti i peccati di quella impudica, cambiata in meglio, sarebbero stati perdonati? Quando dunque il profeta prese in moglie una prostituta, si provvide che la donna potesse correggere la sua vita, e insieme si espresse la figura di un mistero di cui poi parleremo. Ma chi non vede l'elemento che, in questo fatto, va piuttosto a colpire l'errore dei Manichei? Le meretrici, infatti, sogliono darsi da fare per non rimanere incinte. Quindi per essi era preferibile che la prostituta rimanesse nella sua condotta per non incatenare il loro dio, piuttosto che divenisse moglie di un solo uomo per generare dei figli.

I peccati di Salomone

81. E che dire di Salomone, se non che egli riceve rimproveri più gravi dalla testimonianza della stessa Scrittura santa e fedele che dalle ingiurie petulanti e impertinenti di Fausto? Quella infatti ha detto di lui, con verità e fedeltà, sia il bene che aveva posseduto prima sia il male compiendo il quale aveva abbandonato il bene precedente 238; costui invece, con occhi chiusi o meglio spenti, non andava dove lo conduceva la luce che gli si manifestava, ma precipitava dove lo spingeva la malvagità che lo trascinava. I libri santi, infatti, suggerirono ai lettori religiosi e che li amavano quale fosse la castità con cui quegli uomini santi presero più mogli proprio attraverso il fatto che Salomone, il quale non le prese in quel modo, bensì più per goderne che per procreare, fu rimproverato e redarguito al punto che la verità che non fa preferenze di persone lo chiamò donnaiolo e svelò come a partire da lì egli cadde e fu sommerso nell'abisso dell'idolatria.

Significato profetico delle azioni dei Patriarchi.

82. Dopo aver passato in rassegna tutti i personaggi per i quali Fausto ritenne che le Scritture del Vecchio Testamento debbano essere colpevolizzate, e aver dedicato a ciascuno un discorso opportuno, col quale abbiamo difeso gli uomini di Dio dalle calunnie di eretici e carnali oppure, rimproverando gli uomini, abbiamo tuttavia dimostrato che la Scrittura è lodevole e venerabile, vediamo adesso, in base all'ordine con cui Fausto ha ricordato tali uomini nell'accusarli, che cosa significhino le loro azioni, cosa profetizzino, cosa preannunzino del futuro. Lo abbiamo già fatto per Abramo, Isacco e Giacobbe, dei quali Dio volle chiamarsi il Dio 239, come se fosse il Dio solo di essi, egli che è Dio di tutta la creazione: onore che a ragione tributò soltanto a quei tre, perché aveva riconosciuto in essi una carità sincera e autentica, cosa che egli solo poteva conoscere in modo perfetto e sommo, e perché in quei tre padri in qualche modo si compiva il grande e mirabile mistero del suo popolo futuro. Essi infatti attraverso donne libere generarono non solo per la libertà, come nel caso di Sara 240, Rebecca 241, Lia e Rachele 242, ma anche per la schiavitù, come nel caso in cui dalla stessa Rebecca nacque Esaù al quale fu detto: Servirai tuo fratello 243; e attraverso delle schiave non solo per la schiavitù, come nel caso di Agar 244, ma anche per la libertà, come nel caso di Bila e Zilpa 245. Allo stesso modo, infatti, anche nel popolo di Dio attraverso uomini spirituali nascono figli non solo per una libertà degna di lode, quelli ad esempio a cui viene detto: Fatevi miei imitatori come io lo sono di Cristo 246, ma anche per una servitù degna di condanna, come Simone attraverso Filippo 247; e attraverso servi carnali nascono figli non solo per una servitù degna di condanna, quelli cioè che li imitano, ma anche per una libertà degna di lode, quelli ai quali viene detto: Quanto vi dicono, fatelo, ma non fate secondo le loro opere 248. Chi nel popolo di Dio ha l'accortezza di riconoscere questo grande mistero, custodisce l'unità dello spirito nel vincolo della pace sino alla fine, unendosi agli uni e sopportando gli altri. La stessa cosa abbiamo fatto anche per Lot, evidenziando ciò che la Scrittura ha narrato di lodevole e di denigrabile in lui e ciò che ha indicato debba comprendersi come significato 249 di tutta quella sua vicenda.

Azioni cattive profezia di eventi buoni: Giuda e Tamar.

83. Dobbiamo ora riflettere sul significato futuro del fatto che Giuda giacque con sua nuora 250. Prima però bisogna premettere, per non offendere chi è debole nel comprendere, che nelle sacre Scritture alcune azioni cattive sono segno di un avvenimento futuro non cattivo, bensì buono. La divina provvidenza, infatti, conserva ovunque la forza della sua bontà: cosicché, come dall'unione di due adulteri si forma e nasce un uomo, ovvero da un'opera cattiva degli uomini ne viene una buona di Dio (a partire dalla fecondità del seme e non dalla turpitudine del vizio, come abbiamo già detto in un anteriore discorso 251), allo stesso modo nelle scritture profetiche, che narrano degli uomini non solo le azioni buone ma anche le cattive, poiché è la narrazione stessa ad essere profetica, un bene futuro è prefigurato da un'azione cattiva per opera non del peccatore, ma di chi scrive. Infatti Giuda, quando si recò da Tamar vinto dalla brama di possederla, non aveva nella sua dissolutezza l'intenzione di compiere quell'atto per significare qualcosa di attinente alla salvezza degli uomini, così come quel Giuda che tradì il Signore non intendeva affatto che da lì doveva venire qualcosa di attinente a quella medesima salvezza. Dunque, se dall'azione tanto malvagia di quel Giuda il Signore trasse un'azione tanto buona, fino al punto da redimerci col sangue della sua stessa passione, che c'è di strano se il suo profeta, del quale egli stesso dice: Di me egli ha scritto 252, con l'azione malvagia di questo Giuda volle significare qualcosa di buono, per ammaestrare noi col suo servizio? Il profeta narratore, per disposizione e ispirazione dello Spirito Santo, raccolse dunque quelle azioni umane il cui inserimento non era estraneo alla prefigurazione delle cose che intendeva profetizzare. Ora, perché possano essere significati dei beni, non ha importanza se i fatti che ne sono segno siano buoni o cattivi. Infatti, che mi importa, quando voglio apprendere qualcosa leggendo, se trovo scritto " i neri Etiopi " col minio e "i candidi Galli " col nero? Tuttavia, se vedessi una cosa simile non in uno scritto ma in una pittura, senza dubbio la criticherei. Così, riguardo alle azioni che vengono proposte allo scopo di imitarle o di evitarle, ha molta importanza se siano buone o cattive. Quelle invece che vengono scritte o dette perché siano un segno, non ha alcuna importanza se nei costumi di chi le compie meritino lode o biasimo, qualora possiedano la congruenza necessaria per prefigurare la cosa di cui si sta trattando. Così è per lo stesso Caifa nel Vangelo: per ciò che si riferiva al suo animo dannoso e pernicioso e soprattutto alle parole con cui, se consideri l'intenzione che ebbe nel pronunziarle, insisteva perché un giusto fosse ucciso ingiustamente, si trattava senza dubbio di mali; tuttavia, senza che lui lo sapesse, preannunziavano un grande bene, allorché disse: È meglio che muoia un solo uomo e non la nazione intera e di lui fu detto: Questo però non lo disse da se stesso, ma essendo sommo sacerdote profetizzò che bisognava che Gesù doveva morire per la nazione 253. Così l'azione di Giuda, dal punto di vista della sua lussuria, fu un male, ma senza che lui lo sapesse prefigurò un grande bene: da se stesso egli compì un male, e tuttavia, sia pur non da se stesso, fu segno di un bene. Questo, che ho ritenuto necessario dover premettere, non vale soltanto per l'azione di Giuda, ma anche per le altre eventuali azioni umane malvagie con cui il narratore abbia profetizzato un bene.

I mariti di Tamar prefigurano i re dalla tribù di Giuda.

84. Con Tamar dunque, nuora di Giuda, si intende il popolo del regno dei Giudei, al quale si erano uniti come mariti re provenienti dalla tribù di Giuda. A ragione il suo nome si traduce " Amarezza ", poiché fu quello stesso popolo a offrire al Signore la bevanda di fiele 254. Nei due figli di Giuda, dei quali uno era malvagio e crudele davanti al Signore e l'altro spargeva a terra il suo seme per non fecondare Tamar, sono significati due tipi di prìncipi che non agivano rettamente nei confronti del popolo: quelli che lo danneggiavano e quelli che non gli erano di utilità. Non esistono infatti più di due tipi di uomini inutili al genere umano: uno è quello di coloro che lo danneggiano, l'altro è quello di coloro che non vogliono donare il bene che possiedono in questa vita terrena e lo perdono, come riversandolo a terra. E poiché nel male è peggiore chi nuoce rispetto a chi non dà aiuto, per questo il figlio maggiore è detto " malvagio " e l'altro che spargeva il seme a terra " seguente ". Il nome del maggiore, chiamato Er, significa " di pelle ", come le tuniche che indossarono i primi uomini dopo essere stati cacciati dal paradiso in punizione per la loro condanna 255. Il nome di colui che lo seguiva, chiamato Onan, significa " loro tristezza ". Tristezza di chi, se non di coloro che, pur avendo qualcosa di cui giovarsi, non se ne giovano affatto e lo disperdono in terra? Ora, l'essere privati della vita, significato dalla " pelle ", è certo un male più grave che l'essere privati di aiuto, significato dalla " loro tristezza ". Tuttavia si dice che Dio li uccise entrambi: il che significa che tolse il regno a uomini simili. Invece il terzo figlio di Giuda, che non si unì a quella donna, sta a significare il tempo a partire dal quale i re del popolo dei Giudei cessarono di essere tratti dalla tribù di Giuda. Egli era senz'altro figlio di Giuda, ma Tamar non lo prendeva come marito, in quanto la tribù di Giuda esisteva ancora, ma ormai nessuno proveniente da essa regnava sul popolo. Per questo motivo il suo nome, Sela, si traduce " suo rinvio ". Non rientrano certo in questo significato gli uomini santi e giusti che, pur vivendo in quel tempo, appartengono tuttavia al nuovo Testamento, al quale furono coscientemente utili con la loro profezia, come Davide. Nell'epoca in cui la Giudea cominciava a non avere più re dalla tribù di Giuda, non va contato fra i suoi re, come marito di Tamar, Erode il grande. Egli era uno straniero e non era unito alla Giudea con il sacro segno della mistica unzione, sorta di patto coniugale, ma la dominava da estraneo: aveva ricevuto tale potere dai Romani e da Cesare. Così anche i suoi figli, i tetrarchi, uno dei quali, che aveva lo stesso nome del padre, Erode, si accordò con Pilato sulla passione del Signore 256. A tal punto questi stranieri non erano inclusi in quel mistico regno dei Giudei che i Giudei stessi, digrignando i denti contro Cristo, gridavano pubblicamente: Non abbiamo altro re all'infuori di Cesare 257. Ciò era vero solo in virtù dell'universale dominazione dei Romani, giacché neanche Cesare era propriamente re dei Giudei. Ma per negare Cristo e adulare lui, con tali parole condannarono se stessi.

Giuda e il pastore di Adullam: Cristo e Giovanni il Battista.

85. In quel tempo dunque, in cui il regno era ormai venuto meno alla tribù di Giuda, esso doveva venire a Cristo, vero Salvatore e Signore nostro, il quale non avrebbe nuociuto ma molto giovato. Così infatti era stato profetizzato: Non mancherà un principe da Giuda né un condottiero dai suoi lombi, finché venga colui al quale è stato promesso. È lui l'atteso dalle genti 258. In quest'epoca, secondo la profezia di Daniele, erano già scomparsi presso i Giudei ogni magistero e l'unzione mistica per cui venivano chiamati " Cristi ". Allora venne colui al quale ciò era stato destinato, l'atteso dalle genti, e fu unto come santo dei santi 259 con l'olio di letizia a preferenza di tutti i suoi pari 260. Nacque infatti al tempo di Erode il Grande 261, ma patì durante la tetrarchia di Erode il Minore 262. Lo stesso Giuda, quando andò a tosare le sue pecore a Timna, che si traduce " che viene meno ", fu figura di lui, che veniva per le pecore perdute della casa di Israele 263. Infatti era ormai venuto meno il principe da Giuda ed ogni magistero e unzione dei Giudei, affinché venisse colui al quale ciò era stato destinato. Giuda venne insieme al suo pastore di Adullam, di nome Chira: Adullamita si traduce " Testimonianza nell'acqua ". Il Signore certamente venne con questa testimonianza, e avendo senz'altro una testimonianza maggiore di quella di Giovanni 264: tuttavia, per riguardo alle pecore malate, si servì di questa testimonianza nell'acqua. Chira, il nome di quel pastore, si traduce " Visione di mio fratello ". Davvero Giovanni vide suo fratello, fratello secondo il seme di Abramo, secondo la parentela di Maria madre di lui e di Elisabetta madre sua, e suo stesso Signore e Dio, poiché come egli stesso dice, ricevette dalla pienezza di lui 265. Lo vide davvero, e per questo tra i nati di donna non ne sorse uno più grande di lui 266, poiché di tutti coloro che annunziarono Cristo egli solo vide ciò che molti giusti e profeti avevano desiderato vedere e non lo videro 267; lo salutò dal grembo materno 268, lo riconobbe più perfettamente dalla colomba e pertanto, quale Adullamita, gli rese testimonianza nell'acqua 269. Il Signore venne a tosare le pecore, cioè ad alleggerirle dai carichi gravosi: perché i denti della Chiesa lodata nel Cantico dei cantici fossero come un gregge di pecore tosate 270.

L'abito di Tamar: la confessione dei peccati.

86. Che Tamar cambi ormai il suo abito: infatti Tamar vuol dire anche " che cambia ". Ma le rimanga senz'altro il nome di " amarezza ": non quell'amarezza per cui offrì fiele al Signore, ma quella per cui Pietro pianse amaramente 271. Infatti Giuda in latino significa "Confessione ". L'amarezza si mescoli dunque alla confessione, a segnalare il vero pentimento. Da questo pentimento è fecondata la Chiesa, stabilita in tutti i popoli. Era opportuno che Cristo patisse e risuscitasse il terzo giorno e che nel suo nome fossero predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme 272. L'abito della prostituta è infatti la confessione dei peccati. Tamar, che siede con questo abito presso la porta di Enan o Enaim, che si traduce " fonti ", è il tipo della Chiesa composta dai gentili. Essa corre come un cervo alle fonti d'acqua per raggiungere il seme di Abramo: lì è fecondata da uno che non la riconosce, poiché è di lei che fu predetto: Un popolo che non conoscevo mi ha servito 273. Ricevette in segreto un anello con il sigillo, un cordone e un bastone: è segnata con la vocazione, adornata con la giustificazione, esaltata con la glorificazione. Quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati 274. Ma ciò, come ho detto, ancora nel segreto, laddove anche avviene il concepimento di una santa fecondità. Le viene poi inviato, come a una meretrice, il capretto promesso, il capretto rimprovero del peccato, attraverso lo stesso Adullamita che quasi grida e dice: Razza di vipere 275! Ma il rimprovero del peccato non trovò colei che l'amarezza della confessione aveva trasformato. In seguito, con le prove pubbliche dell'anello, del cordone e del bastone essa sconfisse i Giudei che temerariamente la giudicavano, impersonati dallo stesso Giuda, i quali anche oggi dicono che non è questo il popolo di Cristo e che noi non abbiamo il seme di Abramo; ma una volta che siano state addotte le certissime prove della nostra vocazione, giustificazione e glorificazione, resteranno senza dubbio confusi e ammetteranno che noi siamo più giustificati di loro. Potrei indagare e discutere questi argomenti più nel dettaglio, analiticamente e in qualche modo punto per punto, quanto a lungo il Signore volesse sostenere la mia intenzione: ma una simile trattazione più approfondita mi viene impedita dalla preoccupazione di terminare quest'opera, che si è già prolungata più di quel che volessi.

Significato profetico del peccato di Davide.

87. Ora sintetizzerò con la maggior concisione possibile il significato profetico del peccato di Davide 276. La stessa traduzione dei nomi ci indica a sufficienza di cosa questo fatto sia prefigurazione. Davide si traduce " forte di mano ", oppure " desiderabile ": e cosa c'è di più forte di quel leone della tribù di Giuda, che ha vinto il mondo 277? E di più desiderabile di colui del quale il profeta dice: Verrà il desiderato da tutte le genti 278? Bersabea si traduce " pozzo della sazietà " o " settimo pozzo ": qualunque di queste interpretazioni assumiamo, ben si adatta a ciò che intendiamo dire. Infatti anche nel Cantico dei Cantici la sposa è la Chiesa, che viene chiamata "Pozzo d'acqua viva 279 ". A questo pozzo viene aggiunto il numero sette a significare lo Spirito Santo, a motivo della Pentecoste, giorno in cui venne lo Spirito Santo mandato dal cielo 280. Quella festa infatti si compone di settimane, come attesta anche il libro di Tobia 281. A quarantanove, cioè sette volte sette, si aggiunge uno, che rappresenta l'unità. Su tale logica si fonda quella affermazione dell'Apostolo: Sopportandovi a vicenda, cercando con amore di conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace 282. Con un dono spirituale, cioè settenario, la Chiesa è stata trasformata in un pozzo di sazietà, poiché è stata creata in lei Una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna 283, chi berrà della quale Non avrà mai più sete 284. Quanto poi al marito di lei, cos'altro significa, a tradurne il nome, se non il diavolo? A lui erano stati avvinti con pessime nozze tutti coloro che la grazia di Dio libera perché la Chiesa, senza macchia né ruga, si unisca al suo Salvatore 285. Uria infatti si traduce " la mia luce è di Dio ". Hittita invece vuol dire " reciso ": o perché non è rimasto nella verità 286, ma si è separato per superbia dalla luce superiore che riceveva di Dio, o perché nella caduta, perdute le sue vere forze, si è trasformato in un angelo di luce 287, osando ancora dire " la mia luce è di Dio ". Davide dunque commise un peccato grave e criminoso: un crimine che Dio gli rimproverò a gran voce anche per mezzo del profeta, e che egli lavò con il pentimento. Nondimeno, il desiderato da tutte le genti amò la Chiesa che si lavava sopra il tetto, che cioè si mondava dalle sozzure del secolo e mediante la contemplazione spirituale trascendeva e calpestava la casa di fango, e avendo iniziato a conoscerla in un primo incontro, dopo aver separato completamente da lei il diavolo, lo uccise e si unì a lei con nozze eterne. Odiamo dunque il peccato, ma non estinguiamo la profezia: amiamo quanto si deve amare quel Davide che per misericordia ci ha liberato dal diavolo; amiamo anche questo Davide, che sanò in se stesso una così grave ferita dell'iniquità con l'umiltà del pentimento.

Eccellenza e rovina di Salomone: buoni e cattivi nell'unica Chiesa?

88. Che dire di Salomone? La sacra Scrittura lo rimprovera e lo condanna vigorosamente 288 e non fa alcuna menzione né di un suo pentimento né di un perdono concessogli da Dio. Io non riesco proprio a vedere che cosa di buono significhi, almeno nell'allegoria, questa sua deplorevole rovina. A meno che qualcuno non dica che le donne straniere del cui amore egli aveva bruciato stanno a significare le chiese scelte fra i Gentili. Non sarebbe forse assurdo intendere una cosa simile, se quelle a motivo di Salomone avessero abbandonato i loro dèi e adorato il Dio di lui: ma poiché fu lui ad offendere il proprio Dio a causa di quelle e ad adorare i loro dèi, non possiamo congetturare da lì nulla di buono. Non credo tuttavia che non vi sia significato alcuno, ma piuttosto che il significato sia negativo, come abbiamo detto a proposito della moglie e delle figlie di Lot. Nella persona di Salomone infatti si evidenziano una straordinaria eccellenza e una straordinaria rovina. Ciò che in lui avviene in diversi momenti, il primo positivo e il secondo negativo, si mostra simultaneamente in un unico momento nella Chiesa che è ancora in questo secolo. Infatti ritengo che con il positivo di lui siano significati i buoni della Chiesa e con il negativo i cattivi della Chiesa: allo stesso modo che in un'unica aia, come unico è quell'uomo, i buoni sono rappresentati dal grano e i cattivi dalla pula, e in un unico raccolto i buoni lo sono dal frumento e i cattivi dalla zizzania 289. Forse, una volta esaminate con più attenzione le cose che di lui sono state scritte, potrebbe rivelarsi a me o a coloro che in questo sono più dotti e migliori di me qualcos'altro di più probabile: per ora tuttavia congediamo così la questione, in modo che una serie di interruzioni del discorso non ci ostacoli nell'intenzione di passare velocemente ad altro.

La vita di Osea, profezia dell'elezione dei Gentili.

89. Riguardo al profeta Osea, non è necessario che io dica cosa significa l'ordine o l'azione che il Signore gli comandò: Va', prenditi in moglie una prostituta e abbi figli di prostituzione, in quanto la Scrittura stessa spiega a sufficienza perché e a che scopo ciò sia stato detto. Segue infatti: " Perché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore ". Egli andò a prendere Gomer, figlia di Diblaim: essa concepì e gli partorì un figlio. E il Signore gli disse: " Chiamalo Izreel, perché tra poco vendicherò il sangue di Izreel sulla casa di Giuda e farò cessare e distruggerò il regno della casa di Israele. In quel giorno io spezzerò l'arco di Israele nella valle di Izreel ". Ed ella concepì di nuovo e partorì una figlia e il Signore disse a Osea: Chiamala "Non-amata ", poiché non avrò più misericordia della casa di Israele, mi dimenticherò di loro. Avrò invece misericordia della casa di Giuda e saranno salvati dal Signore loro Dio; non li salverò con l'arco, con la spada, con la guerra, né con cavalli e cavalieri. E svezzò " Non-amata " e concepì e partorì un figlio. E il Signore disse a Osea: Chiamalo "Non-mio-popolo ", perché voi non siete il mio popolo e io non sarò il vostro Dio. Il numero dei figli di Israele sarà come la sabbia del mare, che non si può misurare né contare. E invece di sentirsi dire: " Non siete mio popolo ", saranno chiamati " figli del Dio vivente ". I figli di Giuda e i figli di Israele si riuniranno insieme, si daranno un unico capo e saliranno dal proprio territorio, perché grande sarà il giorno di Izreel! Dite ai vostri fratelli " Popolo mio " e a vostra sorella " Colei che è stata amata " 290. Se dunque il Signore stesso ci spiega con chiarezza mediante la Scrittura di cosa siano figura l'ordine e l'azione di costui, e gli scritti apostolici ci testimoniano che questa profezia si è compiuta con la predicazione del Nuovo Testamento, chi oserà dire che quell'azione fu ordinata e compiuta per motivi diversi da quelli per cui, nella sacra Scrittura, colui stesso che la ordinò afferma di averla ordinata e che il profeta la compì? Dice infatti l'apostolo Paolo: Per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso vasi di misericordia, da lui predisposti alla gloria; cioè verso di noi, che egli ha chiamati non solo tra i Giudei ma anche tra i Gentili. Esattamente come dice Osea: Chiamerò " popolo mio " quello che non era mio popolo, e "mia diletta " quella che non era diletta, e avverrà che nel luogo stesso dove fu detto loro: " voi non siete mio popolo ", là saranno chiamati "figli del Dio vivente " 291. Paolo dunque mostra che ciò fu profetizzato a proposito dei Gentili. Per questo anche Pietro, quando scrive ai Gentili, pur non menzionando il profeta ne inserisce la profezia nelle proprie parole dicendo: Ma voi siete la stirpe scelta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo acquistato perché proclami le opere meravigliose di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate " non popolo ", ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia 292. Da qui appare evidente che ciò che fu detto tramite il profeta: Il numero dei figli di Israele sarà come la sabbia del mare, che non si può misurare né contare e quanto di seguito fu aggiunto: E invece di sentirsi dire: " Non siete mio popolo ", saranno chiamati " figli del Dio vivente " non fu affatto detto dell'Israele che è secondo la carne, ma di quello di cui l'Apostolo dice ai Gentili: Siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa 293. Ma poiché molti credettero e avrebbero creduto anche da quella Giudea (da lì infatti provenivano gli apostoli stessi, da lì le migliaia che in Gerusalemme si unirono agli apostoli 294, da lì le chiese di cui dice ai Galati: Ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo 295: dal che si intende che nei Salmi il Signore viene chiamato pietra angolare 296 per il fatto che congiunse in se stesso due pareti, cioè quella della circoncisione e quella del prepuzio: Per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, distruggendo in se stesso l'inimicizia per mezzo della croce e venendo ad annunziare pace ai lontani e ai vicini, cioè ai Gentili lontani e ai Giudei vicini; Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo 297), giustamente questo profeta, designando i Giudei con i figli di Giuda e i gentili con i figli di Israele, disse: I figli di Giuda e i figli di Israele si riuniranno insieme, si daranno un unico capo e saliranno dal proprio territorio. Chi dunque contraddice questa profezia, dimostrata così evidentemente dallo stesso svolgersi dei fatti, contraddice con somma impudenza gli scritti non solo profetici, ma anche apostolici, e non solo degli scritti, qualunque essi siano, ma anche delle cose venute a compimento e pervase di luce chiarissima. Forse l'azione di Giuda avrebbe richiesto una maggiore attenzione, per poter riconoscere nelle vesti della donna chiamata Tamar la prostituta che raffigura la Chiesa raccolta dalla prostituzione delle superstizioni dei Gentili: ma dato che qui la Scrittura si esplica da sé e viene chiarita dai testi concordanti degli apostoli, perché indugiare ancora su questo punto, e non esaminare ormai ciò che resta a proposito del servo di Dio Mosè e cosa significhino le azioni che Fausto gli rimprovera?

Mosè che uccise l'Egiziano: Cristo che sconfisse il diavolo.

90. Nel fatto che Mosè per difendere un fratello uccise un Egiziano, ci viene alla mente con estrema facilità che Cristo Signore, prendendo le nostre difese, uccise il diavolo che ci ingiuria in questa peregrinazione. Nel fatto poi che coprì il morto di sabbia 298, si chiarisce che la presenza già morta del diavolo si nasconde in coloro che non hanno un fondamento stabile. Per questo il Signore edifica la Chiesa sulla roccia e paragona quelli che ascoltano le sue parole e le mettono in pratica a un uomo saggio, che costruisce la sua casa sulla roccia perché non ceda alle prove e crolli; quelli invece che ascoltano e non mettono in pratica, li paragona a uno stolto che edifica sulla sabbia, la cui casa, sottoposta alle prove, va incontro a una grande rovina 299.

I beni sottratti agli Egiziani: i Gentili che si uniscono al popolo di Dio, o le loro utili dottrine.

91. Cosa abbia prefigurato il fatto che spogliò gli Egiziani per ordine del Signore suo Dio 300, il quale nulla ordina che non sia sommamente giusto, mi ricordo di averlo già esposto per quanto allora mi occorse in alcuni libri intitolati De doctrina christiana nell'oro, nell'argento e nelle vesti degli Egiziani sono simboleggiate alcune dottrine che, nella frequentazione stessa dei Gentili, si apprendono con non inutile profitto. Che il significato sia questo, oppure si intenda che anime preziose provenienti dai Gentili stessi, come vasi d'oro e d'argento, con i loro corpi - indicati dalle vesti - si uniscono al popolo di Dio, per essere contemporaneamente liberate da questo mondo come dall'Egitto: sia che qui sia stato prefigurato questo o quello o un'altra cosa ancora, è tuttavia certo, per coloro che leggono con pietà questi testi, che tali azioni furono ordinate, compiute e scritte non invano, né senza valore di preannunzio del futuro.

L'uccisione dei fabbricatori del vitello d'oro ordinata da Mosè significa la condanna dell'idolatria.

92. Quanto alle guerre intraprese da Mosè, sarebbe troppo lungo considerarle tutte. Basti dunque ciò che in questa stessa opera con cui rispondo a Fausto ho già precedentemente esposto, per quel che mi sembrava sufficiente all'argomento, a proposito della guerra con Amalek 301: quale fosse il suo significato profetico e il mistero in essa contenuto. Vediamo ora l'azione per cui costoro, nemici di queste Scritture o ignoranti di qualunque opera letteraria, sono soliti imputare a Mosè il peccato di crudeltà: azione che Fausto non ha citato espressamente, quando sosteneva che Mosè comandò e compì molte crudeltà. Ma poiché so che si tratta dell'accusa principale che, nella loro invidia, hanno l'abitudine di scagliare, io stesso l'ho menzionata e difesa più sopra, affinché i Manichei stessi che vogliano correggersi, o qualunque ignorante o empio, non pensino che in quell'azione è contenuto un crimine. Ora però bisogna anche indagare quale significato profetico ebbe il fatto che Mosè ordinò di uccidere, senza alcuna distinzione riguardo ai rapporti di parentela, molti di quelli che in sua assenza avevano fabbricato l'idolo 302. È facile comprendere che l'eliminazione degli uomini sta a significare quella di vizi analoghi a quelli per cui essi si abbandonarono all'idolatria. Contro tali vizi il Salmo ci ordina senz'altro di infierire, quando dice: Adiratevi e non peccate 303. Contro tali vizi ci ordina di infierire l'Apostolo, quando dice: Mortificate quella parte di voi che appartiene alla terra: fornicazione, impurità, lussuria, desideri cattivi e quell'avarizia che è idolatria 304.

Mosè distrugge il vitello d'oro: Cristo libera i Gentili dall'idolatria.

93. Indagare il significato dell'azione che compì prima, quando bruciò il vitello nel fuoco, lo ridusse in cenere, lo sparse nell'acqua e lo diede da bere al popolo, richiede però una maggiore attenzione. Infatti, se pure spezzò le tavole che aveva ricevuto, scritte dal dito di Dio, cioè per opera dello Spirito Santo, poiché giudicò indegni coloro ai quali le aveva lette; se pure, per farlo scomparire del tutto dalla loro presenza, bruciò quel vitello, lo frantumò, lo sparse e lo sommerse nell'acqua, a quale scopo lo dette anche da bere al popolo? Chi non sarebbe incitato da questo fatto a ricercarne e a comprenderne il significato profetico? Nel vitello già si affaccia alle menti attente il corpo del diavolo, cioè gli uomini di tutti i popoli gentili che, in tali atti sacrileghi, hanno per capo, cioè per ispiratore, il diavolo; esso è d'oro, perché i riti dell'idolatria appaiono come istituiti da saggi, dei quali l'Apostolo dice: Perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell'incorruttibile Dio con l'immagine e la figura dell'uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili 305. Da tale apparenza di saggezza deriva questo vitello d'oro, simile alle figure che solevano adorare gli stessi uomini illustri degli Egiziani e, per così dire, i loro saggi. Questo vitello sta a significare tutto il corpo, cioè l'intera società dei Gentili dediti all'idolatria. Cristo Signore brucia questa società sacrilega con quel fuoco di cui dice nel Vangelo: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra 306: affinché, dato che non c'è nessuno che possa nascondersi al suo calore 307, quando i gentili credono in lui la forma diabolica sia dissolta in essi dal fuoco della sua potenza. Poi l'intero corpo viene sminuzzato, cioè viene umiliato dalla parola di verità dopo essere stato smembrato tramite la dissoluzione della sua unità malvagia, e sminuzzato viene messo nell'acqua, affinché gli Israeliti, cioè i predicatori del Vangelo, mediante il battesimo trasformino i Gentili in proprie membra, cioè nel corpo del Signore. A proposito di questi Gentili, fu detto a Pietro, uno di questi Israeliti: Uccidi e mangia 308. Se fu detto: Uccidi e mangia, perché non anche "Tritura e bevi "? Così quel vitello, per mezzo del fuoco dello zelo, del filo tagliente della parola e dell'acqua del battesimo fu assorbito da quelli stessi che tentava di assorbire.

Tutto il complesso dei libri profetici preannunzia Cristo.

94. Se dunque anche questi passi delle Scritture, a partire dai quali gli eretici calunniano le Scritture stesse, esaminati e in certo modo sottoposti a interrogatorio rispondono di nascondere in sé tesori di misteri tanto più mirabili quanto più ci appaiono oscuri, con che maggior ragione le bocche blasfeme degli empi dovrebbero tacere del tutto, quando vengono serrate dalla evidentissima verità, contro la quale, soffocato lo spirito, essi non sanno più che mormorare, preferendo, i disgraziati, avere le fauci occluse dalla sua manifestazione anziché i cuori riempiti dalla sua dolcezza! Tutte queste cose gridano Cristo: tutto l'impegno di coloro che scrissero i testi autenticamente sacri è stato rivolto a partorire quel capo, che è già asceso al cielo, e questo suo corpo, che sino alla fine si affatica in terra, né si deve credere che nel tessuto dei libri profetici sia narrato qualcosa che non rimandi a un evento futuro, fatta eccezione per gli elementi il cui scopo è legare insieme ciò che quel re e il popolo suo preannunciano con espressioni sia proprie sia figurate oppure con cose. Come infatti nella cetra e in analoghi strumenti musicali non tutto ciò che viene toccato produce un che di sonoro, ma soltanto le corde, mentre gli altri elementi dell'intero corpo della cetra sono costruiti in modo che vi sia un luogo in cui siano legate e dal quale e verso il quale siano tese le corde stesse, che l'artista andrà a modulare e a pizzicare per trarne una dolce musica, così in quei racconti profetici le azioni umane, scelte dallo spirito profetico, o già suonano del significato di eventi futuri oppure, se tale significato non hanno, sono introdotte affinché vi sia ciò che connette quelle che tale significato possiedono, come fossero corde che risuonano.

I Manichei accettino che le vicende dei Patriarchi possiedono anche un senso figurato.

95. Se però gli eretici non vogliono accettare il senso allegorico di questi fatti, così come noi lo esponiamo, e anzi pretendono che essi non abbiano alcun significato se non quello letterale, non si deve lottare con uomini che dicono: " Per il mio palato non ha sapore ciò che, a tuo dire, ne ha per il tuo ". Purché tuttavia si creda o si intenda, o ambedue le cose piuttosto che nessuna, che quanto è prescritto da Dio o forma i costumi e la pietà o possiede un senso figurato; e purché anche le cose stesse che si intendono dette o fatte in senso figurato si riferiscano ai medesimi buoni costumi e alla pietà. Perciò, se anche ai Manichei o a chiunque altro non aggrada il nostro modo di intendere, la logica o l'opinione nostra su quanto figurato in questi fatti, ci basti il fatto che i nostri padri, ai quali Dio rende la testimonianza di una vita buona e dell'obbedienza ai suoi comandamenti, sono difesi con quella regola della verità che non può dispiacere se non a cuori malvagi e distorti, e che questa Scrittura, della quale è nemica la perversità di quell'errore, resta esente da colpa e degna di venerazione in tutte le azioni umane che essa ha lodato o biasimato o solamente narrato proponendole al nostro giudizio.

Le vicende dei Patriarchi: insegnamento morale, ma anche valore profetico.

96. Del resto, cosa si potrebbe considerare e trovare di più utile e di più salutare, per coloro che leggono o ascoltano con pietà le sacre Scritture, del fatto che in esse vengano proposti non solo uomini lodevoli perché siano imitati e uomini reprensibili perché siano evitati, ma anche alcune inclinazioni e cadute dei buoni verso il male, sia che di lì essi riprendano il cammino una volta corretti, sia che vi permangano senza tornare indietro, oppure alcuni cambiamenti e progressi dei malvagi verso il bene, sia che vi abbiano a perseverare sia che siano destinati a ricadere di nuovo nella situazione precedente, in modo che i giusti non si gonfino di orgoglio nella sicurezza e gli iniqui non si ostinino contro il rimedio nella disperazione? Le azioni invece in cui non c'è nulla da imitare o da evitare e che tuttavia si trovano nella sacra Scrittura, o vi sono state poste per creare quella connessione di occasioni con cui si giunge alle cose necessarie, oppure per il fatto stesso che sembrano superflue indicano chiaramente che bisogna cercare in esse l'annunzio di un qualche significato mistico. Non stiamo infatti parlando di libri in cui siano del tutto assenti cose chiarissimamente ispirate dallo Spirito profetico, oppure siano poche e non molte, il compimento delle quali dia testimonianza all'autorità divina con la luce fedelissima e splendida della verità. È dunque del tutto folle chiunque pensa che abbiano detto qualcosa di superfluo o quasi di fatuo libri ai quali vede che si è sottomesso ogni genere di uomini e di ingegni, e in cui legge che una simile cosa fu da essi predetta e riconosce che si è realizzata.

Non è colpa delle Scritture se qualcuno imita i peccati in essa narrati.

97. E che? Si deve forse incolpare la Scrittura se uno, leggendo l'azione di Davide, della quale egli si pentì per il rimprovero e la minaccia del Signore, prende da lì lo stimolo per peccare? Non sarà invece da condannare più duramente, per aver voluto utilizzare per ferirsi e uccidersi una cosa che è stata scritta per guarire e liberare? Poiché infatti gli uomini caduti nel peccato o trascurano per superbia la medicina della penitenza, o periscono del tutto perché disperano di riacquistare la salute e di meritare il perdono, è stato proposto l'esempio di un così grande uomo, affinché chi è malato guarisca, e non perché i sani si facciano del male. Non è un difetto della medicina se i folli danno la morte a se stessi o i malvagi la danno ad altri con i ferri della chirurgia.

I Patriarchi e i Profeti furono comunque migliori non solo degli eletti dei Manichei, ma anche del loro stesso dio.

98. Tuttavia i patriarchi e i profeti, nostri padri, ai quali la Scrittura rende tanto illustre testimonianza di santità e di pietà - Scrittura che nessuno, se non chi la ignora o ha perduto ogni senso di razionale osservazione, nega che sia stata elargita da Dio per la salvezza del genere umano - se pure fossero stati libidinosi e crudeli come li accusa l'errore o piuttosto la follia dei Manichei, non si potrebbe forse dimostrare anche in tal caso che erano migliori non dico appena dei loro eletti, ma persino del loro stesso dio? Non è forse meglio che un uomo che ha moglie si rotoli con una prostituta, piuttosto che la luce, che è purissima, si inquini mescolandosi alle tenebre? Ecco un uomo che, a causa dell'avarizia e del ventre, fingendo che la moglie fosse sua sorella la vendette perché giacesse con altri: ma quanto è peggiore ed esecrabile colui che, simulando che la propria natura fosse adeguata alla libidine di quelli che la desideravano, la sottopose loro gratuitamente perché la insozzassero e la corrompessero! E colui che giacque, per di più coscientemente, con le proprie figlie, non compie forse un male minore di chi mescola le proprie membra a lascivie pari a queste e di turpitudine anche peggiore? Cosa infatti viene commesso da uomini immondi e dissoluti di cui non si macchi il vostro dio, o Manichei, con tutte le sue turpitudini? Infine, se anche fosse vero che Giacobbe, come dice Fausto, si aggirava come un capro tra le quattro mogli, preoccupandosi non della discendenza, ma solo del piacere della lussuria, quanto meno misero egli sarebbe del vostro dio, che patirebbe tutta l'onta di quella lussuria non solo in Giacobbe stesso e nelle sue quattro mogli, essendo incastrato in tutti i loro corpi e movimenti, ma subirebbe tutto quel movimento e calore genitale anche nel capro stesso che quell'osceno ha comparato all'uomo e, mescolato ovunque in questa turpe condizione, verrebbe infiammato nel capro, inseminato nella capra, generato nel capretto! Per questo, anche se Giuda, oltre ad aver fornicato, si fosse pure coscientemente macchiato di turpe incesto verso la nuora, il vostro dio si sarebbe implicato, insozzato e infiammato anche nella libidine di quell'incesto. Davide si pentì dell'iniquità di aver amato la moglie di un altro e di aver ordinato di ucciderne il marito: il vostro dio, invece, quando mai si pentirà del fatto che, amato dalla stirpe tartarea - maschile e femminile - dei prìncipi delle tenebre, concesse le proprie membra alla loro libidine, e uccise non un marito del quale aveva amato la moglie, bensì i propri figli, nelle membra dei demoni, demoni dai quali egli stesso era stato amato? Ma se anche Davide non si fosse pentito e non avesse riottenuto con tale medicina la salute della giustizia, anche così sarebbe stato migliore di codesto dio dei Manichei. Supponiamo che Davide, assieme a questa stessa azione, ammettesse anche tutte quelle che un solo uomo potrebbe compiere: il loro dio, invece, per quella mescolanza dei suoi membri, è convinto di essere insozzato e disonorato in tutte le azioni di questo tipo compiute da tutti gli uomini. Fausto accusa anche il profeta Osea: se egli, soggiogato da una turpe concupiscenza, avesse amato la prostituta e l'avesse sposata, dal momento che voi predicate che le anime di entrambe, quella dell'amante lascivo come quella della turpe prostituta, sono parti, membra e natura del vostro dio, allora quella prostituta, - perché fare giri di parole e non parlare con chiarezza?-, quella prostituta sarebbe il vostro dio. Infatti non potete dire che egli, conservando incorrotta la santità della sua natura, cadde in quel corpo di prostituta non perché vi fu incatenato, ma perché vi si fece presente: affermate piuttosto che codeste membra del vostro dio sono inquinate in sommo grado e per questo hanno bisogno di una grande purificazione. Dunque quella prostituta, per la quale osate rimproverare l'uomo di Dio, sarebbe vostro dio anche qualora non fosse cambiata in meglio mediante un casto matrimonio: o, se non volete affermare proprio questo, per lo meno non negate che l'anima di quella prostituta sia una porzione, seppure minima, del vostro dio. Quindi la prostituta sarebbe migliore del vostro dio, perché sarebbe una sola, mentre egli, per la sua condizione di mescolanza all'intera stirpe delle tenebre, si prostituisce in tutte le prostitute, si rotola, è slegato e legato in tutti i maschi e le femmine che ovunque e in diversi modi fornicano e si corrompono, e di nuovo deve rotolarsi, essere slegato e legato nella loro progenie, finché la porzione più immonda del vostro dio, come una prostituta senza possibilità di redenzione, non sia relegata alle estremità del globo. Il vostro dio non è riuscito ad allontanare dalle sue membra questi mali, queste oscenità, queste vergogne, ed è giunto ad essi costretto dalla violenza di un nemico brutale: sebbene fosse ingiurioso e violento, non è nemmeno riuscito a ucciderlo e a salvare così i suoi cittadini o parti di sé. Quanto è migliore colui che, uccidendo l'Egiziano, difese e custodì incolume il fratello! E Fausto nella sua stupefacente vanità lo rimprovera, lui che con cecità ancora più stupefacente non vede il proprio dio! Sarebbe stato meglio per questo dio sottrarre i vasi d'oro e d'argento agli Egiziani, piuttosto che i suoi membri diventassero preda della stirpe delle tenebre! E tuttavia, pur avendo egli fatto una guerra così sfortunata, i suoi adoratori obiettano al servo del nostro Dio di aver intrapreso guerre, in cui egli insieme ai suoi trionfò sempre vincitore sui nemici, che poterono essere condotti come prigionieri o prigioniere perché Mosè combatteva dalla parte del popolo di Israele: cosa che anche il vostro dio avrebbe certamente fatto, se ne fosse stato in grado. Questo non è dunque denunziare i malvagi, bensì avere invidia dei più fortunati! E quale crudeltà ci fu in Mosè, per il fatto che castigò con la spada il popolo che aveva peccato gravemente contro Dio? Egli stesso implorò il perdono di questo peccato, offrendosi alla vendetta divina al loro posto. Ma se anche avesse compiuto quell'azione non con misericordia, ma con crudeltà, anche così sarebbe migliore del vostro dio. Infatti, se avesse inviato uno dei suoi, che erano incolpevoli e obbedienti, a rompere il cuneo dei nemici, e costui fosse caduto prigioniero, in alcun modo egli, ottenuta la vittoria, lo avrebbe condannato: come invece si appresta a fare codesto vostro dio con una parte di sé, che inchioderà al globo perché ha obbedito al suo ordine e perché, rischiando la morte, è avanzata contro i cunei nemici per la salvezza del suo regno. Però, dice, in questa successione dei secoli essa, già permista e coagulata con i malvagi, non ha obbedito ai suoi precetti. Domandiamoci il motivo. Se fu per volontà propria, la colpa è vera e la pena è giusta; se però è colpevole la volontà, non esiste alcuna natura contraria che spinga al peccato, e dunque risulta confutata e distrutta l'intera menzogna dei Manichei. Se invece fu soggiogata dal nemico contro il quale fu inviata, e sopraffatta da un male estraneo a sé al quale non poté resistere, allora la pena è ingiusta e grande la crudeltà. Ma si adduce a scusante il fatto che dio era soggetto alla necessità. Un tale dio adorano coloro che non vogliono adorare Dio! Eppure, bisogna ammetterlo, persino codesti suoi adoratori, sebbene adorando un tale dio siano pessimi, sono tuttavia migliori di lui, perché almeno esistono: egli invece non è nient'altro che un'invenzione falsa e un vano pensiero. Ma passiamo ora alle altre spiritose stravaganze di Fausto.